di Alberto Olivetti
«Da che cosa nasce in te la scelta del partito comunista?» chiede a Pietro Ingrao, in una pagina de Le cose impossibili, Nicola Tranfaglia. La risposta è: «Prima di tutto per un bisogno di libertà. Questo fu ed è rimasto un punto costitutivo del mio impegno nella politica: ci riuscissi o no. Devo confessare che in me la motivazione della modernità, dello sviluppo non è stato mai il punto determinante. Il ‘progresso’ stava per me in quel processo di liberazione. E vorrei spiegarmi: esso era qualcosa di più e di diverso dalla uguaglianza».
L’argomentazione di Ingrao ha il tono di un bilancio, reso guardando all’insieme del suo «impegno nella politica» che già si estendeva allora, nel 1990, per un corso di oltre cinquanta anni. Ragionando la connessione di libertà e comunismo, Ingrao accosta due termini: «progresso» e «processo», combinati in modo che l’uno – progresso – si elida nell’altro – processo.
La questione della libertà viene di conseguenza raccordata, significativamente, con processo e non coordinata a progresso. Secondo Ingrao si ottiene adeguata e proficua nozione d’una realtà grazie alla attenta ricognizione delle realtà che essa implica, coinvolge e collega. Comprese le realtà che evoca o solo suggerisce, per via d’allusione o d’analogia. Comprese le realtà che ricusa o che declina in opposizione o a contrasto.
Su queste premesse, Ingrao richiama ad «una visione polimorfa delle cose e della soggettività». Le realtà, vuoi soggettive, vuoi di relazione, si affermano complesse, producono complessità e come complessità agiscono. «Dar conto della complessità»: tale, dice Ingrao, è il compito della politica quando è intesa a «esprimere un allargamento dell’esistere», chiamata ad articolare una prassi che promuova le condizioni necessarie per una espansione delle libertà. Ingrao ha dedicato una cospicua parte delle sue energie a rendere il partito comunista – al quale ha aderito per «un bisogno di libertà» – adeguato a dar conto della complessità, nella situazione storicamente determinata dell’Italia repubblicana, dentro la regola e nello spirito della Costituzione del 1948. Nell’idea di Ingrao, il partito è l’assetto che dispone, appresta, prepara – accordando e componendo – fino ad affermare e realizzare, dando loro una riconoscibile forma, le istanze di trasformazione che emergono mature nella concretezza della relazione economico sociale. La forma comunista di partito, nell’avviso di Ingrao, va modulata sul convincimento che le realtà soggettive e di relazione vadano assunte come «complessità».
Costantemente studiate nei loro svolgimenti, si tratta di favorire e intensificare le dinamiche che recano equilibri nuovi nell’intento di dar loro un orizzonte di senso. L’orizzonte comunista verrebbe così delineato da una «praxis» del connettere, dell’intrecciare, del combinare soggetti e istituzioni, coscienza e partecipazione, ruoli e interazioni facendo ricorso e valorizzando le istituzioni della Repubblica e le articolazioni volta a volta nuove che si danno i movimenti.
Non si tratta, allora, di operare, a mezzo del partito, una «reductio ad unum» delle plurali realtà.
Dal modello, termine privilegiato da Ingrao nella discussione e nel confronto sullo sviluppo italiano negli anni Sessanta, al processo, quale forma adeguata d’un organismo politico teso ad una prospettiva di crescita delle libertà. La funzione del partito sta nel disporre la complessità riconoscendone i peculiari flussi e conducendoli secondo un processo. Ingrao giunge per questa via a configurare l’agire politico come un risultato, non come una presa di posizione.
Fonte: il manifesto
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