di Ian Traynor
Nel tardo pomeriggio di venerdì 10 luglio, mentre i ministri delle finanze europei stavano facendo la valigia per recarsi a Bruxelles a partecipare ad un ennesimo incontro sulla crisi del debito greco, una e-mail scioccante proveniente da Berlino arrivò nelle mail box di un piccolissimo numero di alti funzionari. All’inizio di quella settimana, i colleghi leader europei avevano dato un ultimatum al primo ministro greco, Alexis Tsipras: consegnare un piano radicalmente diverso di riforme economiche e tagli alla spesa, o affrontare la bancarotta.
Tsipras aveva consegnato un nuovo pacchetto di proposte, ma prima che i funzionari potessero incontrarsi a Bruxelles per discuterne, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sferrò un attacco preventivo: se il governo greco non avesse varato riforme più drastiche”, diceva l’e-mail tedesca, “alla Grecia si dovevano offrire negoziati veloci per la sospensione del Paese dall’eurozona.”
C’erano stati discorsi e congetture sulla possibilità dell’uscita della Grecia dalla moneta unica – e l’ atteggiamento degli altri membri dell’eurozona si era indurito contro Atene, nei sei mesi da quando Syriza, il movimento di sinistra di Tsipras, era andato al governo – ma fino a quel momento, nessuno aveva formalmente proposto di estromettere la Grecia.
“Era chiaro.” disse uno dei destinatari. “Era scritto nero su bianco. Era duro. Era brutale.” Schäuble, il politico con più esperienza al potere in Europa, era andato dritto alla giugulare – e l’e-mail aveva fatto risuonare campanelli d’allarme a Parigi, Roma, Francoforte e Bruxelles.
“Non è mai stata diffusa ufficialmente – solo ad un gruppo ristrettissimo”, disse un funzionario senior coinvolto negli incontri, che aveva visto l’e-mail il venerdì sera. “Dimostrava una linea dura. una posizione ferma. Era evidente che la Grexit era una opzione possibile. Ciò significava che il lunedì avremmo iniziato i preparativi”.
Le richieste di Schäuble diedero l’impronta al fine settimana di negoziati pieni di tensione che seguì – i giorni più fatali nella storia della problematica moneta unica, che si concluse con 17 ore di colloqui che si protrassero fino alle 8,30 del lunedì mattina.
Dopo cinque anni di crisi che avevano visto la Grecia salvata due volte – e il salvataggio di altri quattro paesi della zona euro – la questione era se la Grecia sarebbe potuta rimanere nell’euro, o se sarebbe diventata il primo paese ad essere cacciato. Per rimanere, e garantirsi un altro piano di salvataggio, Atene avrebbe dovuto capitolare alle pretese tedesche di austerità, revisionare i sistemi assistenziali, previdenziali e fiscali, e cedere la sovranità su gran parte dei processi decisionali.
La proposta di Schäuble era apparsa sui monitor dei livelli superiori della Commissione Europea verso le 18 di quel venerdì. Aveva la forma di un promemoria di una pagina – che gli eurocrati definiscono un “non-documento” – inviato da Thomas Steffen, uno dei deputati di Schäuble nel ministero delle finanze tedesco. Oltre a chiedere la sospensione della Grecia dalla moneta unica per almeno cinque anni, proponeva anche che Atene dovesse trasferire beni per il valore di 50 miliardi di euro – un quarto della ricchezza nazionale – in un fondo fiduciario con sede in Lussemburgo, controllato dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il fondo salva-Stati della zona euro. Sarebbe stata una enorme enterprise asset stripping [la pratica di acquistare una società in difficoltà finanziarie per smantellarla e rivenderne separatamente le attività per fare profitti – N.d.T.], sul modello della privatizzazione da parte della Germania occidentale delle proprietà di stato della Germania Est dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989: a poco a poco, i beni sarebbero stati liquidati, e il ricavato utilizzato per pagare il debito greco.
Sembrava una proposta volta ad assicurare l’uscita greca dall’euro: il funzionario di un Paese che partecipava ai colloqui ricorda di aver mandato un messaggio a un collega per dire che ora c’era un “60% di probabilità di Grexit” – per la prima volta, disse, aveva pensato che era non solo possibile, ma probabile.
“Parecchie persone erano veramente scandalizzate,” ha affermato un alto diplomatico a Bruxelles. “Era incredibile. Nessun paese avrebbe potuto accettare una cosa simile.” Per Matteo Renzi, il primo ministro italiano, l’ultimatum Schäuble era una pratica indifendibile di umiliazione della Grecia da parte della Germania. Doveva essere fermata.
Tra i leader, i banchieri centrali e i 19 ministri delle finanze della zona euro c’era chi si chiedeva se Schäuble fosse serio. Ma i funzionari più attendibili della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del fondo salva-Stati in Lussemburgo, che erano stati coinvolti nei negoziati fin dall’inizio, si resero conto che non stava bluffando – di fatto, erano al corrente da tempo dei piani di Schäuble. Ritenevano che Schäuble avesse deciso fin dall’inizio dell’anno – prima ancora che Tsipras fosse eletto e nominato primo ministro – che la zona euro dovesse essere protetta dai membri deboli: la Grecia era una passività e doveva andarsene.
