di Giancarlo Mancini
Maggio 1858, Torino, Vincenzo Cibolla, di professione nastraio, viene arrestato per il furto di un pastrano. Una cosa di poco conto, anche nell’Italia di allora. Ma una volta dentro Cibolla inizia a parlare e svela una serie di intrecci tra delinquenza e pubblica sicurezza che costituiranno la trama di uno dei più grossi scandali dell’Italia a cavallo dell’Unità d’Italia.
È lo spunto da cui parte il libro di Francesco Benigno La mala setta (Einaudi, pp. 403, euro 35), dal sottotitolo tanto roboante quanto forse fuorviante: Alle origini di mafia e camorra 1859–1876.
Per Benigno non si tratta infatti di cercare una data di nascita o delle ragioni particolari posizionate alla metà del secolo XIX per spiegare realtà criminogene a noi contemporanee. Quanto piuttosto di raccontare il quindicennio fondante la nostra nazione dal punto di vista del rapporto tra crimine organizzato e Stato.
La cesura, secondo l’autore, avviene nel 1876, anno in cui, con la vittoria della sinistra storica, lo scettro del potere statuale passa di mano a una nuova classe dirigente. Ma, soprattutto per noi, si palesano due nuovi tipi di interpretazioni destinate a una certa fortuna.
Da un lato quelle derivanti da L’inchiesta sulla Sicilia di Franchetti e Sonnino, in cui la spiegazione del malaffare viene fatta ricorrere al tradizionale stato di arretratezza economica del meridione. «La criminalità organizzata è assunta in questo quadro come una malattia sociale che, affermandosi, è a sua volta causa di un ritardo nello sviluppo».
Poi ci sono gli argomenti evoluzionistici, derivanti dall’applicazione delle teorie lombrosiane al corpo sociale interessato. «L’anomalia della fossetta mediana» riscontrata nel cranio del brigante Villella diviene infatti il fondamento di una teoria della diversità del criminale e del fondamento biologico della devianza: la scoperta dell’esistenza, in mezzo alla fiorente civiltà europea di «selvaggi con abitudini e istinti peculiari, che parlano diversamente perché diversamente sentono: i criminali».
Il periodo trattato non delimita dunque una data ufficiale di nascita della mafia e della camorra (perché nate assieme poi?), quanto invece è stato ritenuto propizio dall’autore per raccontare la confusione, il caos, gli slittamenti continui tra chi sta dalla parte della legalità e chi no. E proprio questi limiti è interessante vedere come si spostino verso altri nemici con una incredibile rapidità.
Dai borbonici si passa infatti nel giro di pochissimi anni ai mazziniani, ai garibaldini, agli anarchici e così via. Sono loro i membri delle cosiddette «classi pericolose», la categoria utilizzata da Benigno per definire i cangianti nemici dello stato post-unitario. Una nozione derivante da altre polizie, quella francese anzitutto, con cui molti personaggi di questa storia hanno avuto a che fare. Utilizzando una notevole mole di fonti di prima mano ma anche alcuni grandi capolavori del secolo d’oro del romanzo, personaggi come quelli della Commedia umana di Balzac o la galassia dei protagonisti dei sobborghi parigini in I misteri di Parigi di Eugene Sue, si ricostruiscono una serie di storie criminali e sette segrete imparentate in qualche modo con lo Stato poliziesco francese.
Figura più che mai capace di assurgere ad emblema di tutta la vicenda è infatti quella di Vautrin, lo spietato, imprendibile criminale balzacchiano che diventa alla fine di Splendori e miserie delle cortigiane nientemeno che un agente di polizia. Vicenda che potrebbe incontrare molti emuli tra i personaggi disseminati in questo libro. Uno su tutti potrebbe essere Filippo Curletti, uomo di molte stagioni e pochi scrupoli, protagonista dei moti che costringono alla destituzione dei Lorena dal Granducato d’Austria. È lui, come rivelerà anni dopo quando la sua sorte si sarà rovesciata, a organizzare quelle dimostrazioni popolari i cui protagonisti erano carabinieri travestiti. Una guerra segreta, fondata sulla controinformazione, sull’induzione nell’opinione pubblica di parole d’ordine che spontaneamente, come in Toscana, stentavano a nascere con la dovuta propulsione.
Ma torniamo ai fatti. Sul finire degli anni cinquanta, mentre si stanno coagulando le forze che daranno sostegno e nerbo al processo unificatore, l’autore ricostruisce già una compromissione tra forze dell’ordine e criminalità più o meno organizzata. L’obiettivo è l’infiltrazione, la sobillazione e l’implosione delle istituzioni che governano gli stati italiani, dai Borbone del Regno delle due Sicilie al Ducato di Parma dove effettivamente inizia il libro.
Qui incontriamo il primo personaggio importante e rivelatore. Si chiama Luigi Carlo Farini, patriota, medico e giornalista, dopo la cacciata di Maria Luisa D’Austria dittatore dell’Emilia. Per sua volontà viene organizzata una vasta rete spionistica nelle cui maglie finiscono quei mazziniani che ancora speravano in un corso diverso della storia.
Le strategie di controinformazione che erano servite allo scopo di cacciare via gli occupanti stranieri dalle regioni italiani, non spariscono con loro ma sopravvivono si allungano anche sul giovanissimo stato unitario. La zona grigia si allunga per tutti gli anni del governo della destra storica, quando a più riprese verrà a riproporsi all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della mafia, della camorra, e così via.
La mala setta è un libro importante, in sé ma anche in prospettiva, da cui si spera che altri studiosi possano partire per approfondire e magari anche proseguire lo studio sul rapporto tra crimine organizzato e Stato ma anche per tenerne fermo l’assunto implicito, che sembra sorreggerlo e magari applicarlo in altre epoche e in altri contesti.
Nel leggere infatti di tutti questi personaggi che si appalesano in queste pagine non si può non pensare ad altre storie a noi più contemporanee e ad altre zone grigie di cui sembra affollata la nostra parabola sin dai primordi dell’Unità d’Italia.
Quanti sono stati gli agenti del doppio, triplo gioco in grado di infiltrarsi nello Stato non smettendo di essere quello che si è sempre stati, ovvero dei malandrini? E quante volte lo Stato è venuto a patti con queste entità servendosene e poi mollandole, in un tragico balletto macabro?
Poi c’è l’aspetto per così dire metodologico. Compito dello storico è certo quello di mettere assieme i fatti, ricomporre un racconto secondo un ordine logico. Ma forse oggi, dopo decenni in cui si è insistito nella specializzazione, è necessario riunire nuovamente i saperi e dare alla storia un respiro più ampio e ambizioso.
È questo uno dei «messaggi» che si intravvedono in un libro tanto godibile dal punto di vista della lettura quanto profondo dal punto di vista dell’indagine, dimostrando che si può scrivere dei libri da far leggere ad un pubblico al di fuori delle accademie, mantenendo serietà e rigore.
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