La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 1 novembre 2015

L’uso della vita dove si intrecciano lavoro e azione

di Luca Illetterati 
«La vita è pra­xis, non poie­sis», dice Ari­sto­tele in un passo famoso della Poli­tica. Entrambe, pra­xis e poie­sis, sono per lui modelli di azione che carat­te­riz­zano la forma di vita degli ani­mali umani. La poie­sis ha come pro­prio fine la pro­du­zione di un oggetto che, una volta arri­vato a esi­stere, è qual­cosa di altro e di estra­neo rispetto all’attività che lo ha pro­dotto. Un letto, un com­pu­ter, una casa, giunto il ter­mine del pro­cesso che li ha rea­liz­zati, godono, in qual­che modo, di una vita pro­pria: non dipen­dono più dal fale­gname, dall’assemblatore, dall’architetto, dal mura­tore che li hanno por­tati a essere ciò che sono. Più radi­cal­mente, l’oggetto esi­ste solo quando l’azione fina­liz­zata alla sua pro­du­zione trova il pro­prio ter­mine. Fin­ché l’azione pro­duce non c’è ancora l’oggetto e quando l’oggetto è rea­liz­zato l’azione viene meno.
La pra­xis, invece, è secondo Ari­sto­tele quella azione che trova il pro­prio fine in se stessa, che si com­pie svol­gen­dosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo com­pi­mento in un oggetto. Il fare musica, per ripren­dere un esem­pio ari­sto­te­lico che poi Hei­deg­ger uti­liz­zerà come pro­prio nei suoi corsi uni­ver­si­tari, non si rea­lizza in un fine esterno: il suo com­pi­mento è già nello stesso fare musica.
Una vita che si rea­lizza in un pro­dotto altro da sé è una vita del tutto alie­nata, espro­priata di se stessa: come il fare musica, appunto, la vita trova com­pi­mento nell’essere vis­suta bene e non si acquieta una volta giunta al risul­tato, alla rea­liz­za­zione di uno scopo esterno. Smet­tere di agire è, per la vita, smet­tere di essere se stessa: equi­vale alla morte.
È soprat­tutto gra­zie a Han­nah Arendt e attra­verso i suoi scritti che que­sta clas­sica distin­zione tra pra­xis e poie­sis è stata ripor­tata al cen­tro della discus­sione filo­so­fica nel secolo scorso. La sua riat­tua­liz­za­zione con­sente infatti alla filo­sofa tede­sca di sve­lare e deco­struire il pen­siero poli­tico dell’occidente e in par­ti­co­lare quello moderno. Essendo rivolta alla costru­zione delle con­di­zioni che con­sen­tono la legit­ti­ma­zione del governo, dun­que alla ela­bo­ra­zione delle mito­lo­gie che reg­gono la legit­ti­mità dello Stato (lo Stato di natura hob­be­siano, la volontà gene­rale rous­seauiana, tutte le forme di con­trat­tua­li­smo e neo con­trat­tua­li­smo) la teo­ria poli­tica è un fare piut­to­sto che un agire, è una poie­sis piut­to­sto che una praxis.
L’idea di fondo che attra­versa tutta la scienza poli­tica moderna è quella di un fare fina­liz­zato alla costru­zione di una casa den­tro la quale si possa vivere pro­tetti e sicuri. Ma si tratta di un costruire, appunto, non di un agire, che per sua essenza è sem­pre insi­curo, sem­pre espo­sto al peri­colo. Il modello greco, insomma, serve a Han­nah Arendt – come scrive Ales­san­dro dal Lago nella sua intro­du­zione a Vita activa, uno dei grandi capo­la­vori filo­so­fici della seconda metà del Nove­cento – per por­tare alla luce e all’evidenza l’espropriazione moderna della poli­tica, la ridu­zione della poli­tica a tec­nica, a cal­colo fina­liz­zato, ad ammi­ni­stra­zione dei molti a opera dei pochi. Una espro­pria­zione della poli­tica, che è in qual­che modo, e coe­ren­te­mente con la distin­zione di Ari­sto­tele, anche una espro­pria­zione della vita.
Fare chia­rezza su que­sti con­cetti è un buon pre­sup­po­sto per affron­tare l’ultimo lavoro di Paolo Virno, L’idea di mondo Intel­letto pub­blico e uso della vita (Quod­li­bet, pp. 199, euro 16,50), che riprende nelle sue due prime parti un pre­ce­dente lavoro pub­bli­cato nel 1994 per mani­fe­sto­li­bri e aggiunge un capi­tolo, L’uso della vita, che costi­tui­sce – scrive l’autore – «l’enunciazione ste­no­gra­fica, scan­dita da tesi peren­to­rie, di un pro­gramma di ricerca ancora da rea­liz­zare». Ma è anche un pen­siero del pre­sente, uno sguardo acuto e mai nostal­gico nei con­fronti del tempo che siamo.
