di Silvia Federici
Mentre il Consiglio d’Europa denuncia le enormi difficoltà che in Italia incontrano le donne che vogliono interrompere una gravidanza, data la crescente presenza di medici obiettori nelle strutture pubbliche, in Perù 50mila donne hanno sfilato con le cosce dipinte di rosso per ricordare le sterilizzazioni forzate degli anni Novanta. Criminalizzazione dell’aborto e sterilizzazioni forzate sono due facce di uno stesso processo che Silvia Federici ha definito “controllo dello Stato sul corpo della donna”. Al contempo, come avviene con la maternità surrogata, “si crea un mercato che permette alle donne di classe media di procurarsi un figlio che gli appartiene geneticamente ma senza quel lavoro considerato come degradante che è la gestazione”. Proponiamo sul tema l’estratto inedito di un’intervista a Federici dello scorso marzo. Punto di partenza è la sua analisi della cosiddetta accumulazione originaria che, complicando lo schema marxiano, mette a fuoco la recinzione del corpo della donna e della sua funzione riproduttiva.
In corrispondenza di grosse trasformazioni che a livello internazionale hanno interessato il piano economico e sociale – penso ai processi di privatizzazione della terra e alla ristrutturazione produttiva avviata negli ultimi decenni del ’900 – abbiamo anche assistito a una massiccia riorganizzazione del lavoro di riproduzione e a un nuovo intervento dello Stato sul corpo della donna. Tale intervento ha preso forme tra loro diverse, a volte anche contraddittorie, tanto che spesso ci si domanda se le teorie che abbiamo sviluppato in relazione all’accumulazione originaria nel XVI e XVII secolo siano ancora valide. La mia risposta è sempre stata sì, anche se oggi il contesto è diverso.
Mentre nel XVII secolo il capitalismo accumulava forza-lavoro, oggi la situazione è per certi versi rovesciata. Con la grande crisi del lavoro iniziata negli anni Sessanta, con gli espropri di massa dalle terre degli anni Ottanta e con i programmi di aggiustamento strutturale, si sono buttati sul mercato del lavoro globale più di due milioni di lavoratori. Ciò ha fatto sì che le nuove politiche sul corpo della donna, volute dallo Stato nazionale o da organizzazioni sovranazionali come il FMI, la Banca Mondiale o le Nazioni Unite, si siano fatte carico di organizzare a livello globale la ristrutturazione della riproduzione. Ad esempio negli anni Ottanta, la Banca Mondiale poneva come condizione all’erogazione di un prestito l’acquisto di contraccettivi. Analogamente la longa manus della Banca Mondiale sul corpo della donna ha agito dietro le grandi campagne di sterilizzazione portate avanti nel cosiddetto Terzo Mondo, che hanno spesso avuto, come in Indonesia – diversamente dall’Africa dove la resistenza è stata più forte – un marchio completamente politico. Si intendeva cioè porre limite alla crescita di una popolazione che si era rivelata estremamente combattiva durante le lotte anticoloniali e che poteva potenzialmente lanciare una nuova lotta per la restituzione dei beni espropriati. Detto altrimenti è stata sterilizzata la possibilità della rivoluzione, con un processo analogo a quello contemporaneamente avviato negli Stai Uniti dove la sterilizzazione di massa ha interessato le afroamericane in carcere.
L’intervento dello stato sul corpo delle donne segue dunque traiettorie differenziate. Alcune donne sono state sterilizzate (spesso a loro insaputa, ad esempio nel caso delle “donne del welfare” negli Stai Uniti), ad altre si continua a proibire l’aborto. Dunque oggi lo Stato non interviene solo per aumentare il numero dei lavoratori da riprodurre ma sempre più si arroga il diritto di decidere chi può e chi non può riprodursi, chi può nascere e chi no, quali vite possono essere riprodotte e quali no. È un processo di appropriazione del corpo della donna estremamente differenziato, che mostra il ruolo sempre più spiccato dello Stato nella determinazione delle relazioni sociali e sul piano della riproduzione, mentre le donne sono sempre più incentivate a mettere sul mercato non solo la sessualità ma anche la maternità.
