di Dario Borso
L’11 gennaio 1974 lo psicanalista Elvio Fachinelli scrive una lettera a Pier Paolo Pasolini dopo aver letto sull’«Espresso» il resoconto di una polemica innescata da Edoardo Sanguineti in reazione alla pasoliniana Sfida ai dirigenti della Rai apparsa un mese prima sul «Corriere della Sera». Di questa l’articolista dell’«Espresso» riportava in avvio i passi salienti: «Il Fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta [...] Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata [...] Si può dunque affermare che la “tolleranza” dell’ideologia edonistica, voluta dal nuovo Potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana [...] Fino a pochi anni fa, i sottoproletari rispettavano la cultura, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà, ora cominciano a vergognarsi della loro ignoranza». Poi passava a citare la replica sanguinetiana apparsa su «Paese Sera» del 27 dicembre: «Sono proprio dei cafoni, i sottoproletari dei nostri tempi!
Perduta la splendida “rozzezza” di un tempo, non hanno più soggezione per il latinorum del signor curato… Felici gli analfabeti d’una volta che erano analfabeti veri, interi, tutti come si deve, tutti con il “mistero”, zitti, ordinati e contenti… Marx però era stato assai poco sensibile alla “irripetibile bellezza contadina”, la quale aveva anzi sbugiardato». Infine riportava un’esternazione di Pasolini: «Cosa ne sa Sanguineti, vissuto tra il salotto e la scuola, della vita popolare? Lo sapevamo gente come me, Penna, Comisso, esplosi fuori dal bozzolo borghese, esclusi, reietti, costretti a non vivere se non confusi dentro il popolo, nascosti dentro la sua oscura, anonima protezione. Sì, la vita popolare d’allora era più felice, perché così appartata che neppure il fascismo riusciva del tutto a contaminarla».
Perduta la splendida “rozzezza” di un tempo, non hanno più soggezione per il latinorum del signor curato… Felici gli analfabeti d’una volta che erano analfabeti veri, interi, tutti come si deve, tutti con il “mistero”, zitti, ordinati e contenti… Marx però era stato assai poco sensibile alla “irripetibile bellezza contadina”, la quale aveva anzi sbugiardato». Infine riportava un’esternazione di Pasolini: «Cosa ne sa Sanguineti, vissuto tra il salotto e la scuola, della vita popolare? Lo sapevamo gente come me, Penna, Comisso, esplosi fuori dal bozzolo borghese, esclusi, reietti, costretti a non vivere se non confusi dentro il popolo, nascosti dentro la sua oscura, anonima protezione. Sì, la vita popolare d’allora era più felice, perché così appartata che neppure il fascismo riusciva del tutto a contaminarla».
Fachinelli dal canto suo esordisce: «Non leggendo “Paese Sera”, non conosco il pezzo di Sanguineti, ma dalla citazione mi pare un modesto esercizio ortodosso marxista di un professore tranquillamente incattedrato e tranquillamente picì, di cui forse potranno piacere la malignità e la bravura letteraria, ma che rimane del tutto estraneo alle ragioni che motivano la passione e l’urgenza dei suoi interventi di questo periodo. Lei ha le antenne per accorgersi dei mutamenti in corso, Sanguineti no». E aggiunge: «È un po’ quello che è successo nel ’68: la rabbia che gli studenti provocavano in lei era chiarissima partecipazione, mentre le fredde e molto ortodosse osservazioni di Sanguineti erano già allora coerenti con il suo attuale presente» (il riferimento è rispettivamente all’arcinoto Il PCI agli studenti! e al coevo Rivolta e rivoluzione, dove Sanguineti su «Quindici» definiva gli studenti «anime belle»contrapponendo loro la linea Marx-Lenin-Mao).
