di Evgeny Morozov
Basta sfogliare un quotidiano per rendersi conto che il capitalismo democratico transatlantico, che è stato il motore dello sviluppo economico dopo la seconda guerra mondiale, sta vivendo un periodo difficile. Fame, povertà, disoccupazione giovanile, sostanze chimiche nell’acqua potabile, mancanza di alloggi a prezzi sostenibili: tutte questi problemi sono tornati d’attualità anche nei paesi più ricchi. La cosa non dovrebbe sorprendere: questo declino della qualità della vita, temporaneamente nascosto sotto il velo retorico dell’innovazione, ha radici profonde, e quarant’anni di politiche neoliberiste stanno finalmente presentando il conto.
Ma sommato alle conseguenze delle guerre mediorientali (prima i rifugiati e ora i sempre più frequenti attentati terroristici nel cuore dell’Europa), il disagio politico ed economico dell’occidente appare ancora più terribile.
Non sorprende più di tanto che per i movimenti populisti antisistema, sia di destra sia di sinistra, sia così facile mettere in difficoltà le élite. Da Parigi a Flint, in Michigan, i governanti hanno dato tali prove di inettitudine e incompetenza che hanno finito per far sembrare Donald Trump un superuomo in grado di salvare il pianeta.
Non sorprende più di tanto che per i movimenti populisti antisistema, sia di destra sia di sinistra, sia così facile mettere in difficoltà le élite. Da Parigi a Flint, in Michigan, i governanti hanno dato tali prove di inettitudine e incompetenza che hanno finito per far sembrare Donald Trump un superuomo in grado di salvare il pianeta.
Sembra che il capitalismo democratico – quella strana creatura istituzionale che ha cercato di coniugare il modello economico capitalista (il governo implicito di pochi) con il sistema politico democratico (il governo esplicito di molti) – stia vivendo un’altra crisi di legittimità.
Questa espressione, resa popolare dal filosofo tedesco Jürgen Habermas all’inizio degli anni settanta, sintetizza efficacemente la dissonanza tra gli obiettivi dichiarati delle nostre istituzioni politiche – il bisogno di promuovere uguaglianza, giustizia ed equità – e la dura realtà politica di oggi, dove le stesse istituzioni si trovano a ostacolare il raggiungimento di quegli obiettivi.
L’idea di crisi di legittimità inizialmente proposta da Habermas si concentrava sull’aspetto culturale, dal momento che, come il sociologo riteneva all’epoca malgrado le obiezioni degli intellettuali più radicali, il buon funzionamento dello stato sociale stava riducendo le disuguaglianze economiche, migliorando la posizione dei lavoratori e offrendo loro una fetta sempre più grande di una torta economica che continuava a espandersi.
Ma tutto questo non è più vero. Dieci anni più tardi era già chiaro che i governi avrebbero dovuto fare ricorso a stratagemmi sempre più complessi per coniugare gli interessi dei capitalisti e dei lavoratori, un fenomeno ben documentato dal principale rivale di Habermas, il sociologo tedesco Wolfgang Streeck.
Prima c’è stata l’inflazione, poi la disoccupazione, quindi il debito pubblico e infine la deregolamentazione finanziaria, che ha favorito l’accumulazione del debito privato in modo che i cittadini potessero prendere in prestito denaro per comprare le cose che non si potevano più permettere (soprattutto immobili) e il governo, ormai asservito ai dogmi neoliberisti sulle virtù dell’austerità, potesse smettere di elargire sussidi.
Ma tutte queste misure potevano solo rimandare la crisi di legittimità. Oggi le élite di tutto il mondo hanno due possibilità per affrontarla. Una è accettare il populismo antisistema di Bernie Sanders o Donald Trump. Anche se sono in disaccordo su molti temi politici e sociali, entrambi si oppongono alla retorica neoliberista sulla globalizzazione e mettono in discussione la fede nelle virtù del libero mercato esemplificata da trattati come il Nafta e il Ttip e la necessità di una politica estera interventista da parte degli Stati Uniti (entrambi preferirebbero una svolta isolazionista).
Queste forze non attaccano le élite in genere, ma la stretta e sempre più redditizia alleanza tra le élite della politica, delle grandi aziende e dei mezzi d’informazione, quello che lo storico britannico Tariq Ali definisce “l’estremo centro”.
L’altra possibilità, molto più gradita al popolo di Davos attaccato dai nuovi movimenti populisti, è sperare in un miracolo per convincere i cittadini che l’attuale crisi in realtà non sia strutturale, e che arriverà qualcos’altro – i big data, l’automazione, la quarta rivoluzione industriale o la sharing economy – a salvarci o almeno a ritardare il crollo definitivo, un processo che Streeck ha brillantemente definito “guadagnare tempo”.
Ma oggi le cose sono cambiate, e il tempo non si compra più dagli stessi fornitori. Storicamente l’espansione del settore finanziario ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel guadagnare tempo e tenere a bada il malcontento popolare. In futuro questo ruolo sarà svolto dal settore tecnologico e, in misura minore, dai mercati pubblicitari globali. È la stessa formula magica grazie alla quale oggi tanti servizi digitali vengono offerti gratuitamente in cambio dei nostri dati. Un giorno Uber potrebbe rendere i trasporti convenienti come fare la spesa da Walmart: del resto non fa mistero di ambire a sostituire i trasporti pubblici.
