di Jamila Mascat
A più di cinque settimane dal primo sciopero di protesta contro la riforma del lavoro, il 9 marzo, la Loi El Khomri sembra un effetto goffamente indesiderato. La legge di troppo, quella che ha fatto traboccare il vaso dell’insofferenza ed è riuscita a coagulare la rabbia delle vite precarie di giovani e lavoratori esposti ai contraccolpi della crisi economica e sottoposti da oltre cinque mesi alla cappa asfittica dello stato di emergenza. E infatti ni chair à patron, ni chair à matraque (non siamo carne da macello per le imprese né per i manganelli) è diventato il ritornello della protesta.
Se la difesa dello statuto dei lavoratori sotto attacco è il primo punto all’ordine del giorno, la posta in gioco della mobilitazione è ben altra. Al coordinamento nazionale degli studenti medi, che sabato e domenica si è riunito per la prima volta a Nanterre, c’è perfino chi suggerisce di votare la rivoluzione. Nelle assemblee universitarie (miste, non miste, di dipartimento e interfacoltà), che si susseguono e si moltiplicano a scadenze ravvicinate, il lavoro è in questione: si discute delle 32 ore, dei sussidi di disoccupazione, di basic income e organizzazione sindacale.
C’è chi perora la causa dei contratti a tempo indeterminato, chi dice “lavorare tutti/lavorare meno” e chi, come Selim, al quarto anno di filosofia alla Sorbona, di lavoro salariato non vuole sentire parlare perché andrebbe abolito. L’assemblea degli studenti di filosofia di Paris 1, riunita lunedì nell’anfiteatro Turgot, si confronta a lungo sulla mozione che propone l’aumento di 300 euro del salario minimo (Smic). Per alcuni è una mossa al ribasso, per Mathieu, che la difende a spada tratta, “non significa la fine del capitalismo, ma è una misura concreta che può servire a qualcosa”; alla fine conquista i pareri degli scettici e la maggioranza è favorevole.
“Fare deragliare il governo”
Rapidamente nel corso delle riunioni studentesche è maturata la consapevolezza che non è possibile combattere la Loi Travail senza espandere il perimetro della contestazione: quindi si esige anche la fine dello stato di emergenza, si chiede la revoca della nuova legge contro la prostituzione che criminalizza i clienti, si condannano gli sgomberi degli accampamenti dei rifugiati, si chiede il rilascio immediato dei manifestanti fermati e si decidono azioni concrete di sostegno ai lavoratori in lotta.
La lettera indirizzata ai ferrovieri della Gare d’Austerlitz dagli studenti di Paris 1 e dell’Ecole Normale Supérieure comincia così: “Cari lavoratori e lavoratrici, […] il 31 marzo eravamo più di un milione in piazza a manifestare e a esprimere in massa e con entusiasmo la nostra collera e il rifiuto categorico di questa progetto antisociale. La pioggia e i manganelli non sono riusciti ad abbatterci”. Se il calendario di mobilitazione previsto dalle direzioni sindacali rischia di “dividere il movimento proprio nel momento in cui è fondamentale restare uniti”, gli studenti prendono l’iniziativa da soli e invitano i ferrovieri a Tolbiac, a partecipare sabato mattina a un’assemblea interprofessionale di quartiere con i postini, gli insegnanti, il personale dell’ospedale della Pitié-Salpêtrière e altri lavoratori mobilitati. Se “la convergenza delle lotte non è un mito, né il disco rotto di militanti ottusi, ma la sola carta vincente di questo movimento”, allora bisogna darsi da fare.
E gli studenti non perdono tempo: in duecento martedì pomeriggio hanno fatto incursione alla stazione di Saint-Lazare per dare manforte ai travailleurs deboutcon la proposta di “far deragliare insieme il governo”. L’obiettivo di questo e altri interventi a fianco di un settore tradizionalmente combattivo, e ora in lotta contro l’attuale riforma dello statuto dell’impresa ferroviaria oltre che contro la Loi Travail, è il tentativo di rinnovare le relazioni pericolose tra studenti e ferrovieri e far scoccare la scintilla sui binari per accendere la fiamma dello sciopero generale, come accaduto a maggio del 1968 e a novembre del 1995.
Call Center, la catena della miseria
Karim, delegato di Sud Rail, che lavora nelle officine di manutenzione dei Tgv e degli Eurostar di Saint-Denis, prende la parola all’incontro sulla convergence des luttes organizzato dal comitato di mobilitazione di Paris 8. “Venite a trovarci in stazione e in officina, perché abbiamo bisogno di sapere che c’è gente là fuori che non aspetta altro che paralizziamo tutti i treni”. Marie, studentessa di Paris 8, raccoglie l’invito: “Se non lo facciamo noi che abbiamo tempo ed energia a disposizione, chi lo deve fare questo lavoro?”. La parata di lavoratori e studenti in lotta che chiedono e promettono di sostenersi a vicenda continua.