Qui Fachinelli cambia registro, per riferirsi a un’intervista sul «Giorno» del 29 dicembre (non ripresa nei Meridiani Mondadori), dove Pasolini affermava: «Dall’età dell’innocenza siamo passati all’età della corruzione […]. È stata la civiltà dei consumi, un fatto senza precedenti nella storia dell’uomo. Tutto è cominciato verso la metà degli anni Sessanta, la contestazione del ’68 oggi appare come l’ultimo sprazzo di vitalità, un movimento collettivo millenaristico. Si è chiusa l’epoca di quel mondo antico e barbarico che amavo […] sarei contento, disposto a rinunciare a qualunque cosa per il reimbarbarimento del mondo: un mondo in cui valga la pena di lottare». Fachinelli nella lettera commenta: «mi chiedo se l’isolamento in cui si viene a trovare non si leghi a quella dicotomia che lei stabilisce tra “innocenza” e “corruzione”, con nostalgia della prima e rifiuto della seconda. Non le sembra che, parlando di innocenza, Lei metta in atto una idealizzazione, e che questa le sia possibile solo staccandosi, considerandosi staccato da quella “barbarie” e dalle sue vicissitudini? Ora, il movimento che ha portato il ragazzo di borgata al centro della città è lo stesso che ha portato lei all’uso del cinema, della tv, della provocazione culturale… Si potrebbe quindi vedere, nel suo rifiuto della “corruzione”, come un implicito giudizio negativo, in nome di quelle esigenze profonde riposte nella “innocenza”, di tutta una serie di attività, sue e di altri, connesse alla “civiltà dei consumi”. Scoprire in sé, per così dire, una zona di futilità distruttiva».
Una specie di affabile «Conosci e stesso», che ventilava però una messa in mora delle dicotomie pasoliniane – con tanto di bibliografia, se Fachinelli conclude annunciando l’invio del suo Bambino dalle uova d’oro: «troverà dentro questo libro, e di questo sono sicuro, in particolare nelle note, qualcosa della sua insoddisfazione e delle sue tragiche domande di questo periodo». Le note erano sei per una dozzina di pagine in tutto: chissà se Pasolini lesse almeno quelle.
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Il secondo atto del dialogo mancato (o atto mancato del dialogo) è a inizio estate, quando a proposito degli Italiani non sono più quelli, articolo apparso sul «Corriere» nel quale Pasolini dall’«omologazione culturale», denunciata sei mesi prima, deduceva non esserci più «differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista», Fachinelli interviene sull’«Espresso» del 23 giugno proponendo un soggetto cinematografico dal titolo «volutamente provocatorio» Le masse amavano il fascismo?:«Mettiamo un giovane intellettuale sulla trentina, un professore, di sinistra. Scorre gli articoli di Pasolini, che lo indignano, di solito. Intensa partecipazione a comitati antifascisti […]. La notte, cominciano incubi, sempre con i fascisti che occupano le sedi dei comitati e dei partiti, arrestano, fucilano. In questo periodo, nel gruppo dei compagni arriva un nuovo. Intellettuale come lui, storia abbastanza simile, partecipazione a gruppi. Ma con un leggero scarto, ora. Partecipa con indifferenza alla lotta antifascista, dice che non è questo il pericolo principale; parla di psicanalisi, di antipsicanalisi, di gioco, di magia. Il professore è dapprima infastidito, incuriosito; poi […] casca in uno strano torpore. La lotta fascismo-antifascismo non gli interessa più. Cominciano fantasie, in cui compare il nuovo arrivato, stanno insieme, fanno cose interessanti, discutono fra loro. Infine un’onda di sogni, in cui con terrore e piacere compaiono immagini erotiche, esplicite e no, lui e il nuovo arrivato, insieme. […] I personaggi di queste fantasie e di questi sogni sono, in alcuni particolari fondamentali, gli stessi degli incubi e delle angosce centrate sul fascismo. I persecutori di ieri ricordano da vicino l’amato di oggi».
Sul quotidiano «Il Tempo» di Roma del 26 giugno l’intervento di Fachinelli viene definito un «pasticcio psicanalitico» finalizzato a «velare una pesante accusa personale (quasi un ricatto), e a sottintendere che forse Pasolini è un filofascista inconscio, per motivi ambigui»; il pasticciere/pasticcione, venutone a conoscenza dieci giorni dopo, comunica a Pasolini di avere inviato una smentita al quotidiano per dire che «l’articolista, partito evidentemente dal presupposto ideologico che io fossi tra i suoi “censori”, ha posto un’equivalenza assurda tra il prof. spregiatore di Pasolini ecc. – e Pasolini stesso, e di qui ha ricavato le sue ricattatorie conclusioni».
