di Alessandra Ciattini
Si parla assai spesso e a ragione di “pensiero unico”, per sottolineare come la cultura mass-mediatica, in tutte le sue forme, comprese le sue rozze espressioni politiche, sia dominata da un'unica concezione del mondo, scaturita dalla cosiddetta fine delle ideologie, improntata ad un facile pragmatismo che incanta l'uomo pratico e concreto, e talvolta intrisa di un buonismo ipocrita auspice del rispetto dell'altro e pronto ad agitare la “cultura dell'accoglienza”.
Tale concezione del mondo si incarna nel neoliberismo, affermatosi negli ultimi decenni del Novecento a causa di un complesso di fattori, i quali hanno contribuito al consolidarsi di quello che Ernest Mandel definisce “tardo capitalismo” (Der Spätkapitalismus, Francoforte 1972). Naturalmente il richiamo al buonismo e alla “cultura dell'accoglienza” non sono elementi costitutivi del neoliberismo, che si presenta limpido nella sua spietatezza, ma che taluni amano rivestire di tali pietosi veli per non fa sobbalzare i ricettori del suo messaggio.
L'emergere del neoliberalismo coincide con l'attacco condotto allo Stato sociale, e quindi con l'assalto ai diritti sociali dell'individuo che facevano di esso un membro della comunità, nel cui seno avrebbe dovuto trovare tutti quegli strumenti idonei a trasformarlo in un cittadino a tutti gli effetti. Con Margaret Thatcher abbiamo imparato che la società non esiste e che ognuno deve farsi carico individualmente del proprio “successo” sociale [1], anche nel caso in cui ciò significa il raggiungimento stento della mera sopravvivenza.
Esso ha rappresentato l'abbandono del keynesismo postguerra e il ritorno al monetarismo, ma al tempo stesso in esso si è coagulata la reazione alle vittorie conseguite dai lavoratori sul piano sociale, dovute anche allo scenario internazionale, in cui il “capitalismo puro” aveva dovuto moderarsi per l'esistenza di un modello alternativo, pur con tutti i suoi problemi.
La ristrutturazione socio-economica neoliberale, concretatasi nell'antistatalismo e nello anticollettivismo, ha partorito regimi populisti autoritari, che hanno rimaneggiato la democrazia formale, per esempio, con le leggi elettorali maggioritarie, e che fanno appello direttamente al “popolo” o alle “persone” [2], mettendo tra parentesi la collocazione di classe e fomentando le divisioni etniche e religiose.
Tali processi sono stati accompagnati dall'indebolimento degli Stati, non dotati di un significativo apparato militare, dovuto alla sempre più capillare internazionalizzazione del mercato e al rilancio dell'imperialismo; fenomeni che hanno reso sempre più aspri i conflitti tra le potenze che controllano le diverse regioni del mondo e che spesso si combattono in maniera indiretta, fomentando contrasti e divisioni.
La frammentazione del tessuto sociale e l'accento posto sull'individuo, presentato come l'autentico attore sociale, hanno comportato la dissoluzione delle grandi organizzazioni di massa (partiti e sindacati); il loro ruolo è stato ridimensionato anche dall'impossibilità di offrire ai loro seguaci una scelta tra sistemi sociali diversi, oltre che dalle relazioni collusive che i loro leader hanno intessuto con i detentori del potere economico e politico.
Tutto ciò ha generato la perdita di identità politiche e sociali, che erano state costruite nel corso di esperienze storiche problematiche e dolorose, ma coagulanti e coinvolgenti, e la ricerca di elementi di identificazione in entità sempre più ripiegate su se stesse e volte a ribadire la loro peculiarità e specificità, rifiutando anche l'ipotesi dell'esistenza di prospettive comuni, che potrebbero orientare le varie forme di protesta. Un esempio tra tutti potrebbe essere il femminismo differenzialista, che rifiuta l'emancipazione della donna, così come era stata tradizionalmente intesa, rinunciando alla parità dei diritti dei sessi, non comprendendo che quest'ultima non deve esser abbandonata, ma coniugata con il rispetto per la specificità femminile [3].
È interessante osservare che già nel 1968 l'antico consigliere del presidente Carter,Zbigniew Brzezinski, descriveva questi processi, riflettendo su quello che sarebbe stato il ruolo degli Stati Uniti (lui dice America) nella cosiddetta era tecnotronica, nella quale a partire dal 2000 – secondo la sua opinione - si sarebbero realizzati cambiamenti così radicali che avrebbero fatto impallidire Robespierre e Lenin (America in the Technetronic Age, “Encounter” 1968) [4].