All’età di 73 anni, Schäuble trasuda autorità e solennità. Cristiano-democratico, usa una sedia a rotelle da quando un tentato omicidio nel 1990 lo lasciò paralizzato dalla vita in giù. E’ il deputato più longevo nella Germania del dopoguerra, ed ha avuto una posizione centrale nel governo dal 1989. Ha condotto le trattative per la riunificazione tedesca, era presente alla nascita dell’euro a Maastricht nel 1992. Schäuble è l’uomo che ha “tradotto” ed elaborato per più di un decennio le idee acute ma mal formulate del Cancelliere Helmut Kohl, e ne era il successore d’elezione. Ma i due uomini caddero su uno scandalo per finanziamenti che portò a un’indagine penale sull’ex cancelliere e nel 2000 costrinse Schäuble a dare le dimissioni dalla guida del partito. Angela Merkel ne risultò la principale beneficiaria, e nuova leader del partito. Schäuble si sentì tradito da Kohl, e da allora non ha più parlato con lui, tuttavia il suo rapporto con Merkel è segnato da tensioni simili. Dopo un decennio in cui Schäuble è stato sostanzialmente il numero due nei governi della Merkel, ancora si rivolgono l’uno all’altra con il formale Lei invece che con il familiare Tu.
La manovra di Schäuble di quel venerdì 10 luglio fu scioccante, perché si ruppe un tabù: l’adesione all’euro sarebbe dovuta essere irrevocabile e Schäuble aveva dimostrato per la prima volta che la Germania riteneva che la moneta unica non lo fosse – e che era disposto a cacciarne fuori un Paese. La rivelazione spaventò i politici di tutta Europa. Qualcuno come Renzi, di fronte alla defenestrazione di Tsipras, avrebbe potuto comprensibilmente pensare: “Sarò io il prossimo?”
Nel mezzo delle infinite discussioni su cosa fare riguardo ai livelli insostenibili del debito greco, il memo di Schäuble affermava senza mezzi termini che, all’interno delle norme che disciplinano l’euro, non ci sarebbe potuto essere alcun taglio del debito. Se la Grecia avesse “temporaneamente” lasciato l’euro, però, si sarebbe potuta attuare qualche iniziativa più generosa per ridurre il suo debito. Sembrava quasi corruzione: “Vi pagheremo per andarvene.”
Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, e il suo capo di stato maggiore, Martin Selmayr, furono presi alla sprovvista dalla e-mail di Schäuble, e convocarono i due membri della Commissione europea responsabili per la moneta unica, Valdis Dombrovskis (Lettonia) e Pierre Moscovici (Francia). Juncker chiamò anche il presidente François Hollande a Parigi: entrambi erano determinati a mantenere la Grecia nell’euro, ma temevano che se Merkel avesse condiviso la decisione di Schäuble di espellere i greci, non avrebbero avuto il potere di fermarla. “Juncker e Hollande concordavano che si trattava di un evento drammatico e non doveva essere condotto a termine”, ha detto una fonte di Bruxelles. “Ma nessuno sapeva per certo se la decisione era solo di Schäuble o se era stata concordata con Merkel.”
Juncker e i suoi assistenti appresero della mossa di Schäuble solo il venerdì sera. Gli altri che ricevettero l’e-mail nelle stesse ore comprendevano: il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk e il suo braccio destro, la leadership francese, il capo della Banca Centrale Europea Mario Draghi, il ministro delle Finanze olandese Jeroen Dijsselbloem – che presiede la cosiddetta assemblea dei 19 ministri delle finanze nella moneta unica dell’Eurogruppo – e Thomas Wieser, l’economista austriaco e eurocrate anziano che guida il gruppo di lavoro di alti funzionari che prepara le riunioni mensili dell’Eurogruppo.
Perfino Merkel fu informata della bomba di Schäuble solo poche ore prima che il suo deputato cliccasse il tasto di invio. “La linea di comportamento è stata sempre accuratamente concordata all’interno del governo federale”, disse Schäuble più tardi, in un’intervista per un documentario sulla sua carriera trasmesso sulla televisione pubblica tedesca nel mese di agosto. “E’ stato scritto su un pezzo di carta al ministero delle finanze, è vero. L’ho discusso parola per parola con la cancelliera il venerdì e ho anche informato il vice-cancelliere per telefono. E poi siamo partiti per Bruxelles.”
Il sabato mattina, mentre Schäuble e i suoi colleghi ministri delle finanze si recavano a Bruxelles, Wieser convocava il suo gruppo di lavoro di alti funzionari. Era stato veramente spiazzato dalla proposta di Schäuble. Anche se la sua proposta non era stata discussa ufficialmente, i partecipanti riferirono che la si sentiva aleggiare silenziosamente durante la sessione. L’incontro fu teso e cupo. Ma l’atmosfera non fu nemmeno lontanamente tetra quanto lo sarebbe stata in seguito.
I tre giorni che seguirono l’annuncio shock di Schäuble avrebbero visto i ministri delle finanze e i banchieri delle banche centrali chiusi a condurre trattative fino alla mezzanotte del sabato prima di arrendersi al nulla di fatto. Ripresero le loro discussioni la domenica mattina, prima di passare il testimone ai leader nazionali, il cui summit iniziò alle 16 e si protrasse durante tutta la notte per 17 ore.
Fu il dibattito più intenso, più problematico, e più acceso a cui avessero mai partecipato i responsabili per l’economia europea – che si racconta qui attraverso le interviste a più di una dozzina di politici, negoziatori, e testimoni alle riunioni maratona di Bruxelles. Fino all’ultimo nessuno sapeva come sarebbe andata a finire.
