La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 6 ottobre 2015

Quel crudo Nordest

di Vanni Santoni
La prima volta che, per una presentazione, sono andato nel cosiddetto Veneto profondo (o, per dirla con le parole dell’autore del romanzo di cui qui si parlerà, nel crudo Nordest), gli organizzatori della medesima, il giorno successivo, mi hanno portato un po’ in giro nelle ore precedenti la partenza del mio treno. L’obiettivo dichiarato della gita era una basilica, ma di fronte alle sterminate distese di capannoni e prefabbricati che a ogni curva si aprivano davanti ai nostri occhi, i miei ospiti sembravano sentire una ineludibile urgenza di spiegare, di raccontare – quasi di giustificarsi, come se la semplice appartenenza territoriale recasse in sé almeno un grano di responsabilità condivisa – e così venivo messo a parte, nel dettaglio, di quello che ogni italiano conosce, o almeno intuisce, nelle sue linee generali: della storia di una terra che fu povera e poi si ritrovò ricca, dove a un certo punto gli schei, assieme ai capannoni, presero a crescere come funghi, per via di un processo che aveva tanto a che fare col duro lavoro, con un artigianato che si faceva industria, con una piccola impresa che si faceva media e poi grande, quanto con la speculazione edilizia e un sistema di appalti e crediti considerevolmente pompato e opportunamente alimentato da una politica ben contenta di infilarsi in tasca la sua parte.
La conoscenza generica di tali processi è qualcosa che fa parte di quel set di schemi storico-sociali di base che usiamo per interpretare l’Italia di oggi, ma entrare nel dettaglio di questa o quella produzione, di questa o quella fortuna costruita cominciando portando sacchi di cemento al cantiere, di questo o quello collasso da mancanza di lungimiranza, mentre le manifestazioni fisiche di tutto ciò mi scorrevano davanti, era diverso; e diverso era sentirselo raccontare da gente che, se non ne aveva beneficiato direttamente, sicuramente era parente o almeno amica di altra che lo aveva fatto: il generale lasciava il campo al particolare e l’idea sommaria di un fenomeno lasciava il posto a una quinta dove tornavano a comparire prima i gruppi sociali e le coorti, e poi i singoli esseri umani e le loro azioni.
Allo stesso modo, Effetto domino, nel suo raccontare il collasso della Sidex, una società che pianificava la costruzione di un’enorme zona residenziale e commerciale tra Vicenza e Treviso, non racconta nulla di apparentemente nuovo nei tratti generali – il fatto che una parte non inconsistente della PMI italiana era ed è costruita su basi fragili e pratiche discutibili; il fatto che in tempo di crisi il credito latita, gli schei smettono di girare e il meccanismo si inceppa – ma traccia una moltitudine raggi di luce nelle specificità umane del territorio in cui va ad ambientarsi. Quella che da fuori può apparire come l’esplosione di un’unica bolla, il risultato di una generica martellata della crisi, appare in questo libro effettivamente come un effetto domino, non solo nel senso ovvio della reazione a catena, ma anche in quello della definizione e individualità di ciascuna tessera del domino medesimo, con la sua distribuzione di puntini e la sua posizione a renderla diversa, pur nella similitudine, da tutte le altre.
È chiaro che Effetto domino è un romanzo che parla di un certo luogo – il Nordest italiano – in un certo tempo – la contemporaneità lacerata dalla crisi – e che racconta quindi gli effetti di tale crisi, intesa non solo in senso economico ma anche umano: il sopraggiunto individualismo, l’atomizzazione delle responsabilità (ovvero l’annientamento di qualunque piattaforma diretta di responsabilità), l’ascesa e il collasso di un sistema avventato fin dalle premesse, che gira finché gira, e quando smette si trasforma in un tutti contro tutti da terrario; un mondo in cui le affinità e i sodalizi, fossero anche storici, sono esclusivamente funzione degli obiettivi, non c’è più società, si va avanti insieme oppure ci si frega e distrugge a a catena, come Anderson, il fornitore di elevatori della Sidex, che, fottuto, fotte a sua volta Carraro, il suo fornitore di piastre, raccordi e calotte, in una vertigine di perdita di punti di riferimento in cui l’unica resa dei conti che rimane è una patetica scazzottata prima di cedere alla rassegnazione.
