di Tania Careddu
Carburante di una macchina che genera ricchezza, fondata sullo sfruttamento indiscriminato di risorse ambientali, e di un sistema diffuso di illegalità su scala globale: sua maestà, il petrolio. Insieme a gas e risorse minerarie costituisce il settore a maggior rischio di malaffare nel mondo. Con un tasso del 25 per cento di corruzione percepita, la propensione al malaffare è dovuta, essenzialmente, all’enorme sproporzione tra la forza contrattuale ed economica agita dai singoli titolari o gestori degli impianti e la debolezza politica e finanziaria dei territori in cui sono ubicate le piattaforme estrattive.
Con l’intraprendenza economica di cui sono capaci, i primi riescono ad aggirare leggi e processi democratici per spostare enormi somme di denaro in capo a pochi soggetti in grado di organizzare il malaffare e per ‘estorcere’, a costi irrisori, risorse pubbliche alle comunità locali.
Così, singoli colossi finanziari si calano facilmente in contesti sociali permeabili alle pratiche corruttive, sia per ragioni attribuibili alla presenza di strutture criminali sia per la scarsa tenuta degli apparati politico-istituzionali.
Complici una normativa di tutela ambientale incoerente e astratta ed un sistema di controlli del tutto inadeguato al settore, gli interessi privati (di alti dirigenti d’azienda, manager, funzionari pubblici, faccendieri e, perché no, amici di famiglia) sviliscono il ruolo della pubblica amministrazione. Aggiungi le ragioni di mercato, tipo la volatilità dei prezzi e l’aumento della domanda, oltreché i sistemi produttivi caratterizzati da scarsa trasparenza e da logiche individuali, e l’affare è presto fatto.
Un affair che, in Italia, solo negli ultimi due anni e mezzo, ha condotto sotto indagine novantadue persone. Capi d’imputazione? Corruzione, truffa, associazione a delinquere. Grazie all’inadeguatezza della normativa (almeno fino all’entrata in vigore della recente legge 68/2015 sugli ecoreati, che ha introdotto nel codice penale sei delitti ambientali più una serie di aggravanti), la sproporzione delle forze all’interno delle aule dei tribunali, le prescrizioni a fagiolo e gli emendamenti chirurgici, la filiera dell’illegalità del petrolio si estende. E anche all’ambito fiscale, con l’ evasione delle accise sui carburanti per decine e decine di milioni di euro, stando a quanto si legge nel rapporto “Sporco petrolio”, redatto da Legambiente.
Secondo un copione che comparve, per la prima volta (in questo settore), fra il 1973 e il 1980, documentato da La Repubblica del 1995, “il petroliere che forniva i moduli falsi, si metteva in tasca cinquanta o sessanta lire per ogni chilo di prodotto venduto illegalmente.
Per timbrarlo, la Guardia di Finanza pretendeva venti lire al chilo e altrettante l’ufficio tecnico delle imposte di fabbricazione, che si impegnavano a proteggere il trasporto della benzina in cambio di una tangente di ottanta lire al chilo da spartire a metà. All’erario furono sottratti duemila miliardi”. E la storia di inquinare l’economia, oltreché l’ambiente, continua.
Fonte: Altrenotizie
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