La posta in gioco non avrebbe potuto essere più alta. I mercati finanziari erano in attesa di scattare a qualsiasi segnale di debolezza, alla riapertura del lunedì mattina. Cacciare i greci avrebbe inviato un segnale terrificante ai paesi più deboli della zona euro, l’avvertimento che dovevano rispettare le istruzioni provenienti dalla Germania su bilanci solidi, austerità, tagli alla spesa pubblica, riforme.
Ma mantenere la Grecia nell’euro sarebbe stato difficile: dopo cinque anni del più ampio piano di salvataggio della storia, la fiducia dell’Europa in Atene era scesa al livello più basso di tutti i tempi. In Grecia, il collasso del tenore di vita, l’impennata della povertà, l’austerità senza fine, e la diminuzione della sovranità nazionale erano culminati nella elezione del primo governo di sinistra radicale dell’eurozona, che si era impegnato a sfidare Berlino e Bruxelles rifiutando l’austerità e tuttavia rimanendo a far parte dell’Euro.
Alla fine, si sarebbe giunti a un inaspettato compromesso dell’ultimo minuto tra Merkel e Tsipras, dopo 10 estenuanti ore di trattative notturne.
Gli ultimi sei mesi di negoziati con il governo di Alexis Tsipras erano andati in un solo modo – di male in peggio. Dall’inizio del suo mandato a gennaio, Tsipras si era mostrato poco incline a trovare un accordo alle condizioni dei creditori, e in entrambe le parti cresceva l’esasperazione.
Per gli europei, l’ostacolo principale era l’impertinente ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, il cui fascino e la cui retorica radicale occupavano le prime pagine dei giornali. Negli avversari di Varoufakis era rapidamente cresciuta l’irritazione per quello che consideravano il suo protagonismo nel corso delle sue apparizioni mensili dinanzi alla commissione dei ministri delle Finanze dell’Eurogruppo. I suoi sforzi per creare divisioni e mettere gli altri ministri delle finanze uno contro l’altro, ottennero solo di coalizzarli contro di lui. In una riunione di febbraio, Varoufakis e Dijsselbloem vennero quasi alle mani. Moscovici, l’ex ministro delle finanze francese e membro della Commissione europea, dovette intervenire per evitare una rissa. “Ci fu un episodio di tensione fisica tra Dijsselbloem e Varoufakis” ha rivelato Moscovici in un’intervista per un documentario andato in onda alla televisione francese all’inizio di questa settimana. “Si accusarono reciprocamente di essere dei bugiardi. Dovetti intervenire.” ha detto. “Mi ci volle un po’ per separarli.” Da quel momento in poi, Varoufakis e Dijsselbloem non si sono più parlati.
A giugno le trattative con la squadra di Tsipras non solo erano a un punto morto, ma avevano portato ad una rottura completa della fiducia tra le due parti. I negoziati non stavano andando da nessuna parte. Il salvataggio in corso, di 130 miliardi di euro – il secondo della Grecia – sarebbe scaduto il 30 giugno. Se i greci non avessero agito, l’avrebbero fatto i creditori.
Il 1° giugno, con la scadenza che si avvicinava velocemente, Merkel aggirò Schäuble e Dijsselbloem e convocò all’improvviso una riunione di leader-chiave europei nella sua scintillante cancelleria di Berlino: vi parteciparono Hollande e Juncker, insieme a Mario Draghi e Christine Lagarde, direttore operativo del Fondo Monetario Internazionale.
Il mini-vertice di Merkel iniziò a tarda sera protraendosi fino alle due di notte, e produsse un “promemoria” di cinque pagine che delineava quello che i greci avrebbero dovuto fare per salvare la situazione. Era l’inizio della fase finale.
L’obiettivo principale della Merkel era di venire a capo delle residue divergenze tra i leader europei e il FMI e assicurarsi che tutti fossero sulla stessa lunghezza d’onda. “Ognuno aveva interessi diversi, ma si definirono le condizioni di base per un accordo con Tsipras” disse una persona che era presente alla riunione. “Lasciammo la riunione con le basi per un terzo piano di salvataggio.” La mattina dopo Lagarde telefonò a Merkel per ribadire ciò che era stato concordato e per sottolineare che il FMI non voleva altre trattative. Era un “prendere o lasciare” per i greci. Tuttavia seguì un mese frenetico, di scadenze prorogate, molteplici “ultime possibilità”, diversi ultimatum, quattro vertici e quattro riunioni dei ministri delle finanze dell’eurozona a Bruxelles e in Lussemburgo.
Dopo tutto questo, non c’era ancora nessun accordo – e a mezzogiorno di venerdì 26 giugno, dopo un colloquio privato con Merkel, Tsipras lasciò quietamente il vertice di negoziazione che si teneva a Bruxelles. Senza dire nulla agli europei, tornò ad Atene e, a mezzanotte, indisse un referendum nazionale sulle condizioni di un ipotetico accordo con l’eurozona, che in un discorso descrisse in termini di “ricatto” e “umiliazione”. Merkel ne fu veramente scioccata, a parere delle persone che ne conoscevano bene i punti di vista. Tsipras sperava che il referendum, che si sarebbe tenuto il 5 luglio, avrebbe mandato un potente messaggio agli altri paesi della zona euro. Come si espresse il ministro dell’energia greco, Panagiotis Lafazanis: “Se il popolo greco dice un grande no, sarà impossibile per coloro che detengono il potere non prenderne atto, a meno che la democrazia non esista più.”
