La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 1 novembre 2015

La mala setta, alle origini di mafia e camorra

di Giancarlo Mancini 
Mag­gio 1858, Torino, Vin­cenzo Cibolla, di pro­fes­sione nastraio, viene arre­stato per il furto di un pastrano. Una cosa di poco conto, anche nell’Italia di allora. Ma una volta den­tro Cibolla ini­zia a par­lare e svela una serie di intrecci tra delin­quenza e pub­blica sicu­rezza che costi­tui­ranno la trama di uno dei più grossi scan­dali dell’Italia a cavallo dell’Unità d’Italia.
È lo spunto da cui parte il libro di Fran­ce­sco Beni­gno La mala setta (Einaudi, pp. 403, euro 35), dal sot­to­ti­tolo tanto roboante quanto forse fuor­viante: Alle ori­gini di mafia e camorra 1859–1876.
Per Beni­gno non si tratta infatti di cer­care una data di nascita o delle ragioni par­ti­co­lari posi­zio­nate alla metà del secolo XIX per spie­gare realtà cri­mi­no­gene a noi con­tem­po­ra­nee. Quanto piut­to­sto di rac­con­tare il quin­di­cen­nio fon­dante la nostra nazione dal punto di vista del rap­porto tra cri­mine orga­niz­zato e Stato.
La cesura, secondo l’autore, avviene nel 1876, anno in cui, con la vit­to­ria della sini­stra sto­rica, lo scet­tro del potere sta­tuale passa di mano a una nuova classe diri­gente. Ma, soprat­tutto per noi, si pale­sano due nuovi tipi di inter­pre­ta­zioni desti­nate a una certa fortuna.
Da un lato quelle deri­vanti da L’inchiesta sulla Sici­lia di Fran­chetti e Son­nino, in cui la spie­ga­zione del malaf­fare viene fatta ricor­rere al tra­di­zio­nale stato di arre­tra­tezza eco­no­mica del meri­dione. «La cri­mi­na­lità orga­niz­zata è assunta in que­sto qua­dro come una malat­tia sociale che, affer­man­dosi, è a sua volta causa di un ritardo nello sviluppo».”
Poi ci sono gli argo­menti evo­lu­zio­ni­stici, deri­vanti dall’applicazione delle teo­rie lom­bro­siane al corpo sociale inte­res­sato. «L’anomalia della fos­setta mediana» riscon­trata nel cra­nio del bri­gante Vil­lella diviene infatti il fon­da­mento di una teo­ria della diver­sità del cri­mi­nale e del fon­da­mento bio­lo­gico della devianza: la sco­perta dell’esistenza, in mezzo alla fio­rente civiltà euro­pea” di «sel­vaggi” con abi­tu­dini e istinti pecu­liari, che par­lano diver­sa­mente per­ché diver­sa­mente sen­tono: i criminali».”
Il periodo trat­tato non deli­mita dun­que una data uffi­ciale di nascita della mafia e della camorra (per­ché nate assieme poi?), quanto invece è stato rite­nuto pro­pi­zio dall’autore per rac­con­tare la con­fu­sione, il caos, gli slit­ta­menti con­ti­nui tra chi sta dalla parte della lega­lità e chi no. E pro­prio que­sti limiti è inte­res­sante vedere come si spo­stino verso altri nemici con una incre­di­bile rapidità.
Dai bor­bo­nici si passa infatti nel giro di pochis­simi anni ai maz­zi­niani, ai gari­bal­dini, agli anar­chici e così via. Sono loro i mem­bri delle cosid­dette «classi peri­co­lose», la cate­go­ria uti­liz­zata da Beni­gno per defi­nire i can­gianti nemici dello stato post-unitario. Una nozione deri­vante da altre poli­zie, quella fran­cese anzi­tutto, con cui molti per­so­naggi di que­sta sto­ria hanno avuto a che fare. Uti­liz­zando una note­vole mole di fonti di prima mano ma anche alcuni grandi capo­la­vori del secolo d’oro del romanzo, per­so­naggi come quelli della Com­me­dia umana di Bal­zac o la galas­sia dei pro­ta­go­ni­sti dei sob­bor­ghi pari­gini in I misteri di Parigi di Eugene Sue, si rico­strui­scono una serie di sto­rie cri­mi­nali e sette segrete impa­ren­tate in qual­che modo con lo Stato poli­zie­sco francese.