La smentita in effetti esce nei termini prospettati, con l’avvertenza: «avevo cercato di rendere la complessità di sentimenti e di passioni che sottostanno alla distinzione fascista-antifascista. Così facendo, mi era parso di essere più vicino alla posizione “estremista” di Pasolini che a quella dei suoi oppositori». Di nuovo dunque Fachinelli insiste sulla complessità, sulle contaminazioni; e di nuovo Pasolini rifiuta di rispondere, se non per interposta persona, in un’intervista sul «Mondo» dell’11 luglio: «l’intervento di Fachinelli mi è oscuro. L’oracolo è stato un po’ troppo “a chiave”».
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Il terzo atto si dipana per tutta la seconda metà del 1974, a partire da una lettera di Fachinelli del 30 luglio: «Con alcuni collaboratori sto cercando di mettere insieme – per settembre – un libretto diciamo così di “pronto intervento” su Cefis e il potere (Cefis e/o il nuovo potere), in cui l’accento cade sul secondo termine. Abbiamo pubblicato già due anni fa nella rivista “L’erba voglio” un discorso di Cefis, con un commento politico. La cosa incuriosì molto, ma soltanto ora possiamo capirne l’importanza. Disponiamo ora di un altro discorso, che si connette probabilmente a manovre finanziarie in corso, a cui hanno accennato i giornali. Le scrivo per proporle di fare, su questi discorsi, un’analisi testuale o una recensione».
Il primo dei due discorsi acclusi era stato tenuto dal presidente della Montedison il 23 febbraio 1972 all'Accademia militare di Modena e pubblicato sull’«Erba voglio» di luglio-agosto 1972 «a cura di Giorgio Radice», presumibile nom de plume del redattore dell’«Espresso» Giuseppe Turani (citato a fine numero tra i collaboratori), che lo presenta come originariamente «fatto pubblicare da Cefis sul mensile “Successo” a mo’ di manifesto ideologico», rimarcandovi la «totale riduzione a un unico “valore”: la crescita, lo sviluppo, il moltiplicarsi delle multinazionali», e il «ruolo tecnocratico-dominante all’ombra delle grandi aziende» auspicato per le forza armate. Il secondo discorso, destinato l’11 marzo 1973 alla vicentina Scuola di cultura cattolica, rifà la storia della Montedison per fissarsi sugli obiettivi: concentrazione degli impianti, mobilità del lavoro, superamento del meridionalismo, sostegno mediatico dell’azienda.
Pasolini non risponde ma, parlando il 7 settembre alla Festa provinciale dell’«Unità» di Milano, chiede: «Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente progresso esviluppo. Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. […] Se volete capirlo meglio, leggete il discorso di Cefis agli allievi di Modena, e vi troverete una nozione di sviluppo come potere multinazionale – o transnazionale come dicono i sociologhi – fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio Paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa».
Quella sera tra gli stand s’incontrarono, e Pasolini deve aver promesso un contributo al«libretto», se Fachinelli il 20 settembre gli invia un pacco specificando: «le faccio avere una conferenza di Cefis e una fotocopia del libro su di lui, ritirato».