Questa mercificazione della maternità, va detto, non è una cosa del tutto nuova. Storicamente le donne proletarie hanno fatto figli per le donne ricche che non potevano procreare. Ma oggi le cose vanno diversamente. Con la cosiddetta maternità surrogata sono sorte vere e proprie banche per la surrogacydove si può scegliere il tipo di donna da cui avere un figlio, proprio come sul mercato. Inoltre, in alcuni paesi, per esempio in India, esistono delle baby farm dove molte donne con difficoltà economiche si presentano per essere inseminate. La differenza con il passato è che se in precedenza la donna impoverita dava il bambino in adozione (anche dietro un compenso monetario), ora il bambino si fa dietro richiesta e attraverso un contratto che lega la madre surrogata ai futuri genitori e che impone alla donna a un capillare controllo sulla sua vita (non bere, non fumare, non avere rapporti sessuali, non avere relazioni con i propri figli, essere sottoposta a una marcata medicalizzazione, etc.). Quanto è non curante questa società nei riguardi delle donne!
La maternità surrogata è qualcosa di completamente nuovo, sorto nel nome di un’autonomia femminile che mutua, cambiandone il senso, il linguaggio dai movimenti femministi: le donne hanno il controllo sul proprio corpo e devono dunque essere libere di disporne come preferiscono. È stato così incoraggiato un atteggiamento orientato a disporre del corpo della donna anche attraverso la maternità. La questione, al centro del dibattito femminista, è stata fonte di contrasti all’interno del movimento. Mentre le frange liberali accettano l’idea di un’emancipazione femminista attraverso una maggiore presenza sul mercato, la gran parte del movimento è stata da subito contraria alla surrogacy, interpretandola come un’istituzionalizzazione delle gerarchie di classe, come una forma di alienazione a cui le donne si sottopongono a causa della loro mancanza di risorse e come strumento per rilanciare una figura di donna passiva, come un vaso da fiori, una donna utero, che serve solo a far crescere il seme maschile, una donna quindi completamente assoggettata ai ritmi della maternità. Inoltre, spesso si ignora che oggi molti bambini nati dalla surrogacy finiscono in un vero e proprio limbo legale. E questo accade quando il bambino non risulta conforme alle aspettative di chi l’ha commissionato, nel senso che viene rifiutato sia dalla madre surrogata che dalla famiglia che l’aveva richiesto.
Contemporaneamente però, mentre si incoraggia la mercificazione della maternità, cresce l’intervento dello Stato sul terreno della riproduzione. Ad esempio negli Stati Uniti, e soprattutto nel sud, si registra un intervento pesantissimo e capillare dello Stato attraverso la presenza dei movimenti per la vita: veri e propri movimenti terroristici che stazionano nelle cliniche per letteralmente terrorizzare le donne che vanno ad abortire. Ma anche attraverso una serie di leggi che sanzionano con pene molto severe stili di vita che si considerano non adeguati alla maternità: se una donna guida mentre è incinta, se fuma o fa uso di sostanze.
Insomma, esiste oggi un intervento perverso e pesantissimo dello Stato nei confronti delle donne: un intervento che è sfaccettato. Da una parte si ostacola o si impedisce l’aborto e dall’altra si crea un mercato che permette alle donne di classe media di procurarsi un figlio che gli appartiene geneticamente ma senza quel lavoro considerato come degradante che è la gestazione.
Oggi l’iniziativa dello Stato va nella direzione esattamente opposta a ciò per cui il movimento femminista aveva lottato negli anni Settanta, ovvero per la riappropriazione del proprio corpo. Oggi sempre più il corpo della donna appartiene a chi lo compra; a chi compra il sesso e a chi compra la maternità. In questo senso, la surrogacy è l’esproprio del corpo della donna, proprio come durante la cosiddetta accumulazione originaria, quando insieme alle terre comuni di cui parla Marx fu cintato il corpo della donna. Un processo di recinzione costruito intorno alla caccia alle streghe. Una legislazione sanguinaria che ha permesso allo Stato di espropriare e prendere il controllo del corpo della donna. Un pesante processo di alienazione che ha portato la donna ad avere paura del suo corpo. Come il terrore di rimanere incinta che ha rovinato la sessualità di intere generazioni, la mia per esempio, in anni in cui la contraccezione non era molto diffusa.
È molto importante, io credo, leggere la continuità di questi percorsi. Nel periodo dell’accumulazione originaria il capitalismo ha creato le strutture che ancora fondano il controllo dello Stato sulla riproduzione. Oggi si danno chiaramente all’interno di un contesto diverso ma con grossi agganci a quelli che sono stati gli assi portanti del capitalismo e delle sue necessità di riproduzione. Quello che voglio dire è che oggi il controllo del capitalismo sul corpo delle donne e sulla loro funzione generativa non è solo in crescita ma assume anche una definizione qualitativa. Chi, come, dove può riprodurre o essere riprodotto. È il capitale a decidere. E l’unica libertà che il capitale accorda alle donne rispetto al proprio corpo è metterlo in vendita.
Fonte: Commonware
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