Tsipras affermò insistentemente che la consultazione non era sull’uscita dall’euro. Per gli infuriati leader dell’eurozona, invece, l’argomento era esattamente quello: Merkel, e perfino Hollande – che era stato il più comprensivo verso i greci – dichiararono che un voto negativo avrebbe significato lasciare la moneta unica. Il 29 giugno Juncker, nella conferenza stampa più infervorata che abbia mai tenuto, con lo sfondo di una bandiera greca, si soffermò enfaticamente su quel punto, dando l’impressione che l’Europa a cui aveva dedicato gran parte della sua vita si stesse in certo qual modo dissolvendo.
La scadenza del 30 giugno arrivò senza la parvenza di un accordo, il che significava che la Grecia non avrebbe avuto un piano di salvataggio ed sarebbe fallita. Nel referendum del 5 luglio, l’elettorato greco ascoltò Tsipras, non i leader dell’eurozona, e sostenne il primo ministro con il 61,3% dei voti che dicevano OXI all’austerità e gli europei.
Il voto ‘NO’ distrusse quel poco di fiducia rimasta tra le parti, e l’uscita della Grecia dall’euro fu messa all’ordine del giorno. La Banca Centrale Europea congelò i trasferimenti di liquidità alle banche greche e furono imposti controlli sui capitali. In Grecia l’impatto fu immediato, le banche chiusero e lunghe file di persone si formarono davanti ai pochi bancomat che avevano ancora banconote da erogare. Da entrambe le parti, la “tattica del rischio calcolato” era andata oltre ogni previsione.
Tuttavia non c’è nulla che i leader europei invidino e ammirino di più del successo alle urne. Il mandato a Tsipras di quel 61% diceva alla Merkel che il giovane primo ministro era una forza da non sottovalutare. “Furono colpiti da quanto largamente aveva vinto il referendum”, disse un alto funzionario coinvolto nei negoziati. “Non gradirono il risultato, ma si resero conto di quanto Tsipras fosse formidabile.”
Era questo il poco promettente scenario quando si giunse al week-end critico dei negoziati. Eppure, nei giorni che precedettero quel sabato 11 luglio in cui i ministri delle finanze avrebbero dovuto incontrarsi, sembrò ancora esserci un barlume di speranza. Il 7 luglio Varoufakis, che non aveva fatto altro che esasperare i suoi colleghi ministri delle Finanze, diede le dimissioni. L’arrivo del suo sostituto, Euclid Tsakalotos, un pacato uomo di sinistra con studi a St Paul ed Oxford, allentò subito le tensioni. “Il nuovo ministro delle finanze aveva un atteggiamento completamente diverso”, disse un alto funzionario dell’Unione europea che ci aveva avuto a che fare direttamente. “Iniziarono a vederci come esseri umani e non come robot. Rese le cose molto più facili. “
Tsipras modificò la sua posizione sui termini del piano di salvataggio. Pochi giorni dopo che il popolo greco aveva respinto i termini di austerità dell’ Europa, Tsipras fece un’inversione di marcia. Al fine di garantirsi un terzo piano di salvataggio, presentò una nuova serie di severe proposte di riforma molto simili a quelle contro le quali aveva appena fatto la campagna referendaria. Durante un drammatico dibattito, che si concluse con una votazione diverse ore dopo mezzanotte nella notte di venerdì 10 luglio, il parlamento greco diede a Tsipras una schiacciante maggioranza a sostegno delle sue proposte. Sfortunatamente, queste erano le proposte che Schäuble aveva stracciato in mille pezzi nella sua nota riservata – inviata solo poche ore prima che il parlamento greco si accingesse al voto.
I summit dell’Unione Europea si tengono a Bruxelles, in un grande e banale edificio di granito rosa che si affaccia su una strada a quattro corsie continuamente intasata dal traffico diretto al centro città, distante due chilometri. Conosciuto come edificio Justus Lipsius, è il quartier generale del Consiglio Europeo, che rappresenta i 28 Stati membri – e ospita l’ufficio di Donald Tusk, il Presidente del Consiglio, che convoca e presiede i vertici.
Da quelle parti si sta sempre “costruendo l’Europa” – e non solo metaforicamente: l’intero quartiere è un cantiere permanente. In una strada fangosa e piena di buche, poco più in là di un hotel Sheraton recentemente demolito, si trova un edificio di acciaio e vetro, il palazzo Lex. Fu qui che alle 15,30 di sabato 11 luglio, l’Eurogruppo dei ministri delle finanze si riunì, insieme con gli alti funzionari della “troika” di creditori della Grecia: la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale.
I funzionari della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea reagirono positivamente alle ultime proposte greche: essi fornirono ai ministri una prima valutazione dell’offerta greca, vista come il primo serio tentativo di transazione da parte di Tsipras, e un punto di partenza adeguato per quel fine settimana di negoziati.
Ma i falchi finanziari dell’eurozona non avrebbero mai accettato: dovevano essere loro gli artefici del programma, non i greci.
Questo divenne chiaro quando Schäuble e Dijsselbloem arrivarono, e cancellarono rapidamente ogni prematuro ottimismo. “Come possiamo attenderci che questo governo [greco] attui quello che adesso promette?” disse Dijsselbloem ai giornalisti. Schäuble era scuro in volto, sprizzava disprezzo. Mentre la calca della stampa si ammassava all’entrata dell’edificio per guadagnare i gradini d’ingresso (una curiosa abitudine dei giornalisti a Bruxelles) il tedesco preannunciò “trattative estremamente difficili”.
