di Norma Rangeri
La storia dell’umanità è costellata di tanti episodi riconducibili al biblico scontro tra Davide e Golia. Ma qui la differenza tra i «duellanti», la forza bruta da una parte e il coraggio e la speranza dall’altra, è talmente sproporzionata da far pensare che siamo dentro una partita che qualcuno vincerà senza neanche giocarla. Mi riferisco alla nuova situazione dell’editoria che si viene a creare con la nascita di Gedi, una società che metterà insieme il gruppo Espresso e la Itedi di Fca (Fiat Crysler Automobiles) che pubblica i quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX. Come ha annunciato il non più giovanissimo John Elkann, dalla fusione sarà partorito «un leader dell’informazione, in Italia e in Europa». Auguri.
Intanto però ci piacerebbe che proprio l’informazione non dipingesse questa nuova entità come società editrice.
Perché si tratta di una operazione economico/commerciale più che giornalistica, vista la particolare vocazione «produttiva» dei due nomi più rappresentativi di questa fusione, John Elkann/Agnelli, Fiat, e Carlo De Benedetti, CIR, Compagnie industriali Riunite (basta la parola, anche se comprende L’Espresso).
Poi vorremmo sapere dall’Antitrust se siamo di fronte a una concentrazione nel campo di carta stampata e digitale, tale da mettere in discussione il pur minimo ragionamento sul pluralismo dell’informazione.
In terzo luogo aver scelto il nome Gedi, evocando «Guerre Stellari», sembra provocatorio e quasi offensivo verso i creatori della famosa saga cinematografica, visto che i maestri Jedi rappresentano un gruppo di cavalieri che non vogliono dominare l’universo ma difenderlo in nome della pace e della giustizia.
Ma forse il riferimento è alla durata dell’esistenza di Gedi che, come il maestro Yoda, vorrebbe vivere a lungo. Vendendo però informazione. Già, perché Elkann ha parlato di informazione soprattutto – se non esclusivamente – come business, e non come «potere» democratico che dovrebbe essere tutelato e garantito dalla Costituzione.
No, innanzitutto vengono gli affari. Per questo il suo riferimento alla pubblicità è un messaggio chiaro, e al tempo stesso preoccupante e discriminante. Quando Elkann afferma che «gli inserzionisti, in particolare le grandi aziende di beni di consumo, vorranno avere un controllo maggiore su dove andranno i loro annunci e di conseguenza vedremo una maggiore consapevolezza nella spesa pubblicitaria che dovrebbe avvantaggiare le società editoriali serie», manda un «avviso ai naviganti» molto diretto: pensate bene con chi fate pubblicità, perché noi vi garantiamo un pacchetto di 5,8 milioni di lettori (di cui 2,5 di utenti digitali unici). Ecco: se l’Antitrust avesse bisogno di qualche appiglio per aprire un fascicolo, potrebbe prendere spunto dalle parole di alleluia per la nascita del nuovo bambinone editoriale.
Alla faccia del pluralismo, verrebbe da dire.
Certo, a questo punto potremmo rivolgere anche noi un appello agli inserzionisti che hanno a cuore le sorti della democrazia affinché investano sui piccoli quotidiani, quelli che non mettono il business al primo posto.
Ma sarebbe una partita persa in partenza, perché l’esperienza ultra-quarantennale che abbiamo ci dice che la pubblicità, compresa quella etica, preferisce i mezzi di informazione condizionata, non quelli liberi, indipendenti, autonomi.
Noi però, come facciamo appunto dal 1971, abbiamo il sostegno di voi che ci leggete: siate voi il vero maestro Yoda che ci aiuterà a non soccombere di fronte alla brutalità e alla potenza di Gedi. Perché se da un lato c’è il business, dall’altro c’è il pluralismo dei media.
E questo aspetto riguarda anche il lavoro dei giornalisti di Repubblica e La Stampa.
Al prezzo di un solo giornalista ci saranno due articoli uguali sui quotidiani di riferimento? Oppure: avranno linee editoriali differenti o un unico punto di vista? Saranno tutte e due le testate per Renzi oppure una parteggerà per Orlando?
Scherziamo, ovviamente, anche perché la vicenda è molto seria, essendo squisitamente un problema per la democrazia nel nostro paese.
Fonte: Il manifesto
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