Tuttavia, ed è qui che comincia a disegnarsi lo spessore del romanzo di Bugaro, nulla di tutto questo è giocato come rivelazione – già a pagina 14 viene così descritto il rapporto tra Rampazzo e il proprio principale collaboratore: Lui e Colombo abitavano una terra dove non esistono posizioni stabili, rapporti definiti. Lunedì era tuo socio nel consorzio X, martedì era tuo nemico per la gara Y, mercoledì costituiva con te la srl Z. Dire amico o nemico significava zero, – e del resto già il titolo, e ancora quell’omino sospeso sul bordo del cornicione della torre, nell’impattante copertina firmata da Ale+Ale, lasciano presagire con chiarezza in che direzione andrà il romanzo. Lo suggerisce finanche l’incipit – Fermarsi voleva dire perdere tutto, per di più ripetuto sette righe più tardi e ancora ribadito, quattro righe ancora sotto, da unNessuno avrebbe distrutto l’investimento più importante della sua vita che non può non prospettare che sarà senz’altro distrutto.
La questione, in Effetto domino, non è dunque cosa accadrà, né la denuncia di un sistema impazzito, di un’aspirazione alla grandezza costruita sull’argilla e col cartongesso (cito questo materiale – andrebbe bene anche il truciolato, il cellotex o la marmo-resina – per ricordare un altro eccellente romanzo sul nordest, Cartongesso appunto, di Francesco Maino, uscito l’anno scorso sempre per Einaudi, che di Effetto domino è una sorta di specchio furioso e distorcente). La questione, in Effetto domino, è la luce che si insinua a illuminare i dettagli. Si gioca a carte scoperte, in questo romanzo, e non potrebbe essere altrimenti, dato che l’obiettivo è anzitutto l’ostensione di un campionario umano di considerevole esattezza – che tuttavia proprio dall’essere contenuto in una cornice romanzesca assume la naturalezza necessaria alla sua sublimazione. Il tipo di precisione di Bugaro non è infatti, come vuole un’espressione così abusata da essere divenuta ormai un cliché tanto dei recensori quanto, a volte, dei compilatori di paratesti, entomologica. È tutt’altro: lungi dallo scienziato che analizza l’insetto trafitto da uno spillone (cosa che in parte faceva nel precedente Bea Vita, uscito per la collana Contromano di Laterza nel 2010, e che risultava meno convincente proprio perché vedeva l’autore posizionarsi più o meno volontariamente su un livello di superiorità rispetto ai soggetti narrati), qui Bugaro è uno di loro, almeno in potenza. Sicuramente, in quanto voce narrante, esiste in mezzo a loro: la partecipazione al panorama umano raccontato è massima. Un panorama molteplice e compatto, in cui lo stesso costruttore Franco Rampazzo, che pure costituisce l’asse portante del romanzo, emerge, più che come protagonista, come capofila di una selva di comprimari, di personaggi magari di passaggio nella narrazione ma essenziali agli eventi, ogni volta descritti con aderenza inappuntabile – si pensi ad esempio ale figure di Costa, De Faveri, Malipiero e Tonon, soci dell’operazione, imprenditori partiti dal basso, inquadrati e descritti all’inizio del libro senza neanche poi bisogno di riprenderli. Bugaro non è solo preciso: è coinvolto. Centrale in Effetto domino è la sua capacità non solo di descrivere queste figure, ma di rendere loro umanità (sia pure ribadendo a volte la loro genericità, la loro condizione archetipica e stereotipica, con fortunati espedienti stilistici, come quando dell’imprenditore Franco Carraro, che pure è tra i personaggi che hanno più spazio nel libro, scrive a pagina 80 Guida una BMW 330 color canna di fucile o una Mercedes CLK blu notte o un’Audi 4 Avant bianca: un ‘‘o’’ che da solo sancisce la sostituibilità della figura di cui si sta parlando), grazie alla conoscenza minuziosa del contesto – l’aderenza non si sente solo nell’esattezza con cui a ciascuno viene assegnato un tipo di automobile, di abiti, di consumi, di abitazione, di ufficio, ma anche in frasi semplici che però denotano conoscenza diretta – Quanto magazzino gli restava? (p.120) – e l’assenza di retorica nel raccontare un popolo che, sì, si muove in modo irresponsabile e a volte disonesto, ma resta costituito da gente abituata a rispondere a tutto (…) con l’impegno, il lavoro, la fatica costante, perché sembrava l’unico modo (p.94); un lavoro (che) spinge ogni cosa sullo sfondo (p.26) e che viene così fissata in un affresco a tre dimensioni in cui ogni dettaglio concorre a definire non solo una sfumatura di posizionamento nel mondo, ma anche una certa e condivisa, per quanto esplosa e probabilmente sbagliata, idea di mondo: in rete si leggono accostamenti a Balzac che se sono esagerati nelle proporzioni non lo sono nelle modalità operative, così come nell’ombra di determinismo che a volte si staglia sui personaggi si può ben scorgere l’eredità di Zola.
