di Renata Morresi
Si parla molto dell’imminente concorso a cattedra. È un gran circo, in effetti. Il TAR è inondato diricorsi. I presidi incitano a boicottare le commissioni giudicatrici. Arrivano inaspettatiendorsement da parte di personaggi pubblici con tanto di dichiarazioni #noconcorsotruffa. Gli insegnanti già abilitati e “selezionati sul fabbisogno” si chiedono perché devono ripetere prove su cui sono già stati ampiamente esaminati. Qualcuno ha parlato dell’assurdità del didattichese, una neo-lingua usata solo nei documenti scolastici e che umilia l’intelligenza. Qualcuno è andato a sfogliare certi manuali di preparazione, venduti a trenta o quaranta euro a volume, scoprendo che sono plagi da Wikipedia.
Non sono tanto le complicazioni kafkiane. Che pure citerò, perché danno la dimensione del caos di cui molto si intuisce ma poco si sa. Non si è ha parlato, ad esempio, dell’obbrobrio metodologico che era il modello di iscrizione, da compilare on-line. Deve o no l’aspirante prof spuntare l’affermazione “ha insegnato nei Paesi UE”? Se ha lavorato in Italia, che a occhio è un “paese UE”, parrebbe di sì. Ma appena va col clic si apre una finestra in cui gli vengono richiesti incomprensibili documenti, equipollenze, certificati. Dopo sei ore spese a cercare di districarsi, a telefonare a un numero verde sempre occupato, a iscriversi a forum pieni di colleghi furibondi, il disperato aspirante scopre che la dicitura in realtà va intesa come “ha insegnato in ALTRI Paesi UE” (bastava dirlo). Niente si è detto – altro esempio – della scheda in cui inserire i titoli di eventuali pubblicazioni. Congegnata con limitazioni che concedono di inserire solo un tot di caratteri e non permettono di usare apostrofi, due punti, vocali accentate, ecc., ha trasformato titoli di sobri e ponderati saggi critici in mostri sintattici. Ma queste ormai sono facezie in confronto al resto.
Consideriamo l’ingiustizia nel calcolo dei giorni di servizio a scuola già svolti come supplenti. Tutti sanno che i precari – in quanto tali – possono essere costretti a firmare decine di contratti all’anno (che ‘casualmente’, anche nella stessa scuola, terminano il 23 dicembre e ricominciano il 7 gennaio, per esempio). Che senso ha valorizzare solo i rapporti di lavoro con contratti continuativi quando le interruzioni sono imposte?
Si è commentata un poco, tra qualche risata amara, l’organizzazione malata del concorso, coi commissari pagati 50 cent a prova (in molte sedi introvabili, in fuga, coi certificati medici pronti nel cassetto per evitare la precettazione). Si è detto appena della fatica di trovare aule informatiche adeguate per il formato computer-based delle prove, ancor meno del fatto che il ministero ha dovuto elaborare una tabella di equivalenze per i caratteri mancanti nella piattaforma scelta. Insomma, i candidati si scordino la β tedesca o i segni diacritici del francese, per non parlare dei simboli matematici o delle formule di chimica.
Tuttavia, non sono neanche questi i nodi cruciali. Questi sono problemi marginali rispetto alle questioni enormi che pongono le circostanze (che pone il futuro). Come arginare la dispersione scolastica? Come motivare i più deboli? Come valorizzare i migliori? Come gestire le nuove difficoltà (classi numerose, multilingui, proliferare di disturbi di apprendimento, deficit dell’attenzione, bisogni speciali, ecc.)? Come formare i più giovani alla complessità, a una cittadinanza etica non meramente italiana ma planetaria? Come avviarli a un mondo della conoscenza che si è frammentato in molte nicchie settoriali ma che, proprio a ragione di questo, ha sempre più bisogno di mediatori, non solo di specialisti, di capire come siamo in relazione, non solo connessi, di comprensione olistica e non solo di culto della téchne? Come incoraggiare alla ricerca della verità? Da intendersi non in senso assolutistico e universalizzante, ma nella sua sostanza processuale, come studio continuo e attento, al di là della surfata su qualche sito acchiappa-clic. Come promuovere la libertà della scienza? Che non obbedisce agli stra-citati bisogni del territorio, alle necessità mercantili immediate. Come insegnare agli alunni non tanto a procurarsi un lavoro e ‘ringraziare il cielo’, ma a crearsi le occasioni per fare cose nuove?
Su tutto questo al momento non c’è dibattito pubblico. C’è il concorsone. C’è l’urgenza di avere modelli di quesiti (non ci sono), di capire come scorreranno le graduatorie di merito (non è chiaro), di conoscere in anticipo i criteri di valutazione (non disponibili). Cosa spinge un ministero a organizzare un concorso in questa confusione? Cosa induce a mettere in moto tale carrozzone per selezionare gente già selezionata? Una serie di credenze o pregiudizi, che si trasformano in meme, che sotto le pressioni populiste diventano ossessioni.
Per esempio: “La qualità!” “La meritocrazia!”, si dice compulsivamente. Tuttavia, invece di valorizzare le carriere migliori, di premiare lo studio e la preparazione, li si mortifica, instaurando una filiera di controlli prolissi e insidiosi, in stile persecuzione maccartista. Come si può dare valore al famigerato merito se ogni paio d’anni la formazione dei docenti viene ripensata, stravolte le modalità di accesso all’insegnamento? Le abilitazioni TFA, ad esempio, prese appena un anno o due anni fa, che avevano selezionato con svariate prove d’ingresso e di uscita un dieci per cento degli aspiranti totali, oggi valgono ben poco. Perché? Sembra quasi che il ministero boicotti le università, e i corsi da esse promossi, che boicotti le scuole stesse irridendo gli insegnanti non di ruolo (eppure col pieno titolo per insegnare), che costringa il sistema, a ogni turno, a resettare tutto e ricominciare la partita da capo.
So spiegarmelo solo con un insano culto del presente, con una sorda volontà di performance che comprende soltanto l’istante attuale: smaniosi di misurare il rendimento ma troppo impazienti per perseguirlo in modo coerente e curarne le condizioni, i governi italiani degli ultimi dieci anni non hanno fatto che distruggere la capacità dei loro cittadini di credere che il cambiamento sia possibile.
Perché si sta per fare un altro concorso? Forse solo per propaganda. O per punire, con un tocco brunettiano, gli ‘statali fannulloni’, per alimentare ‘la guerra civile cellulare’ tra precari, per piegare le professioni riflessive all’obbedienza alle ‘esigenze del lavoro’? Forse solo per togliersi di torno una mole di professionisti che non possono rientrare nel nuovo, grande (?) progetto affidato in delega al governo dalla legge 107 (creare corsi universitari ad indirizzo didattico, da cui i laureati escano pronti per farsi due/tre anni di lavoro quasi gratis chiamato ‘tirocinio’). Oppure: per sbaglio.
Fonte: nazioneindiana.com
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