Il documento di Schäuble, a quel punto ormai noto alla maggior parte dei partecipanti, aveva fatto a pezzi l’ultima offerta di Tsipras. Diceva: “Queste proposte mancano di una serie di aree di riforma di primaria importanza per modernizzare il paese. La riforma del mercato del lavoro, la riforma del settore pubblico, le privatizzazioni, il settore bancario, le riforme strutturali, non sono sufficienti. Questo è il motivo per cui queste proposte non possono costituire la base per un programma triennale completamente nuovo.”
I fautori della linea dura nella riunione dei ministri delle finanze non vollero neanche discutere di un nuovo piano di salvataggio, preferendo passare direttamente a parlare di come gestire le conseguenze dell’espulsione dei greci. Alexander Stubb e Peter Kažimir, i ministri delle finanze finlandese e slovacco, spinsero per il passaggio al cosiddetto Piano B: l’espulsione della Grecia dall’euro. (In seguito trapelò che Stubb era venuto alla riunione con le istruzioni di non discutere né approvare un nuovo piano di salvataggio.)
Il clima prevalente nella riunione era aggressivamente anti-greco, con l’eccezione dei francesi, degli italiani, e di Cipro. Schäuble fu misurato, ma altri, riferì un ministro, furono “sgradevoli e malevoli” verso la Grecia.
L’unico che sfidò direttamente Schäuble sul punto fondamentale dell’espulsione della Grecia dall’euro fu Michel Sapin, il suo omologo francese. Pubblicamente, Sapin avrebbe in seguito definito con disdegno il documento Schäuble “playing to the gallery” [dare uno spettacolo inteso a riscuotere il plauso di un pubblico di basso livello – N.d.T.]. In forma privata, disse alla conferenza che non vi era alcuna clausola di legge che prevedesse l’uscita di un paese dall’euro, né temporaneamente né in altro modo. La Grexit non era un’opzione. Aveva ragione, ma questo era un ragionamento giurisprudenziale: formalmente la Grecia non avrebbe potuto essere espulsa, ma si sarebbero potute rendere le cose così difficili per Atene da non lasciarle altra scelta.
Nel corso della riunione – che uno dei partecipanti descrisse come “virile” – sembrò crescere l’entusiasmo di sbattere fuori i Greci. Schäuble non disse molto, ma dopo qualche ora se ne uscì con un altro intervento studiato per scioccare. Propose che venisse ordinato a tutti i funzionari greci che lavoravano nelle istituzioni dell’UE di tornarsene ad Atene per ricostruire il loro paese – per via che erano esattamente il tipo di persone di cui lo Stato greco aveva bisogno per rivedere la sua pubblica amministrazione, notoriamente disfunzionale. Quando si levarono voci di protesta, l’incorreggibile Schäuble disse: “Sono l’unico creativo, qui.”
La sfida più significativa a Schäuble venne da Mario Draghi, che insistette sul fatto che 25 miliardi del pacchetto di salvataggio dovevano andare a ricapitalizzare le quattro banche principali della Grecia; Schäuble si lamentò che 37 miliardi erano già stati versati a queste stesse banche nel 2012, e non aveva senso ripetere l’esperienza. Se le banche dovevano essere puntellate, insisteva Schäuble, dovevano essere i loro investitori, azionisti e risparmiatori a sostenere i costi della ricapitalizzazione. Ma Draghi, appoggiato dalla Commissione, replicò che un simile “bail-in” avrebbe innescato un esodo di massa di fondi dalla Grecia, a cui erano già stati imposti controlli sui capitali e limiti di prelievo per limitare l’assalto alle banche.
Mario Draghi, che tre anni prima aveva dichiarato che avrebbe fatto “tutto il possibile per salvaguardare l’euro”, non avrebbe tollerato un’uscita della Grecia, mentre Schäuble rimaneva il più esplicito fautore dell’espulsione. I francesi e gli italiani si sorpresero di quanto fosse seria la maggior parte degli altri Paesi riguardo alla cacciata della Grecia. Ma Dijsselbloem sviò abilmente la discussione per evitare una indicazione diretta e in prima serata, con la sua squadra, elaborò una dichiarazione. Fu respinta dai sostenitori della linea dura – tra cui tedeschi, slovacchi, finlandesi e olandesi.
Alle 19, rendendosi conto che non si stava andando da nessuna parte, Dijsselbloem propose una pausa. Mentre nella riunione dei ministri delle finanze si fremeva per la situazione di stallo, i media partivano in quarta. La proposta “caccia-i-greci-a-calci” di Schäuble era trapelata, ed era stata pubblicata sul sito internet del principale giornale conservatore, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ). Funzionari e portavoce furono sommersi di domande circa l’ultimatum tedesco, ma, a disagio, insistevano a dire che non c’era stata alcuna discussione sulla proposta di Schäuble di sospendere la Grecia per cinque anni. I testimoni delle discussioni che facevano qualche occasionale apparizione davano l’impressione di essere in preda al panico. Avvicinati dai giornalisti tacevano smarriti.