Ciò che tuttavia permette al Bugaro di Effetto domino di non essere semplicemente un emulo in chiave veneta del realismo e del naturalismo ottocentesco, è un preciso lavoro, attraverso la scrittura, sulla consistenza della realtà.
Se il punto fermo restano sempre le persone, è la realtà in cui sono calate, quella che loro percepiscono, a mutare, principalmente su un asse, che è quello della percettibilità e della consistenza. In un mondo di gente concreta, o che almeno si tale si crede e come tale si rappresenta, tutto ciò che è percettibile e consistente è bene; viceversa ciò che risulta confuso o evanescente equivale al male.
Ecco che nel momento in cui Colombo suggerisce a Rampazzo la possibilità dell’enorme investimento, Ogni cosa sembrava satura di materia e colore (p12), e poco dopo: … passavano la vita ad aspettare proposte come quelle, che salivano come Bengala in mezzo al cielo buio e inondavano il mondo di una luce fortissima e spostavano un poco più avanti tutti i limiti, tutti i confini.
Invece, quando gli viene annunciata l’entrata di altri al suo posto nel progetto, e dunque la fine di tutto, Franco Rampazzo si sentiva poco capace di ascoltare, sebbene ascoltasse ogni cosa. Era vicino ed era lontano. Era lui e non era lui. (…) Non aveva mai provato una simile sensazione di sganciamento dalle cose, di fluttuazione nel bianco. (pag 175)
Analogo ciò che avviene a Angelo Beltrame, fornitore di guarnizioni, filtri e ventole, prima di fronte alla possibilità paventata di un non pagamento – Dove stava andando? Costruzioni e slarghi avevano un’aria provvisoria, come se tutto potesse essere spostato altrove (p. 140), e poi all’evidenza del fatto che tutto è proprio come temeva: … aveva provato un senso di non contatto, di non assimilazione, come se le parole dell’altro avessero una sostanza incompatibile con l’aria, la luce, la realtà stessa. (p.146)
Anche le stesse parole, infatti, acquistano o perdono consistenza a seconda degli eventi: quando Alessandro Guarnieri, il responsabile dei finanziamenti della principale banca di riferimento del progetto Sidex annuncia a Rampazzo che intendono uscire dall’operazione, ecco che Per qualche secondo, la frase era rimasta sospesa a mezz’aria, bianca e immobile. Poi aveva cominciato a scendere, lentamente, ondeggiando. S’era posata sul tavolo, in mezzo a loro. (…) Anche le sue parole erano rimaste sospese a mezz’aria per qualche secondo. Ma erano scure, pesanti. Le aveva viste ricadere in minuscoli grani. Tutto rimpiccioliva, collassava intorno a lui (p.68-69).
Nemmeno gli esseri umani sono immuni dal fenomeno: come un’entità di vapore, lo stesso Guarnieri poteva condensarsi solo lì, nelle salette del quinto piano della sede della banca (p.66); e anche una semplice ragazza in un locale, la più bella tra le due presenti a un certo tavolo, è più carina in quanto più definita (p.196).
Un’idea di business aleatoria e costruita sul niente è venuta quindi a distruggere un mondo di persone concrete, o almeno abituate a pensarsi così – ma, si noti, ciò avviene senza entrare nel turbocapitalismo, per quanto quel Non bisogna fermarsi a p.5 lo possa suggerire: Bugaro è accorto nel posizionare l’epicentro del crollo su un atto umano, una guerra interna alla banca che finanzia il progetto; allo stesso modo un potenziale salvatore declina il proprio intervento per via di un vecchio complesso nei confronti di Rampazzo, ex socio del padre; e altri protagonisti si trovano travolti anche per loro stesse precise incoscienze. Uomini incapaci di resistere allo tsunami, ma comunque resilienti in quanto concreti e facenti parte di un mondo concreto: pur avendo incassato in pieno la tragedia, Franco Rampazzo non si comporta come un personaggio da tragedia. Non muore, non si avvelena, neanche impazzisce né compie il gesto insano (la potenziale aggressione all’ex socio traditore Colombo, che farà ripartire il progetto senza di lui, a un certo punto è nell’aria, ma in realtà solo per il lettore, abituato a determinati modelli): si appoggia ai soldi messi da parte all’estero e si ridimensiona. Dopo che tutte le tessere del domino sono cadute e la polvere si è placata, si torna consistenti, si ricomincia, l’universo di riferimento torna definito e così le sue leggi naturali – tant’è che pure il progetto Sidex riparte, e tra i molti sconfitti, l’unico a uccidersi, alla fine, è Angelo Beltrame, quello che ha usato come garanzia la firma della figlia: quello che non si è limitato a fare il passo più lungo della gamba, ma è andato contronatura. 

Romolo Bugaro, Effetto domino, Einaudi 2015, pp228, €19.50

Fonte: Le parole e le cose

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