Uno dei nuclei del ragio­na­mento di Paolo Virno riguarda pro­prio l’agire. O, meglio, riguarda una dif­fi­coltà pro­fonda rela­tiva a un agire – l’agire poli­tico – che è diven­tato sem­pre più enig­ma­tico e inat­tin­gi­bile, fino a risol­versi in un quella sorta di para­lisi che è uno dei tratti più carat­te­ri­stici dell’esperienza con­tem­po­ra­nea. Enig­ma­tico e inat­tin­gi­bile, per­ché le demar­ca­zioni nette tra l’agire pro­pria­mente detto (la pra­xis), il lavoro (la poie­sis) e l’esperienza del puro pen­siero intesa come soli­ta­ria e per­lo­più invi­si­bile (l’episteme), non sono più in grado, secondo Virno, di ren­dere conto dell’esperienza con­creta della vita con­tem­po­ra­nea. I con­fini di que­ste diverse forme dell’agire sono diven­tati porosi e, piut­to­sto che lamen­tare la con­fu­sione o guar­dare con fasti­dio il pre­sente rivol­gen­do­gli un nostal­gico distacco, vale la pena ripen­sare l’azione pro­prio a par­tire da que­ste ibri­da­zioni, pren­dendo sul serio, senza la pre­tesa di rimet­tere le cose a posto, l’infiltrazione reci­proca della sfera dell’agire e di quella del lavoro.
Anzi, secondo Virno, il tratto carat­te­ri­stico della con­tem­po­ra­neità sarebbe non tanto la ridu­zione della poli­tica a pro­du­zione, come rite­neva Han­nah Arendt, quanto l’acquisizione dei carat­teri pro­pri dell’azione poli­tica da parte del lavoro, il quale assorbe in sé que­gli ele­menti di impre­ve­di­bi­lità, di crea­ti­vità, di capa­cità di ini­ziare qual­cosa di nuovo che nella clas­si­fi­ca­zione ari­sto­te­lica (e arend­tiana) appar­te­ne­vano solo alla pra­xis. All’interno di que­sto pae­sag­gio mutato, il modello di azione pro­po­sto da Virno è quello dell’esodo, che non va inteso come rinun­cia all’azione, quanto – ver­rebbe da dire – come azione di rinun­cia e di rifiuto, come una defe­zione di massa dallo Stato, come azione in grado di fon­dare una Repub­blica che si è con­ge­data dall’ordinamento sta­tale. Un’azione, dun­que, che è innan­zi­tutto nega­tiva: non nel senso di una sem­plice quanto stru­men­tale oppo­si­zione, ma piut­to­sto come disob­be­dienza, come capa­cità di met­tere in que­stione la stessa facoltà di coman­dare dello Stato.
Que­sta teo­ria dell’azione, che pre­tende di avere i tratti di una «teo­ria poli­tica di là da venire», si con­nette in modo inte­res­sante con il discorso che Virno, nell’ultimo e più recente capi­tolo del suo libro, dedica all’uso della vita. Il con­cetto di uso è ciò che sta alle spalle, secondo l’autore, tanto del lavoro e della pro­du­zione quanto dell’azione. Nell’uso, infatti, pra­xis e poie­sis risul­tano intrec­ciate, ibri­date e indi­stin­gui­bili. Ne è esem­pio l’architrave di tutti gli usi, ovvero l’uso di sé, l’uso cioè che il vivente umano fa della vita. L’uso della vita pre­sup­pone infatti un vivente – l’uomo, appunto – che è in qual­che modo distac­cato da sé, che vive in modo essen­ziale l’esperienza del non sen­tirsi a casa pro­pria, che non coin­cide, cioè, mai inte­gral­mente con la vita che egli stesso è. Solo su que­sta base è pos­si­bile qual­cosa come l’uso della vita. E sem­pre solo su que­sta base, su que­sta non ade­renza di sé a sé, assu­mono corpo le isti­tu­zioni, assume senso qual­cosa come il noi.
In que­sto senso la vita è allo stesso tempo l’attività che usa e l’oggetto usato; ovvero ancora: ciò che è oggetto di cura nella cura di sé, ma anche la stessa cura. In que­sto senso, l’uso di sé non è uno spa­zio mistico che si apre quando si smette di agire, quando ci si è por­tati al di là tanto del lavoro, quanto dell’azione. L’uso di sé è sem­mai ciò a par­tire da cui assu­mono invece senso azione e lavoro, ciò a par­tire da cui è neces­sa­rio ripar­tire sem­pre di nuovo per ripen­sare quell’ibridazione di lavoro e azione che costi­tui­sce il pro­prio dell’esperienza con­tem­po­ra­nea. Vale a dire che la que­stione non è tanto quella di una feli­cità che si pone al di là di qual­siasi ope­ro­sità (sia essa poli­tica o pro­dut­tiva) quanto la neces­sità di riar­ti­co­lare sem­pre di nuovo le forme dell’azione, muo­vendo dalla capa­cità reci­ta­tiva che è pro­pria dell’uomo: la capa­cità di essere, insieme, sé e l’altro da sé, di pen­sare sé come un altro e un altro come sé.

Fonte: il manifesto 

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