Durante l’intera durata della crisi dell’euro, il ministero delle finanze di Schäuble a Berlino era stato la fonte principale e più indiscriminata della diffusione ufficiosa di documenti riservati sulla Grecia – perciò fu largamente ipotizzato che fosse stato l’ufficio di Schäuble ad aver fatto trapelare il documento a Thomas Gutschker, giornalista dell’edizione domenicale della FAZ, allo scopo di aumentare la pressione sulla Grecia. Quando gli fu chiesto, Gutschker rifiutò di rivelare chi aveva fatto trapelare il documento – ma altre tre fonti, tutte tedesche, puntarono il dito contro il capo dello staff di Juncker, il tedesco Martin Selmayr. Secondo queste fonti, Selmayr aveva sperato di screditare la proposta di linea dura di Schäuble, rivelandola pubblicamente.
Quando i ministri delle finanze ripresero la riunione a mezzogiorno di domenica, si trovarono davanti un documento di quattro pagine che Dijsselbloem e la sua squadra avevano messo insieme dopo che i ministri erano andati a letto la sera prima. “Dijsselbloem e Wieser decisero di mettere tutto nel documento,” disse uno dei partecipanti, “compreso tutto ciò che non era stato concordato.” Il documento includeva i termini della nota di Schäuble, comprese le due richieste chiave – la sospensione quinquennale e il fondo fiduciario lussemburghese che avrebbe svenduto i beni dello Stato greco – a dispetto del fatto che diversi funzionari avevano protestato che non erano state formalmente discusse il giorno prima. I punti controversi erano stati inseriti tra parentesi quadre, e ciò stava a significare che non erano stati concordati. Nondimeno, il loro inserimento lasciava fortemente intendere che Schäuble aveva insistito affinché rimanessero – e che lui aveva ancora un ampio sostegno. Di fatto, quella mattina, prima che Merkel partisse per Bruxelles, Schäuble aveva parlato in teleconferenza con lei e Gabriel, il vice-cancelliere; era sufficientemente fiducioso nel loro sostegno da insistere sul fatto che la clausola di sospensione restasse un’opzione.
Alle 16 di domenica 12 luglio, Merkel, Tsipras, e gli altri 17 leader nazionali dell’Eurozona arrivarono per il loro incontro al vertice – insieme con i capi della Commissione Europea, del Consiglio Europeo, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale. L’atmosfera era già orribile. La riunione dei ministri delle finanze del giorno prima non era riuscita a rompere l’impasse, e i politici in arrivo erano tesi e scuri in volto.
Ancora nella tarda mattinata, non era nemmeno chiaro chi sarebbero stati i partecipanti. All’inizio di quella settimana, Tusk aveva dichiarato che quella domenica avrebbe potuto essere il giorno di una riunione “da ultima chance” dell’intera Unione Europea – compresi membri fuori dall’eurozona come il Regno Unito – che avrebbe dato il segnale della fine per la Grecia, con un incontro dedicato ai preparativi per il periodo immediatamente successivo al distacco del Paese. Ma la riunione di sabato dei ministri delle finanze era stata così litigiosa ed emotiva che Tusk aveva deciso all’ultimo momento di riunire solo i leader dell’Eurozona, in un ultimo tentativo di appianare le loro divergenze. Era molto preoccupato, ben consapevole che le sedute del sabato erano state un fallimento, e determinato a evitare un completo collasso. Inoltre era stato fissato un incontro degli ambasciatori nazionali di tutti i paesi dell’Unione per una seduta dedicata esclusivamente ad affrontare ciò che sarebbe successo dopo che la Grecia avesse lasciato l’euro. Tusk lo annullò.
Il vertice dei leader ebbe luogo al “Livello 80”, il piano protetto più alto del tetro palazzo del Consiglio – un ampio spazio con pareti rivestite di pannelli in legno, dove i delegati sedevano intorno a un grande tavolo ovale o si allontanavano per consultarsi o per fare telefonate – e nel più piccolo ufficio di Tusk, tre piani sotto. Anche se erano presenti più di due dozzine di persone, la riunione gravitava essenzialmente intorno alla negoziazione tra Merkel e Tsipras, con la mediazione di Tusk e François Hollande. La prima di queste sedute si svolse circa tre ore dopo l’inizio del meeting, quando Tusk annunciò una pausa e convocò gli altri tre in una discussione ristretta.
“E’ come un enorme “waterboarding” [tortura consistente in soffocamento con l’acqua – N.dT.] psicologico”, disse quel giorno un alto funzionario. “Loro [Merkel e Hollande] hanno bisogno di vedere se lui [Tsipras] ha davvero intenzione di farlo.”
In maggioranza i leader europei furono semplici spettatori della vicenda che si stava svolgendo. Cenavano. Sorseggiavano vino bianco, chiacchieravano, e schiacciavano pisolini, mentre i loro collaboratori aspettavano nelle stanze dei delegati su altri piani. I due italiani, Renzi e Draghi – l’uno primo ministro e l’altro banchiere della BCE – ebbero il tempo di conoscersi meglio. Juncker, quando non dormiva, sedeva con Draghi a studiare la complessa aritmetica di un prestito ponte per prevenire l’inadempienza dei greci nel rimborso del debito. Lagarde e Mark Rutte, il primo ministro olandese, furono occasionalmente coinvolti da Tusk. Gli altri oziavano. Il presidente della Lituania e il primo ministro della Slovenia presto ne ebbero abbastanza e se ne andarono.
