di Silvia Niccolai
In Costituzione c’è un solo articolo sul diritto di voto, il 48: il voto è un dovere civico ed è libero, uguale, personale e segreto. Le opinioni non sono concordi, ma è ben possibile pensare che quelle condizioni valgano per tutte le espressioni del voto, tra cui quella referendaria. In particolare, la previsione del quorum non comporta affatto la conseguenza che il voto referendario non sia “dovere civico”, nel senso di inerire alla cittadinanza con la stessa dignità del voto per le elezioni.
E si può spiegare più semplicemente col fatto che il referendum è un atto di democrazia diretta, con esso il corpo elettorale compone un’ideale assemblea deliberante, e per ogni deliberazione assembleare occorre stabilire un numero minimo di partecipanti che la renda valida. E se anche fosse che la definizione di “dovere civico” non si riferisce al voto referendario, come autorevolmente è stato insegnato, ciò non ha il senso di svalutare il referendum come una cosa meno importante delle elezioni; serve invece a qualificarlo come una cosa diversa e altrettanto fondamentale.
Mentre il voto elettorale inerisce al funzionamento normale, fisiologico e necessario delle istituzioni democratiche, dato che la nostra è essenzialmente una democrazia rappresentativa, indiretta o mediata, il referendum interviene in modo eventuale, se vi è l’iniziativa corrispondente, per rispondere tuttavia a una esigenza politica di primaria importanza e di estremo rilievo in democrazia: col referendum «il cittadino esplica il suo diritto di jus activae civitatis, il diritto cioè di cittadinanza attiva, di far valere la sua volontà in ordine alla gestione della civitas, esprimendo la sua opinione o la sua volontà sul modo di soddisfare determinati interessi pubblici ponendosi in una posizione di distacco o addirittura di contrapposizione rispetto alla volontà fatta valere dallo stato» (Mortati).
Poiché segnala una crisi tra rappresentanti e rappresentati – almeno su una determinata questione – il referendum è atto eccezionale; proprio per questo è fondamentale, quale “temperamento dell’onnipotenza della maggioranza” ed espressione di dissenso “che induce la maggioranza a mantenersi in costante contatto con l’opinione popolare”.
Il referendum abrogativo è un monito alla moderazione indirizzato ai rappresentanti, per questo credo goda oggi così cattiva stampa. Beninteso, la svalutazione del referendum non è cosa nuova nella nostra storia e riflette l’incontestabile favor accordato alla democrazia rappresentativa fondata sui partiti. Gli stessi costituenti, che pur inserirono in Costituzione il referendum, sebbene solo quello abrogativo (e comunque con questo si spinsero più avanti di altre costituzioni coeve), fissando una serie di paletti poi integrati dalla Corte costituzionale, nel complesso certamente non lo amavano.
Anche gli studiosi hanno spesso sostenuto che il referendum va preso con le molle: nel voto referendario il corpo elettorale porta un carico irrazionale di passioni, subisce messaggi semplificanti, si pronuncia su cose difficili che non capisce…. E come mai il corpo elettorale, che sarebbe irrazionale e anzi un po’ stupido quando vota per il referendum, diventerebbe invece razionale e intelligente quando vota alle elezioni politiche? Traspare da queste costruzioni tutta l’immensa fiducia che nella nostra tradizione è stata espressa nei confronti dei partiti, nella loro funzione di intermediazione e razionalizzazione. E’ del resto sui partiti che la Costituzione punta: il partito che è anche educatore del popolo. Svalutare il referendum va da sempre in sintonia con l’esaltazione dell’intrinseca bontà della democrazia dei partiti.
Tutto questo io non ho dubbi lo pensassero anche i costituenti: erano uomini di partito e per i partiti il referendum è potenzialmente sempre un disturbo, perché denota orientamenti del corpo elettorale distonici rispetto ai loro equilibri. Tuttavia ebbero il coraggio, direi forse l’onestà, di ammetterlo, e di questo coraggio va loro dato atto: fu il coraggio di riconoscere che (come poi i referendum, penso a quello sull’acqua del 2011, hanno dimostrato) il corpo elettorale può informarsi e scegliere in modo ragionato e assai più avanzato dei suoi rappresentanti politici. Che ci può essere crisi tra rappresentanti e rappresentati e che sono sempre i primi che devono ascoltare i secondi. E che nulla ci garantisce che non siano proprio i partiti a degenerare in attori i quali pur di guadagnare consenso si riducono a imbonitori che non educano ma diseducano.
Ricordando queste intuizioni possiamo orientarci nel presente. Oggi sono le elezioni politiche a fare appello a quelle spinte emozionali che sarebbero il limite del referendum: sul campo si schierano i buoni e i cattivi, la comunicazione politica, tutta personalistica, si rivolge alla pancia della gente. Il nuovo sistema elettorale, l’Italicum, semplifica all’estremo il confronto politico e, sapendo che probabilmente l’astensionismo sarà forte, consente al partito che rappresenta una minoranza del corpo elettorale di conquistare la maggioranza parlamentare. Il sempre incerto, difficile e complesso significato del non voto viene etichettato a priori: se la gente non voterà alle politiche è perché siamo una democrazia matura, non c’è nessun problema, anzi è ottimo.
Questo il contesto in cui, con una intensità mai vista prima, il referendum è stato investito di un registro discorsivo svalutativo del quale la questione del quorum, o dell’essere o meno il voto referendario dovere civico, sono state il veicolo. Queste questioni sono state messe al centro del dibattito non certamente, mi pare, per meditare sulla speciale funzione del referendum, ma, all’opposto, per squalificarlo: se si può anche non votare allora non è una cosa importante, è una bizza che qualcuno si è presa, che fa spendere solo denaro pubblico. Si parla a nuora perché suocera intenda?
Insistere che il quorum è previsto perché il risultato referendario deve esprimere la volontà di una fetta consistente del corpo elettorale ha come effetto la sottolineatura che una simile necessità non può mai neppure lontanamente valere per le elezioni politiche: queste sono buone in se stesse, sempre rappresentative anche se vota meno della metà dell’elettorato. Svalutando l’istituto che è stato messo in Costituzione per moderare i governanti si autorizza la minoranza che salisse al potere domani a non conoscere moderazione, come non ne ha dimostrata il partito che, con i voti che detiene grazie a una legge elettorale illegittima, ha messo mano alla revisione costituzionale?
Per quanto credessero nella democrazia rappresentativa e avessero fede nei partiti, i costituenti non si nascosero che entrambi possono degenerare. Per questo introdussero il referendum abrogativo. Noi, distratti dalla querelle se il voto referendario è o non è un dovere civico, perdiamo di vista il punto centrale. Dovere civico o meno, il referendum è stato messo in Costituzione per frenare gli abusi dei governanti e prima ancora per ammonire che abusi sono sempre possibili, anche da parte dei rappresentanti, degli eletti, dei capi. E’ per questo che oggi chi esprime l’idea che il referendum, questo referendum, ogni referendum sia una cosa importante che va trattata con rispetto fa quasi scandalo? La democrazia che nega i suoi pericoli, e per negarli calpesta uno strumento che li ricorda, non sembra in buona salute.
Fonte: il manifesto
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