Figura più che mai capace di assur­gere ad emblema di tutta la vicenda è infatti quella di Vau­trin, lo spie­tato, impren­di­bile cri­mi­nale bal­zac­chiano che diventa alla fine di Splen­dori e mise­rie delle cor­ti­giane nien­te­meno che un agente di poli­zia. Vicenda che potrebbe incon­trare molti emuli tra i per­so­naggi dis­se­mi­nati in que­sto libro. Uno su tutti potrebbe essere Filippo Cur­letti, uomo di molte sta­gioni e pochi scru­poli, pro­ta­go­ni­sta dei moti che costrin­gono alla desti­tu­zione dei Lorena dal Gran­du­cato d’Austria. È lui, come rive­lerà anni dopo quando la sua sorte si sarà rove­sciata, a orga­niz­zare quelle dimo­stra­zioni popo­lari i cui pro­ta­go­ni­sti erano cara­bi­nieri tra­ve­stiti. Una guerra segreta, fon­data sulla con­tro­in­for­ma­zione, sull’induzione nell’opinione pub­blica di parole d’ordine che spon­ta­nea­mente, come in Toscana, sten­ta­vano a nascere con la dovuta propulsione.
Ma tor­niamo ai fatti. Sul finire degli anni cin­quanta, men­tre si stanno coa­gu­lando le forze che daranno soste­gno e nerbo al pro­cesso uni­fi­ca­tore, l’autore rico­strui­sce già una com­pro­mis­sione tra forze dell’ordine e cri­mi­na­lità più o meno orga­niz­zata. L’obiettivo è l’infiltrazione, la sobil­la­zione e l’implosione delle isti­tu­zioni che gover­nano gli stati ita­liani, dai Bor­bone del Regno delle due Sici­lie al Ducato di Parma dove effet­ti­va­mente ini­zia il libro.
Qui incon­triamo il primo per­so­nag­gio impor­tante e rive­la­tore. Si chiama Luigi Carlo Farini, patriota, medico e gior­na­li­sta, dopo la cac­ciata di Maria Luisa D’Austria dit­ta­tore dell’Emilia. Per sua volontà viene orga­niz­zata una vasta rete spio­ni­stica nelle cui maglie fini­scono quei maz­zi­niani che ancora spe­ra­vano in un corso diverso della storia.
Le stra­te­gie di con­tro­in­for­ma­zione che erano ser­vite allo scopo di cac­ciare via gli occu­panti stra­nieri dalle regioni ita­liani, non spa­ri­scono con loro ma soprav­vi­vono si allun­gano anche sul gio­va­nis­simo stato uni­ta­rio. La zona gri­gia si allunga per tutti gli anni del governo della destra sto­rica, quando a più riprese verrà a ripro­porsi all’attenzione dell’opinione pub­blica il pro­blema della mafia, della camorra, e così via.
La mala setta è un libro impor­tante, in sé ma anche in pro­spet­tiva, da cui si spera che altri stu­diosi pos­sano par­tire per appro­fon­dire e magari anche pro­se­guire lo stu­dio sul rap­porto tra cri­mine orga­niz­zato e Stato ma anche per tenerne fermo l’assunto impli­cito, che sem­bra sor­reg­gerlo e magari appli­carlo in altre epo­che e in altri contesti.
Nel leg­gere infatti di tutti que­sti per­so­naggi che si appa­le­sano in que­ste pagine non si può non pen­sare ad altre sto­rie a noi più con­tem­po­ra­nee e ad altre zone gri­gie di cui sem­bra affol­lata la nostra para­bola sin dai pri­mordi dell’Unità d’Italia.
Quanti sono stati gli agenti del dop­pio, tri­plo gioco in grado di infil­trarsi nello Stato non smet­tendo di essere quello che si è sem­pre stati, ovvero dei malan­drini? E quante volte lo Stato è venuto a patti con que­ste entità ser­ven­do­sene e poi mol­lan­dole, in un tra­gico bal­letto macabro?
Poi c’è l’aspetto per così dire meto­do­lo­gico. Com­pito dello sto­rico è certo quello di met­tere assieme i fatti, ricom­porre un rac­conto secondo un ordine logico. Ma forse oggi, dopo decenni in cui si è insi­stito nella spe­cia­liz­za­zione, è neces­sa­rio riu­nire nuo­va­mente i saperi e dare alla sto­ria un respiro più ampio e ambizioso.
È que­sto uno dei «mes­saggi»” che si intrav­ve­dono in un libro tanto godi­bile dal punto di vista della let­tura quanto pro­fondo dal punto di vista dell’indagine, dimo­strando che si può scri­vere dei libri da far leg­gere ad un pub­blico al di fuori delle acca­de­mie, man­te­nendo serietà e rigore.

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