“Non avevamo mai visto niente di simile” ha detto una persona “tre o quattro che si riuniscono separatamente e prendono decisioni, e tutti gli altri senza nulla da fare, alcuni di loro sonnecchiavano. Una cosa sgradevole, che ha lasciato cicatrici. “
Merkel e Tsipras trascorsero più di dieci ore in colloqui separati dal summit, chiusi nel loro psicodramma, quello di salvare o distruggere l’euro. Tsipras, a disagio con i dettagli economici, chiese se poteva far entrare il suo ministro delle finanze, Euclide Tsakalotos. Nessun problema, rispose Merkel – ma allora lei, ovviamente, avrebbe avuto bisogno di Schäuble. Sui volti apparve il disappunto, poi le espressioni si alleggerirono. Stava solo scherzando.
La proposta di sospensione di Schäuble fu rapidamente eliminata dalla documentazione in quanto superflua. Se si fosse giunti ad un accordo non ci sarebbe stata l’uscita della Grecia dall’euro. Se il vertice fosse fallito, l’esito sarebbe stato comunque l’uscita: non c’era nessun bisogno di esplicitarlo.
Le linee rosse di Tsipras divennero presto evidenti: per prima cosa, non voleva il coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale in altro piano di salvataggio – o, almeno, voleva che gli fosse risparmiato l’imbarazzo di richiedere l’aiuto del FMI. In secondo luogo, non voleva sottostare all’insistenza dei creditori che volevano che annullasse alcune delle leggi varate da Syriza (l’abolizione di alcuni tagli alle pensioni, lo stop alle privatizzazioni, e il reintegro di alcuni lavoratori del settore pubblico) per il fatto che non erano state approvate dall’eurozona. In terzo luogo, e ancora più cruciale, non poteva aderire al fondo fiduciario lussemburghese di Schäuble, che vedeva come un tentativo scandaloso dell’Europa di rubare l’argenteria di famiglia greca.
Ad un certo punto, nella tarda notte di domenica, Tusk convocò il primo ministro olandese Rutte a un incontro ristretto con Merkel, Hollande e Tsipras, descritto da un osservatore “molto infelice”. Rutte aveva una posizione particolarmente dura riguardo alla richiesta che Tsipras abrogasse la normativa che l’eurozona non aveva approvato; Tusk lo considerava, insieme con i finlandesi, gli slovacchi, e gli stati baltici, il rappresentante dell’intransigenza finanziaria del nord e dell’est dell’eurozona. Secondo i partecipanti al negoziato, fu Lagarde che contribuì a definire una formula che sdrammatizzasse la questione delle leggi: invitata da Tusk a discutere la questione con Tsipras, propose che, mentre alcune leggi avrebbero dovuto essere abrogate, altre avrebbero potuto essere mantenute per “motivi umanitari” – al fine di attutire l’impatto dell’austerità per i greci più poveri.
Alle tre del mattino, le prospettive apparivano desolanti. I greci ed i tedeschi erano irremovibili. I francesi e gli italiani erano allarmati. E il resto dei paesi della zona euro – tra cui Portogallo, Irlanda e Spagna, che avevano sofferto per le condizioni di austerità imposte dai propri piani di salvataggio – erano sempre meno disposti a fare concessioni alla Grecia. La disponibilità a fare qualsiasi favore ad Atene si era dissolta.
A questo punto, Hollande lasciò la riunione e portò dieci dei suoi collaboratori, tra cui Sapin, alla sede della delegazione italiana. Il presidente francese bussò sul vetro: “C’è Matteo?” Entrò e chiese a Renzi: “Che cosa dobbiamo fare con la Grecia?” Dopo mezz’ora di colloquio, Hollande e Renzi decisero che la Grecia dovesse rimanere nell’euro a tutti i costi. Allora Renzi andò da Merkel e Tsipras, e li supplicò di trovare un accordo. “Angela,” disse a Merkel, “ora devi decidere.”
Mezz’ora dopo, alle 4 del mattino, Tusk era abbastanza fiducioso che un accordo fosse vicino da riconvocare il vertice al completo. Una svolta sembrava essere a portata di mano, anche se i greci stavano ancora mormorando contrariati a proposito del Fondo Monetario Internazionale e del fondo fiduciario lussemburghese. Poi Tsipras sparì per mezz’ora per telefonare ad Atene. Quando, alle 5 del mattino, ritornò, era pallido e intransigente. Nessun accordo. Merkel era anche lei impietrita. Ma Hollande e Tusk non intendevano tollerare un insuccesso. Tsipras disse loro che il fondo fiduciario era “irrealizzabile e inaccettabile”.
Tusk interruppe di nuovo il vertice e impose ai leader greci, tedeschi e francesi di riunirsi in seduta separata. Fu la più brutale di tutto il weekend – e si andò pericolosamente vicini all’espulsione forzata della Grecia dall’euro. Per tre ore i leader discussero del fondo fiduciario lussemburghese da 50 miliardi di Schäuble, ma nessuno dei presenti concordava sulle cifre o sulla struttura. Tusk ebbe paura di stare presiedendo un fallimento di portata storica. Alle 6,30 si era rassegnato alla sconfitta: era giunto alla conclusione che Merkel e Tsipras erano più preoccupati di non tornare a casa da perdenti – si stavano impegnando a cercare ogni modo per non mettersi d’accordo.