Ci sono anche Moustafa e Karine di Air France, Alexis della RATP, l’azienda metropolitana di Parigi, Elisa della coordination degli intermittenti dello spettacolo, e il collettivo degli operatori sociali del 93, un distretto alla periferia nord della capitale. Luís lavora al 3949, il call center del collocamento.
“Lo chiamiamo il gulag perché è un inferno. Noi lavoriamo come sorvegliati speciali, mentre i disoccupati che telefonano ci trattano come se fosse colpa nostra”. Luís racconta la “catena della miseria” che nelle banlieues si propaga all’infinito. Per questo “la battaglia contro la Loi El Khomri deve farsi carico delle periferie dove il lavoro è già una tragedia e per essere fermati dalla polizia non serve neanche manifestare”. Kenza, del coordinamento degli studenti medi, fa appello all’unità contro le intimidazioni.
Cgt: se la polizia tocca uno studente, blocchiamo i porti
Dopo il caso (virale su youtube con oltre due milioni di visualizzazioni) di Danon del liceo Bergson, a Parigi, preso a pugni da tre poliziotti che gli hanno spaccato il naso, e la vicenda di Ryan, il quindicenne fermato per 24 ore con l’accusa di aver tentato di bruciare un cassonetto davanti al liceo Voltaire, che ora rischia fino a 10 anni di prigione e 75mila euro di penale per danneggiamento di beni materiali suscettibile di causare danni a terzi, al liceo Blanqui, a Saint-Ouen, i militari pattugliano l’ingresso dell’edificio, formalmente per ottemperare al piano Vigipirate antiterrorismo.
Manuela lavoratrice portuale di Le Havre, in Normandia, lancia una proposta concreta: “Da noi la CGT ha votato una mozione semplice: se la polizia tocca uno studente, blocchiamo il porto, e finora la minaccia ha funzionato”. Applausi.
Contro la tentazione diffusa a isolare i casseurs (letteralmente “quelli che spaccano”), la portavoce del coordinamento nazionale degli universitari Aïssatou Dabo ha replicato che “la violenza sta tutta da una parte sola”. Gli studenti, insomma, non ci cascano. E il fatto che qualche migliaio di poliziotti abbia sfilato il 7 aprile scorso all’appello del sindacato Unité-police SGP-FO per chiedere una riqualificazione professionale e remunerativa all’altezza degli sforzi supplementari imposti dallo stato di emergenza, è forse la cartina di tornasole più palese di uno stato di repressione, che è riuscito ad affaticare non solo chi lo subisce ma perfino chi lo infligge.
Place de la République: centro irradiatore
Finora, nonostante gli incidenti di percorso, gli studenti hanno dimostrato di avere tutto quello che serve per continuare la protesta: i piedi per terra, per correre e sfuggire alle cariche della polizia, e la testa sulle spalle, per non lasciare che la divisione mediatica tra buoni e cattivi si insinui a frantumare il movimento. Il corteo del 5 aprile è stata una bella prova di solidarietà. A Parigi la manifestazione è finita dopo ore e ore di presidio davanti al commissariato di Rue de l’Evangile in attesa che i compagni arrestati venissero rilasciati (130, di cui molti adolescenti) e si è conclusa con una marcia trionfante e spontanea che poi è confluita verso la Place de la République per ripartire di nuovo, a tarda notte, verso il Quartiere Latino e erigere le barricate sul Boulevard Saint-Germain aspettando la liberazione degli ultimi fermati.
La place de la République, che solo pochi mesi fa era stata investita dal lutto commemorativo degli attentati di novembre, è stata designata dai promotori della Nuit debout a epicentro della protesta. La trovata viene da lontano e risale a una riunione organizzata il 23 febbraio alla Camera del lavoro, non lontano da lì, su iniziativa della redazione del giornale satirico Fakir, diretto da François Ruffin, il regista del film Merci patron!, che sta riscuotendo un successo sorprendente nelle sale e nelle piazze francesi.
In quell’occasione lavoratori, precari, studenti e sindacalisti hanno lanciato la proposta di inventare un modo per “mettere paura” al governo. Quando a marzo quell’iniziativa ha incrociato il percorso della battaglia contro la Loi Travail, è nata l’idea di occupare République, a partire dalla notte del 31 marzo, per perpetuare il movimento e fare in modo che il 1 aprile non segnasse una battuta d’arresto della protesta cristallizzata dallo sciopero del giorno precedente. Così è nato il nuovo calendario che sta prolungando all’infinito il mese di marzo.
Straripamenti
Trascorrere la nuit debout significa rimanere svegli e vigili, ma restare anche in piedi, ben dritti pronti a resistere e contrattaccare. Occupata dopo tre settimane dall’inizio della mobilitazione contro la Loi Travail, la Place de la République, non è il “crepuscolo dei bobo” (bourgeois-bohémiens) che vorrebbe Le Figaro, ma un centro di irradiazione delle lotte. La manifestazione del 9 aprile, partita da République e conclusa tra cariche e lacrimogeni a Place de la Nation, verso sera è tornata al punto di partenza. Da lì ancora centinaia di manifestanti hanno lanciato la proposta di andare a prendere l’aperitivo a casa del primo ministro Manuel Valls. E dopo una lunga scorrazzata in giro per i quartieri del centro – unica vittima un veicolo elettrico dell’autolib, il servizio di car sharing di proprietà del gruppo Bolloré, antico marchio del capitalismo francese dal 1822 – tutti sono riconfluiti di nuovo in piazza cercando di bloccare il traffico dei boulevard limitrofi.