Nell'opinione di Brzezinski l'espressione “tecnotronica” indica la rivoluzione scientifica e tecnologica, che caratterizza il periodo storico, iniziato verso la fine del Novecento, e che si fonda sullo straordinario sviluppo delle telecomunicazioni, dell'informatica e sull'uso sempre più esteso dei computer; periodo verso il quale, quando Brzezinski scriveva, gli Stati Uniti, primi tra tutti, si stavano avviando. A suo parere, in questa fase, il processo industriale non costituisce più la determinate principale delle trasformazioni, il cui impatto avrebbe prodotto il cambiamento dei costumi, della struttura e dei valori della società. Questo mutamento avrebbe generato la separazione degli Stati Uniti dal resto del mondo, promuovendo un'ulteriore frammentazione in un'umanità già profondamente differenziata, e avrebbe imposto a questi ultimi lo speciale compito di alleviare i dolori scaturiti da questo scontro (Ibidem, p. 16).
D'altra parte, tali trasformazioni – sempre nell'ottica di Brzezinski – inducono a un ripensamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo – ovviamente sempre egemonico [5] -, non più orientato a combattere il comunismo o a favorire lo sviluppo delle differenze, ma a diffondere in modo capillare le conoscenze tecnologiche e scientifiche. E questo è facilitato dalla costituzione di vaste corporazioni internazionali, principalmente radicate negli Stati Uniti, le quali rendono agevole il trasferimento delle abilità, delle tecniche di management, delle procedure di marketing e delle innovazioni tecnologiche e scientifiche.
Questo ampio e capillare programma ideologico, nel quale si palesa quel pensiero unico su menzionato e che vuol imporre a tutti gli spazi culturali la logica del mercato, sarà realizzato per mezzo del sistema universitario dei vari Paesi, modificato per l'influenza di quello statunitense (come è di fatto avvenuto anche nel nostro Paese). Quando esso si sarà realizzato – scrive Brzezinski - sarà possibile che gli studenti della Columbia University e quelli dell'Università di Teheran ascoltino allo stesso tempo la lezione di uno stesso docente (immagino statunitense e non iraniano) (Ibidem, p. 26).
La riflessione di Brzezinski si richiama a un noto sociologo statunitense, Daniel Bell, il quale in un articolo del 1967 (Notes on the Postindustrial Society, “The Public Interest, n.5 e 7) introduce appunto il termine postindustriale, che tanta fortuna ha avuto e che è stato coniugato con quello di postmoderno, la cui utilizzazione propone di intendere il passaggio dalla società moderna a quella successiva nei termini di una rottura e di un cambiamento radicale.
Su tale complicato problema interpretativo mi limito a citare la riflessione di Fredric Jameson, il quale, riproponendo la tesi del già menzionato Mandel, sostiene che la postmodernità costituisce una fase, la terza del capitalismo (tardo capitalismo)e che scivoleremmo in una “celebrazione pseudoutopica della nostra epoca ‘internettiana’, se al contempo non affermassimo la continuità tra la soggiacente dinamica economica della postmodernità e della globalizzazione con le strutture analizzate da Marx nelle prime epoche del capitalismo”.
Sempre seguendo Mandel, Jameson afferma che “il nostro è un capitalismo più puro, in piena sintonia con le analisi di Marx… [in questo senso] la modernità è l'espressione di una modernizzazione incompiuta e la postmodernità di una modernizzazione e di una mercificazione tendenzialmente molto più compiute rispetto a quanto finora si è visto nella storia” (Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi Editore, Roma 2007, edizione digitale, pp. 5-8).
Prima parte ....continua
Note
[1] Questa è la frase completa della Thatcher, pronunciata in un'intervista del 1987: “La vera società non esiste. Ci sono uomini e donne, e le famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone. La gente deve guardare prima a se stessa. È nostro dovere badare a noi stessi e poi prendersi cura del prossimo” (D. Keay,Woman's Own, 31 ottobre 1987, pp. 8-10).
[2] Come fa spesso Susanna Camusso.
[3] Per esempio, rifiutando che le donne vadano in pensione alla stessa età degli uomini, perché hanno compiti riproduttivi e assistenziali differenti rispetto a questi ultimi.
[5] Come è noto, stiamo vivendo nel “secolo americano”.
Fonte: La Città futura
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