Quasi tutti tranne Merkel e Tsipras consideravano il punto di scontro cruciale – il fondo fiduciario – vagamente assurdo. L’importo di 50 miliardi era considerato non rilevante dagli altri presenti: nessuno riusciva ad immaginare dove la Grecia avrebbe trovato 50 miliardi di beni da privatizzare, e l’idea di consegnarli a un fondo fiduciario in Lussemburgo era un affronto a cui nessun governo avrebbe verosimilmente acconsentito. “E’ impossibile produrre questi 50 miliardi” disse un alto funzionario coinvolto nei negoziati. “Lo sapevano tutti.” Lagarde e Juncker consideravano entrambi l’idea “simbolica, ma risibile”. Altri partecipanti ricordavano di essere rimasti sbalorditi nel vedere il fondo fiduciario diventare il maggiore ostacolo ad un accordo dopo cinque anni di crisi, e lo definirono “stupido”, “privo di senso” e “insensato”.
Ma per Merkel era un nodo cruciale, un risultato da portare a casa ad un parlamento sempre più scettico. Per Tsipras, il fondo era rovinoso, ma se avesse dovuto mandarlo giù, insisteva che avesse base in Grecia, invece che in Lussemburgo, in modo da poter almeno rivendicare una sorta di sovranità sulla disposizione. Merkel cedette su questo punto, ma non volle accettare la richiesta di Tsipras che la metà del fondo venisse destinata ad investimenti in Grecia; avrebbe consentito che solo 10 miliardi fossero riallocati a quello scopo, mentre gli altri 40 miliardi avrebbero ripagato il debito greco e aiutato le sue banche in difficoltà. Continuava a non esserci alcun accordo. Tsipras vedeva un ritorno a casa disastroso. Merkel voleva rinunciare, e suggeriva di tenere un ennesimo summit due giorni dopo.
Poi il telefono di Tusk emise un “ding”. Era un messaggio di Rutte, il primo ministro olandese. Lui e diversi altri leader che erano stato lasciati da parte nella trattativa, ma stavano attentamente seguendone i progressi, avevano messo insieme una proposta che pensavano avrebbe potuto sbloccare la situazione. Il messaggio di Rutte a Tusk suggeriva che la “posta” da 10 miliardi di Merkel per gli investimenti in Grecia, venisse aumentata a 12,5 miliardi. Hollande cercò di convincerla, ma lei esitava. Tusk e Tsipras concordarono sulla nuova formulazione, che si disse essere stata messa a punto dal primo ministro portoghese, Pedro Passos Coelho.
Tusk si appellò al senso della storia della Merkel, del suo retaggio. Le disse che non poteva credere che l’eurozona stesse flirtando con la catastrofe a causa dell’irrisoria cifra di 2,5 miliardi. L’Unione europea era sull’orlo di un suicidio politico. Merkel accettò di parlarne, di rivedere le cifre e cercare schemi diversi per la strutturazione del fondo.
Un accordo era quasi a portata di mano. Alle 6,30 Tsipras chiese che un altro membro della sua squadra potesse partecipare alla seduta finale per aiutare nella stesura dell’accordo transattivo.
Quando Glenn Kim, un banchiere d’investimento californiano di origine sud-coreana, entrò nella stanza – unico dei negoziatori greci a indossare una cravatta – si girarono diverse teste. “Era una cosa talmente strana” ha ricordato un alto funzionario. “E’ andato dritto alla riunione dei leader. La gente era sorpresa – ma a quel punto era così tardi, la gente era talmente stanca, che quella era solo un’ulteriore stranezza”. Kim, un esperto con 20 anni di esperienza alla Lehman Brothers che era stato mandato a Londra per dismettere le attività europee della banca dopo il fallimento, aveva una sicura padronanza degli arcani dettagli di una catastrofe finanziaria – motivo per cui era stato assunto da Varoufakis, all’inizio dell’anno, per rafforzare la squadra greca senza esperienza nelle trattative con i creditori europei.
Ora prendeva parte alla trattativa, insieme a Merkel, Tsipras, Tusk, Hollande e Tsakalotos, per le decisive fasi finali. Dopo 17 ore chiusi insieme nel quartier generale del Consiglio Europeo, i leader dell’Eurozona raggiunsero infine un accordo. Alle 8,39 del lunedi mattina, il primo ministro belga, Charles Michel – il primo ad afferrare il telefono – inviò un tweet di una sola parola: “Accordo”.
Alla fine, Tsipras si era arreso a un copione scritto a Berlino, rinnegando le sue promesse elettorali e dividendo il suo stesso partito, cosa che non gli ha impedito di vincere il elezioni anticipate indette nel mese di settembre. Ma la domanda più importante forse è: cosa ha comportato per la Germania e per l’Europa l’esperienza, che costringe a riflettere, di quel fine settimana di tensione? Il tentativo di Schäuble di bandire la Grecia dall’eurozona non è riuscito, ma ha resuscitato lo spettro del bullismo tedesco – l’esito del vertice, ha scritto la Süddeutsche Zeitung di Monaco, è equivalso a una dimostrazione della potenza tedesca a scapito della leadership tedesca.
Merkel ha ascoltato Schäuble, ha scelto di non fermarlo, e poi alla fine si è imposta su lui – forse non tanto per il bene della salvezza della Grecia e dell’euro, quanto per evitare di essere incolpata per le conseguenze imprevedibili. Il lunedì mattina, quando tutto era finito, le sue riflessioni sull’accordo furono prettamente pragmatiche: “I vantaggi”, concluse, “superano gli svantaggi.”
Traduzione di Annamaria Gobbetti
Articolo pubblicato su The Guardian
Fonte: nuovatlantide.org
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