I contorni di questo nuovo accordo tra governi e aziende stanno già cominciando a emergere. Può darsi che i redditi reali stiano stagnando e che la popolazione si rifiuti di indebitarsi ulteriormente, ma niente paura: sempre più servizi, dalle comunicazioni alla prevenzione sanitaria, sono già gratuiti.
E poi ci sono altri modi per arrivare alla fine del mese, come vendere il nostro tempo libero e altri beni.Il governo britannico sembra addirittura felice di offrire sgravi fiscali a questo tipo di microimprenditori, che sono dispensati dal dichiarare le entrate della sharing economy fino a mille sterline.
Ma visto che i dati generati sulle piattaforme digitali hanno un immenso valore di mercato, possono essere venduti a caro prezzo per coprire qualsiasi buco di bilancio, anche da parte degli stessi governi. Moltissime aziende sarebbero felici di comprarli: università, società assicurative, banche.
Infine le aziende tecnologiche, grazie ai dati che raccolgono, possono sempre far credere di svolgere un ruolo fondamentale nella lotta al terrorismo. Se l’amministratore delegato della Apple, Tim Cook, si è opposto all’Fbi, Peter Thiel ha creato Palantir, un gigante da venti miliardi di dollari che analizza dati per l’establishment militare. In una recente intervista Thiel si è perfino vantato del fatto che la tecnologia di Palantir avrebbe contribuito a sventare alcuni attacchi terroristici.
All’indomani degli attentati di Bruxelles, è difficile immaginare che l’alleanza tra i servizi segreti e le aziende tecnologiche non diventerà ancora più stretta. Ma dobbiamo avere ben chiaro che sarà sempre più la Silicon valley a dettare le regole di questa collaborazione.
La triste realtà della politica contemporanea non è che sia impossibile immaginare in che modo possa finire il capitalismo, come ha detto una volta Fredric Jameson, ma che stia diventando altrettanto impossibile immaginare come il capitalismo possa andare avanti. Almeno nella sua forma ideale, che è legata, per quanto debolmente, alle regole della democrazia elettorale. L’unica soluzione plausibile all’orizzonte è che i politici trasferiscano alla Silicon valley ancora più responsabilità, dalle questioni sociali a quelle militari.
Questo potrebbe portare immensi guadagni in termini di efficienza, ma non c’è il rischio di aggravare il deficit democratico che già affligge le istituzioni pubbliche? Certo che sì, ma la crisi del capitalismo democratico sembra così acuta da far passare in secondo piano ogni pretesa di democrazia. Da ciò il moltiplicarsi degli eufemismi per descrivere questa nuova normalità (il più popolare dei quali è probabilmente l’espressione “democrazia conforme al mercato” coniata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel).
D’altra parte, i concetti degli anni settanta che miravano a rafforzare i pilastri democratici del compromesso tra capitale e lavoro, dalla democrazia economica e industriale alla cogestione, appaiono obsoleti in un’epoca in cui i lavoratori precari non possono neanche organizzarsi in sindacati né tantomeno partecipare a forme più ampie di gestione d’impresa.
Ma c’è qualcosa di ancor più inquietante in atto. “Guadagnare tempo” non basta più a descrivere quello che sta succedendo, se non altro perché le aziende tecnologiche, ancor più delle banche, non solo sono troppo grandi per fallire ma non possono neanche essere smantellate (e tantomeno sono un modello riproducibile), neanche se fosse eletto un governo di orientamento radicalmente diverso.
Molte hanno di fatto già assunto responsabilità che prima appartenevano allo stato. Una qualsiasi attenta analisi di quel che sta accadendo nelle smart cities, dove per accedere a servizi essenziali è necessario passare per le aziende tecnologiche, lo conferma. La situazione è molto peggiore nei paesi poveri, dove queste aziende controllano già alcune delle infrastrutture più importanti: recentemente Google ha promesso di garantire la connessione wifi gratuita su tutto il territorio dello Sri Lanka.
La realtà è che le aziende tecnologiche stanno rapidamente diventando lo scenario su cui si svolge la vita politica . Quando Google e Facebook avranno assunto la gestione dei servizi essenziali, la celebre frase dell’ex premier britannica Margaret Thatcher “There is no alternative”, non c’è alternativa, non sarà più solo uno slogan, ma una descrizione precisa della realtà.
La cosa peggiore è che l’attuale crisi di legittimità potrebbe essere l’ultima. Qualsiasi discussione sulla legittimità presuppone non solo la capacità di percepire l’ingiustizia, ma anche d’immaginare e mettere in piedi un’alternativa politica. L’immaginazione non si esaurirà mai, ma la capacità di intervenire su larga scala è sempre più una prerogativa dei giganti della tecnologia.
Quando questa transizione di potere sarà completata, non ci sarà più bisogno di guadagnare tempo. Semplicemente non ci sarà più un’alternativa democratica.
Fonte: Internazionale
io torno gentilmente a pregarvi di inserire,di premettere una sinossi,poche righe di sintesi che tutti possano capire,perchè questo è il ns compito nello scrivere o nel riferire scritti altrui,sempre estrapolati da un pensiero che non conosciamo perché non addetti ai lavori-questi scritti sono interessanti,certo,se non altro perché pongono più domande che risposte. ma è bene servire il lettore diligente ma non preparato a certe prospettive,con una sintesi breve,essenziale,chiara-grazie gmarinari
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