La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 19 giugno 2016

Partiti di quale nazione?

di Giovanni Battista Zorzoli 
Il montare della rivolta contro gli happy few è l’unico dato unificante l’eterogeneità dei percorsi scelti dal dissenso, ormai maggioritario negli Stati Uniti, mentre in altre nazioni è poco al di sotto del 50% del corpo elettorale. Un’ulteriore conferma che da società liquide – come le ha definite Zygmunt Bauman – siamo passati a società frantumate. I risultati delle primarie USA hanno reso possibile l’ipotesi di un presidente che mescoli rigurgiti nazisti con la demagogia di certi dittatori sudamericani d’antan, ma nel contempo hanno rivelato l’imprevisto consenso per un candidato, Bernie Sanders, che si dichiara apertamente socialista, vocabolo a lungo considerato impronunciabile da chiunque intendesse fare politica oltreoceano. In Spagna il movimento degli indignati non si è esaurito per sfinimento, come prevedevano non pochi osservatori, ma ha dato vita a Podemos.
Nel Regno Unito, la scelta di Jeremy Corbyn alla guida del Labour Party rappresenta una svolta rispetto al blairismo prima imperante. In Austria una straordinaria affluenza alle urne ha sconfitto, se pur al photofinish, il candidato dell’estrema destra xenofoba, eleggendo alla presidenza della repubblica il candidato dei Verdi, Alexander van der Bellen. Una reazione analoga si era verificata precedentemente nelle regionali francesi. In entrambi i casi si tratta però di reazioni meramente difensive.
In Italia, la prima tornata delle elezioni comunali mette in luce una situazione ancora una volta diversa da quelle fin qui descritte. Un primo dato incontrovertibile è l’esiguità dei suffragi raccolti da tutte le liste che si sono contrapposte al PD da sinistra. È il riflesso elettorale di uno stato di cose che ha visto la reazione sindacale aljobs act limitata a otto ore di sciopero, convocato a fatica da due soli sindacati. In materia un abisso separa l’Italia da quanto sta accadendo in Francia contro la loi Khomri.
I voti della rivolta sono così andati in maggioranza al M5S e in misura più ridotta alla Lega (il risultato della Meloni è fenomeno esclusivamente romano). Inoltre, dove un candidato del PD partecipa al ballottaggio, una parte almeno dei voti andati ai candidati esclusi sembra convergere in prevalenza sul candidato che gli si oppone; tendenza che in larga misura sembra prescindere da indicazioni più o meno esplicite dei partiti fuori gioco e non ha certo le giustificazioni dei casi francese e austriaco. Supponiamo che il meccanismo elettorale americano sia concepito in modo da contrapporre nel ballottaggio Hillary Clinton e Bernie Sanders: sarebbe impensabile che lo sconfitto Trump chiedesse ai suoi elettori di appoggiare Sanders. Invece Salvini, per sconfiggere Renzi, si è pronunciato a favore del M5S (l’hanno fatto anche alcuni esponenti di Forza Italia).
Questi atteggiamenti, come la soddisfazione, diffusa a sinistra, per la possibile sconfitta di Renzi, non mi scandalizzano; semmai stupiscono per la loro cecità. La legittima ostilità alla politica renziana, tesa a costruire il partito della nazione, li porta però a rafforzare un movimento che si propone di realizzare un altro, forse ancora più trasversale, partito della nazione, anche se formalmente rifiuterà questa denominazione. Naturalmente il M5S agisce sulla base di obiettivi politici e programmatici diversi da quelli del PD, come ad esempio il reddito di cittadinanza e le proposte concrete per la promozione di uno sviluppo sostenibile. Tuttavia, proprio l’obiettivo di entrare direttamente in sintonia con fasce crescenti della popolazione ha già suggerito di attenuare su alcuni temi la radicalità iniziale. Così è stato sull’immigrazione e, proprio in questi giorni, sui giochi olimpici a Roma.
Quantunque attenuata per esigenze di consenso, la diversità del «partito della nazione» targato M5S rispetto a quello targato PD è destinata a rimanere rilevante. Non a caso la conflittualità tra M5S e PD è massima, e spesso arriva al parossismo. Sulla base di programmi in larga misura alternativi, puntano entrambi alla stessa tipologia di radicamento sociale, per cui l’altro è l’avversario da sconfiggere a ogni costo, e qualunque mezzo è buono.
Stupisce che le altre forze politiche e il supporto mediatico di cui godono, non si rendano conto che la sconfitta di Renzi non risolverebbe il problema; semplicemente ne cambierebbe l’identità anagrafica.
Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole. Per alcuni decenni un ruolo analogo è stato ricoperto dalla DC. L’illusione di essersene liberati è durata poco, perché nel medesimo ruolo è subentrato Berlusconi che, in parte per incapacità propria, in parte a causa del diverso contesto internazionale, non è però riuscito nell’intento. Con il 40% conquistato nelle elezioni europee, Renzi aveva dato l’impressione di farcela. Adesso che sembra in difficoltà, forte anche dell’aiuto o della neutralità di tutti gli altri, il M5S è pronto a rimpiazzarlo. Può darsi che ci riesca e si dimostri capace di governare, ma lo farebbe comunque con obiettivi e programmi diversi da quelli di una sinistra oggi sconfitta, e ciò nonostante pronta a brindare nel caso di sconfitta di Renzi, dimenticando la lezione che ci impartiscono oggi le piazze festose nel 2011, quando l’ultimo governo Berlusconi fu mandato a casa.

Fonte: Alfabeta2 

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