Per prevenire altri “straripamenti”, paventati dalla sindaca socialista della capitale Anne Hidalgo, l’ennesimo sgombero della Place de la République minacciato per la notte di domenica, è avvenuto prevedibilmente all’alba di lunedì, ma la piazza è stata altrettanto prevedibilmente rioccupata dai protagonisti della Nuit debout. All’appello del segretario del Partito Socialista, Jean-Christophe Cambadélis rivolto ai CRS debout! (Celerini in piedi!) la piazza ha risposto per le rime: Paris debout, Valls à genoux! (Parigi in piedi, Valls in ginocchio). E intanto dalle tante piazze francesi della Nuit debout meno celebrate dai riflettori, ma combattive e persistenti, si fa strada l’idea di un appuntamento parigino nazionale, mentre si moltiplicano le notti brave anche nelle periferie della capitale grazie agli sforzi delle assemblee interprofessionali e delle associazioni di quartiere.
Anomalia francese
L’occupazione della piazza evoca inevitabilmente i precedenti illustri di questi ultimi anni – Puerta del Sol, Zuccotti e Gezy Park. Ma i paragoni aiutano fino a un certo punto e rischiano di annacquare l’anomalia francese. Intanto, a differenza del 15-M e di Occupy, la Nuit debout si inscrive all’interno di un movimento sociale nato per contestare un provvedimento di legge che rimette in discussione i capisaldi del diritto del lavoro; non a caso lo sciopero generale, profondamente inscritto nella tradizione del movimento operaio di questo paese, è una delle parole d’ordine della protesta.
E a République tra le tante commissioni che si riuniscono quotidianamente o quasi – Françafrique, azione, democrazia, migrazione lgbt+, educazione, femminismo, economia, discriminazione – per poi presentare lo stato dei lavori ogni sera in assemblea c’è anche la commissione grève générale. In secondo luogo si tratta di un movimento offensivo che ha dato ripetutamente prova di voler forzare limiti e divieti imposti dall’ordine pubblico, pur incanalando la collera nei ranghi della strategia. Merita di non essere trascurata nemmeno la partecipazione delle organizzazioni politiche e sindacali all’esperienza dellaNuit debout. Il processo di erosione della legittimità di queste stesse organizzazioni che aveva largamente ispirato l’M15, è per ragioni storiche e congiunturali meno pronunciato in Francia che in Spagna.
Furiosamente espansivi
La dinamica della piazza è furiosamente espansiva. A République non solo confluiscono le tante anime della protesta, ma da lì defluiscono per mobilitare altre forze e altri spazi. La convergence des luttes, un cavallo di battaglia di vecchia data nella storia dell’extrême gauche francese, è nel ritmo prima e oltre che nello spazio, e consiste nel tentativo di sincronizzare gli orologi della lotta. Il tous ensemble, l’arma gloriosa degli scioperi del 1995 contro la riforma del welfare dell’allora primo ministro di Chirac, Alain Juppé, e l’obiettivo dichiarato di questo movimento, non può che essere il risultato di una trama composita di tempistiche non allineate.
Per questo tra le fila dei militanti sindacali, degli studenti e di tanti lavoratori mobilitati c’è timore che le direzioni confederali, la Cgt in primis, rischino di bruciare i tempi rinviando la convocazione del prossimo sciopero al 28 aprile. Per ora le gentili concessioni di Valls agli studenti non hanno sortito alcun esito, mentre Cgt, Sud, Fo, Fsu mantengono la richiesta del ritiro in blocco della Loi Travail.
Se ci fossero ripensamenti da parte dell’Unef, il principale sindacato degli universitari e il più moderato, il coordinamento nazionale degli studenti sarà pronto a contestare qualsiasi accordo unilaterale. A fine aprile inizia perciò il secondo round della mobilitazione: dopo lo sciopero intersindacale del 28, che alcuni settori sembrerebbero pronti a prolungare, la discussione della legge debutterà in Assemblea Nazionale il 3 maggio – qualche settimana prima del processo agli operai di Air France protagonisti a ottobre dell’affaire delle camicie strappate, fissato per il 27 maggio – per concludere a giugno l’iter parlamentare. Difficile fare previsioni in attesa di questo secondo round.
Intanto un nuovo movimento sociale ha cominciato a prender forma, tramutando la rabbia, la crisi, e i tempi bui dell’état d’urgence in qualcosa di nuovo e fortunatamente imprevedibile. “Non sapevano che fosse impossibile, allora l’hanno fatto”, direbbe Mark Twain.
Fonte: il manifesto
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