di Sergio Brenna
Vezio De Lucia, che ha vissuto quasi tutte le stagioni dell’urbanistica italiana (la sua descrizione nel libro “Se questa è una città” del modo in cui, all’indomani della “frana di Agrigento” approdò al gruppo diretto da Martuscelli che al Ministero dei LL. PP. avrebbe poi elaborato il D.M. 1444/68 è un pezzo di travolgente letteratura!) ha perfettamente ragione. Da parte mia, ho cercato, invano, di far pubblicare su riviste accademiche una mia riflessione intitolata “Smart cities vs town planning?” in cui documentavo, conti alla mano, come nei più decantati piani di rinnovamento urbani milanesi (Citylife, Porta Nuova, ecc.) il ricorso alla metodologia di Valutazione Ambientale Strategica e le vantate innovazioni tecnologiche nella riduzione dei consumi energetici e delle emissioni inquinanti venissero usati per accantonare qualunque criterio di congruità tra quantità edificatorie, quantità di spazi pubblici e altezza degli edifici a favore delle rendite immobiliari attese e della fantasiosa inventività di immagine architettonica che ne occulta la dura prevalenza nella determinazione dei modelli insediativi (edifici necessariamente molto sviluppati in altezza – sino a oltre 200 metri – e che oscurano stabilmente in inverno gli edifici circostanti e preesistenti – e i ridotti spazi pubblici piegati al rutilante consumismo o sostituiti dal verde privato su smisurati balconi privati).
I “referees” hanno valutato come nostalgica retrospettiva il mio richiamo ai criteri degli articoli 7 e 8 del D.M. n. 1444/68 il cui integrato disposto può interpretarsi così: “Il progettista urbano di piani attuativi può proporre liberamente tipologie edilizie autonomamente sviluppate in altezza rispetto al contesto solo se gli indici edificatori attribuiti consentono di realizzare totalmente gli spazi pubblici prescritti dal piano generale, altrimenti l’intervento deve ritenersi alla stregua di quelli senza piano attuativo e l’altezza degli edifici deve adeguarsi a quella degli edifici circostanti e preesistenti”. Un criterio semplice e ragionevole che la nuova genìa degli Accordi di programma e dei Programmi Integrati di Intervento ha spesso spazzato via, riportandoci invece alle “convenzioni senza Piano Regolatore” della sciagurata stagione degli Anni ’50-’60. La decantata “innovazione” è stata in realtà un vero e proprio “regresso”.
I “referees” hanno valutato come nostalgica retrospettiva il mio richiamo ai criteri degli articoli 7 e 8 del D.M. n. 1444/68 il cui integrato disposto può interpretarsi così: “Il progettista urbano di piani attuativi può proporre liberamente tipologie edilizie autonomamente sviluppate in altezza rispetto al contesto solo se gli indici edificatori attribuiti consentono di realizzare totalmente gli spazi pubblici prescritti dal piano generale, altrimenti l’intervento deve ritenersi alla stregua di quelli senza piano attuativo e l’altezza degli edifici deve adeguarsi a quella degli edifici circostanti e preesistenti”. Un criterio semplice e ragionevole che la nuova genìa degli Accordi di programma e dei Programmi Integrati di Intervento ha spesso spazzato via, riportandoci invece alle “convenzioni senza Piano Regolatore” della sciagurata stagione degli Anni ’50-’60. La decantata “innovazione” è stata in realtà un vero e proprio “regresso”.
Lo stesso rischia di accadere con l’ideologia del “consumo zero di suolo”: pur di non si consumare nuovo suolo (e, come segnalato, spesso neppure questo è vero), bisogna che sulle aree di “riuso e rinnovamento urbano” si lascino concentrare quantità edificatorie ed altezze stabilite “ad libitum” con i pretesi innovativi criteri del XXI secolo che spazzano via quelli del XX per tornare a quelli del XIX!
Fonte: Rifondazione Comunista
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