La conferenza, tenuta al Centro alti studi militari di Roma il 14 giugno 1974 e passata a Fachinelli ancora da Turani (che un mese dopo la nominerà di sfuggita, assieme agli altri due discorsi, nel fortunatissimo libro Razza padrona), affronta il tema della crisi petrolifera proponendo un nuovo modello di sviluppo imperniato sulla chimica come motore dei settori agricolo, farmaceutico e dei servizi. Pasolini, evitando per la terza volta di rispondere all’invio, la utilizza sul settimanale milanese «Tempo» del 18 ottobre, definendola «una specie di prudente e gesuitico mea culpa»: «Cefis delinea un precipitoso ritorno all’agricoltura, lasciata nell’ultimo decennio in un criminale abbandono, e […] un piano di ridimensionamento delle industrie anti-economiche e anti-sociali e soprattutto delle “attività terziarie”, cioè la produzione megalomane di beni superflui». Di più, ricorda la «passata arroganza» del discorso di Cefis «pubblicato su “Successo”, dove si delineava la “fine della nazione” e la nascita di un potere neocapitalistico “multinazionale”, con la susseguente trasformazione dell’esercito in un esercito tecnologico e poliziesco al servizio, appunto, di questo nuovo potere. […] Era la fine della destra classica italiana. Era ed è. Perché la crisi economica e l’eventuale recessione non impediranno che questa, delineata da Cefis nel ’72, non sia la reale ipotesi del potere capitalistico per il proprio futuro».
Il libro è Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, uscito a fine 1972 sotto pseudonimo, mentre le fotocopie potevano provenire da Turani come da Fachinelli stesso, in quanto più copie erano e sono presenti in biblioteche pubbliche milanesi. Come noto, esso era stato incettato da Cefis che lo riteneva deleterio alla sua immagine; in effetti si tratta di un libello di bassa manovalanza, poverissimo tra l’altro di scoop. Rimasto perciò inutilizzato da Turani, non si sa quale effetto abbia fatto su Pasolini, che tra le carte di Petrolio, suo ultimo romanzo progettato, infila comunque un appunto datato «16 ottobre 1974»: «inserire i discorsi di Cefis, i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito». La perfetta contemporaneità tra l’appunto e la stesura dell’articolo su«Tempo» chiarisce che i discorsi sono i due lì citati, mentre la chiusa dell’articolo motiva la centralità che nel suo romanzo Pasolini intendeva dare a Cefis come fautore di un nuovo fascismo – in una parola, come golpista.
Tutto ciò confluisce nel celeberrimo Che cos’è questo golpe?, uscito sul «Corriere» del 14 novembre: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che […] rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. […] Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. […] Un intellettuale potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. […] Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi».
Col che siamo tornati al punto di partenza, a quello iato tra «corruzione» e «innocenza» su cui Fachinelli nella sua prima lettera civilmente obiettava, socchiudendo una porta che tenne aperta fino a novembre, quando sul n. 17 dell’«Erba voglio» annunciava l’avvio di una collana di «libretti». Finché il primo dicembre 1974 scrive a Pasolini: «mi sono stancato di continuare a telefonarle e sentirmi rispondere che la nota su Cefis era rimandata. Ne ho dedotto che per qualche ragione la cosa non le andava», chiudendo definitivamente con: «Le sarei molto grato se potesse farmi avere il materiale fotocopiato che le ho spedito».
Il materiale, come le lettere, giace tuttora nel Fondo Pasolini all’Archivio Viesseux.
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Il dialogo mancato ebbe un epilogo tre mesi dopo la morte di Pasolini, quando sull’«Espresso»del 15 febbraio 1976 Fachinelli commentò l’appena uscito Salò o le 120 giornate di Sodomatrasformando l’accenno iniziale alla «futilità distruttiva» in una diagnosi: «si tratta ancora di sadismo? O non piuttosto di qualcosa che, nell’apparente omogeneità dei comportamenti, se ne differenzia radicalmente e procede verso qualcosa d’altro, molto più rozzo e immediatamente distruttivo? La chiave della risposta è contenuta nello stesso film di Pasolini: ciò che manca è la rapina del godimento; e questa manca perché la legge a cui si raffronta è semplicemente un’ombra caricaturale e smorta di quella che fu; come un registro di notai o ragionieri si differenzia dal tesoro degli editti. Allora ciò che ancora si chiama, per inerzia, sadismo, è semplicemente sregolazione burocratica, impiegatizia, della morte. Non si uccidono più anime, cerimonialmente, per sottrarle all’immortalità dell’inferno; si manovrano e si aprono confusamente corpi come pacchi postali».
Fonte: Alfabeta2
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