di Stefano Rodotà
Fu proorio questo giornale, La Repubblica, subito accompagnato dall’attivismo della Rete e poi dal risveglio delle piazze, ad avviare nel 2010 la campagna “No bavaglio”, che impedì l’approvazione di una pessima legge sulle intercettazioni che avrebbe limitato gravemente la libertà d’informazione. Ma da allora in poi si è assistito ad uno stillicidio di polemiche e di proposte, quasi sempre insincere e strumentali, che andavano sostanzialmente nella stessa direzione. Si diceva che era necessario tutelare la privacy dei cittadini, perché le intercettazioni avevano fatto nascere una sorveglianza di massa. Tesi del tutto infondata, ma che cercava di offrire una giustificazione ad iniziative di una classe politica che voleva costruirsi una rete di protezione che la mettesse al riparo da una conoscenza diffusa di fatti che avrebbero messo in evidenza corruzione, conflitti d’interessi, evasione fiscale, prepotenze privatistiche. Erano i tempi in cui Berlusconi lanciava appelli che riprendevano l’invito attribuito a François Guizot, «Arricchitevi » senza farsi troppi scrupoli.
Questa legittimazione anche di comportamenti illegali di massa, che ha molto pesato nel deperimento dell’etica civile, in realtà serviva a coprire la volontà di liberare l’esercizio del potere di governo da quella particolare e democratica forma di controllo resa possibile da una informazione puntuale che obbliga i soggetti pubblici a rendere immediatamente conto del loro operato.
Questa legittimazione anche di comportamenti illegali di massa, che ha molto pesato nel deperimento dell’etica civile, in realtà serviva a coprire la volontà di liberare l’esercizio del potere di governo da quella particolare e democratica forma di controllo resa possibile da una informazione puntuale che obbliga i soggetti pubblici a rendere immediatamente conto del loro operato.
Si faticava, e si fatica ancora, ad acquistare piena consapevolezza di un dato istituzionale che negli Stati Uniti è stato messo in evidenza fin dal 1964. In quell’anno la Corte Suprema, decidendo un caso che vedeva il New York Times accusato da una persona di averla diffamata, stabiliva il principio secondo il quale le “figure pubbliche” ricevono una tutela giuridica attenuata proprio perché i cittadini debbono poter esprimere in ogni momento il loro giudizio su di loro, disponendo di tutte le necessarie informazioni. Questo circolo virtuoso si ritrova oggi nei più diversi Paesi, ha dato origine a moltissime sentenze, e riguarda in particolare proprio situazioni di cui oggi in Italia si discute intensamente, chiedendosi se sia legittimo rendere pubbliche informazioni sulla vita privata che possono sconfinare nel pettegolezzo.
Per discutere con buona cognizione dei termini giuridici del problema, difficile come sempre accade quando si tratta di stabilire un punto d’equilibrio tra privacy e informazione, è necessario tener presenti alcuni specifici riferimenti. Il primo è rappresentato proprio dalla categoria delle figure pubbliche, che non comprende soltanto i politici, ma pure sportivi e persone del mondo dello spettacolo, e che si è venuta estendendo per effetto del dilatarsi del numero di persone che decidono appunto di “vivere in pubblico”. L’esposizione allo ”sguardo generale” non è il risultato di una imposizione, ma di una libera scelta della persona, che dev’essere consapevole del fatto che ciò produce conseguenze sull’intero sistema delle sue relazioni sociali. E la più rilevante di queste conseguenze è rappresentata proprio dal fatto che le figure pubbliche, come s’usa dire, hanno una più ridotta “aspettativa di privacy”.
Questo è il metro di giudizio al quale ricorrere quando si devono individuare i criteri per stabilire quali siano le informazioni personali legittimamente pubblicabili, provengano da intercettazioni telefoniche o da altre fonti. Criteri che, nel nostro sistema giuridico, hanno trovato una traduzione precisa nel modo in cui la questione è affrontata dall’articolo 6 del Codice di deontologia dell’attività giornalistica, che è un insieme di vere e proprie norme giuridiche, applicabili dai giudici civili, penali e amministrativi, e non solo da organi deontologici.
La norma è molto chiara. “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le informazioni o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica”. Ho sottolineato le parole “alcun rilievo” perché esse indicano una soglia particolarmente rigorosa e restrittiva per quanto riguarda l’individuazione dei casi in cui la pubblicazione di una informazione può essere ritenuta illegittima. Deve poi essere messo in evidenza il fatto che le parole adoperate in questo articolo - esercizio di “funzioni pubbliche” - corrispondono a quanto è scritto nell’articolo 54 della Costituzione, che impone a questi soggetti di comportarsi con “disciplina e onore”.
Siamo così di fronte all’attuazione di un criterio costituzionalmente rilevante. E, pur registrando il fatto che principi e regole costituzionali stanno conoscendo torsioni assai preoccupanti, sembra davvero difficile considerare prive di alcun rilievo le parole pubblicate in questi giorni, che connotano in modo del tutto disonorevole il modo in cui sono intese e praticate funzioni pubbliche, addirittura ministeriali, sì che appare del tutto arbitrario derubricarle a «pettegolezzo».
Poiché siamo in materia propriamente costituzionale, bisogna aggiungere un’altra riflessione. Si è messo in evidenza, non da oggi, che le nuove norme sulle intercettazioni sono previste in una delega al governo di cui è stata ripetutamente sottolineata la genericità, e quindi l’incostituzionalità, per la mancanza di quei precisi principi e criteri direttivi ai quali fa esplicito riferimento l’articolo 76 della Costituzione. Si deve aggiungere che intervenire su diritti fondamentali, in questo caso quello all’informazione, dovrebbe indurre a non espropriare il Parlamento di questa delicatissima funzione, che consente all’intera procedura legislativa d’essere pubblica e controllabile, mentre la delega la affida al chiuso di commissioni ministeriali. Si è detto, infine, con una delle tante giravolte politiche di questi tempi, che non si vuole toccare la disciplina delle intercettazioni. Tre ragioni che consigliano di stralciare dal disegno di legge in discussione al Senato una parte così difficile e controversa.
Fonte: La Repubblica
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