di Andrea Bajani
Nelle pagine finali di Il nostro bisogno di consolazione, Stig Dagerman scriveva «Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita, tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione». Quel testo, pubblicato su un periodico svedese nel 1952 (e disponibile da Iperborea nella traduzione di Fulvio Ferrari), venne considerato il testamento dello scrittore svedese.
L’autore di Bambino bruciato aveva ventinove anni. In cinque anni di scrittura forsennata, tra il 1945 (anno di uscita del suo romanzo d’esordio, Il serpente) e il 1950, aveva pubblicato romanzi e racconti che gli avevano fruttato un grande successo. Dagerman era l’enfant prodige della letteratura svedese del dopoguerra. Nella sue pagine i lettori potevano trovare disperazione e rabbia, e un radicalismo che era la conseguenza più diretta del suo inesausto arrovellarsi sul tema della libertà.
«La libertà ha inizio con la schiavitù e la sovranità con la soggezione», scriveva ancora nel Nostro bisogno di consolazione. «Il più sicuro indizio della mia mancanza di libertà è il mio timore di vivere. L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza». Queste parole, strette tra la paura di stare al mondo e l’anelito a esserci senza condizionamenti, vengono a considerate profetiche di un destino che si stava per compiere. L’anno successivo, dopo un lungo periodo lontano dalla scrittura, Stig Dagerman si sarebbe chiuso nella sua auto, in garage, e si sarebbe ucciso soffocandosi con i gas di scarico. Eppure Il nostro bisogno di consolazione è un testo di straziante bellezza – uno tra i più struggenti e limpidi di questo che resta tra i maggiori scrittori del secolo scorso – proprio perché non è il referto psichico di un suicida, ma la testimonianza di un pensiero libero e forte, coerente nella sua devastante contraddizione. Ne abbiamo ora la conferma con la pubblicazione di La politica dell’impossibile (Iperborea, nella consueta ottima traduzione di Fulvio Ferrari, pp. 144 euro 15,00), che raccoglie i testi della militanza anarchica di Dagerman in un arco di tempo compreso tra il 1943 e il 1952. È un Dagerman che usa parole più svelte e stropicciate, frutto di un apprendistato politico e del ribellismo giovanile. Il primo lo apprese alla scuola del padre (un operaio anarchico nella Stoccolma dei primi anni trenta) e il secondo è, forse, il frutto più di un’insofferenza al potere che di una coerenza ideologica.
Fin dai diciassette anni, come riepiloga Fulvio Ferrari nella prefazione, Dagerman mise la penna al servizio del sindacato. All’inizio come redattore della rivista anarchica «Storm» («L’assalto»), poi nel quotidiano «Arbetaren» («Il lavoratore»). C’è un tono tra il romantico («Cuori ardenti. A chi interessano più i cuori ormai? E i poeti», scritto mentre la guerra infuriava) e l’implacabile. Il ventenne che contribuisce al movimento anarco-sindacalista tiene la realtà sotto assedio con l’esercizio di un pensiero critico serrato. Dove l’ideologia dominante imbelletta il presente, tentando di vendere il mondo del benessere come il migliore possibile, lì il giovane scrittore fa la punta alla matita, e parte all’attacco: «Lo stato democratico della nostra epoca presenta un tipo del tutto nuovo di disumanità, la cui natura non è migliore di quella dei regimi autocratici del passato. Il principio divide et impera non è stato abbandonato, ma l’angoscia creata dalla fame, dalla sete, dall’inquisizione sociale è stata, almeno in linea di principio, sostituita come strumento di dominio nello stato del benessere, dall’angoscia dovuta all’incertezza, all’impossibilità dell’individuo di decidere il proprio destino nelle questioni essenziali».
È lo stesso Dagerman di Bambino bruciato e di Il nostro bisogno di consolazione, il poco più che ventenne autore di queste parole. Dietro la penna c’è sempre un uomo che si chiede quale spazio abbia la letteratura in un mondo messo a pascolare dentro i recinti del potere. Affronta questo tema esplicitamente in un testo del 1945, ora contenuto in La politica dell’impossibile, «Lo scrittore e la coscienza», mettendo sulla pagina l’implacabile contraddizione tra la ricerca costante dell’armonia e l’assedio benefico del dubbio. È un istinto naturale quello che guida Dagerman a trovare una casa al caos, e a ogni riga si affaccia l’illusione di esserci riuscito: «Lo scrittore è riuscito a convincersi di avere racchiuso l’infinito entro confini solidi e indistruttibili». Una conquista che però è come un tranello, perché disinnesca l’allerta degli occhi e del pensiero: «Crede di aver finalmente trovato quella stabilità tanto a lungo desiderata. Una nuova sicurezza, che assomiglia purtroppo alla beatitudine del pensionato, si impadronisce di lui. Ben presto quest’uomo diventa pericoloso con la sua garantita assenza di problematicità, che lui si ostina a presentare come l’ideale di qualsiasi forma di vita».
Poi, salutare, la messa in discussione delle cose: «All’improvviso, arriva lo choc. (…) La falsità dello stile di vita che si era imposto doveva in fin dei conti risultargli chiara. In fondo non poteva sconfiggere la volontà di dubitare, anche se in molti lo aiutavano a provarci». Dagerman ha chiaro il fatto che è questa insidia, questa condizione di latente disperazione a fare della letteratura il bene più prezioso. «La letteratura va difesa giorno per giorno, momento per momento. Non c’è una difesa definitiva, così come gli attaccanti, i sostenitori dell’ordine più o meno stabilito, non ritengono mai che il loro attacco sia l’ultimo».
Quello di Dagerman è un universo che ruota intorno alla contraddizione di uno scrittore di origini operaie ma con un successo borghese; a monte, soprattutto, c’è la contraddizione tra una realtà che occulta il conflitto e la letteratura che lo deve testimoniare, che deve portarlo fuori a parole. Dagerman è il grande scrittore dei conflitti messi sotto il tappeto. Il suo è un mondo appena uscito da una grande guerra mondiale e somiglia al nostro perché, in realtà, il conflitto è più vivo che mai. La politica, dice questo libro imprescindibile, troppo spesso è il braccio armato della ragione: è la libertà messa in manette e poi rinchiusa dentro una cella chiamata società.
La democrazia in fondo non è altro se non una forma di ragionevolezza nel perdere, l’accettazione di una resa delle cose. Gli anarchici, sembra dire Dagerman, non si arrendono mai, ed è questa per certi versi la loro sconfitta vittoriosa. Chiedere il possibile è l’ammissione di uno scacco, è un’eutanasia sociale che si riconferma a ogni esercizio del potere, la condanna a morte di ogni utopia e di ogni soprassalto rivoluzionario. La politica, questo logoramento dell’agire collettivo, va di pari passo con la devitalizzazione culturale: «una maggioranza spaventosamente grande versa nella miseria intellettuale o, per essere più precisi, in una totale assenza di bisogni culturali che è indegna di esseri umani che vivono in una democrazia».
Il possibile non è altro, per Dagerman, che l’archiviazione del futuro: «La politica è stata definita l’arte del possibile. Mi sembra una definizione adeguata. Il possibile è in effetti il minimo pensabile. Credere nel possibile significa avere operato una censura preventiva nelle possibilità del rischio, della speranza e del sogno. (…) Non è mai senza senso scegliere l’impossibile invece del possibile. L’unica cosa insensata è accettare il possibile».
Fonte: il manifesto
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