di Sergio Farris
Recenti dichiarazioni del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi e delgovernatore della Banca d’Italia Ignazio Visco hanno puntato l’attenzione sul fatto che, senza la politica monetaria non convenzionale adottata nell’ultimo anno e mezzo, l’eurozona sarebbe precipitata in una profonda deflazione (molto peggiore dello -0,1 registrato a febbraio e confermato dalle stime preliminari del mese di marzo). Draghi e Visco hanno altresì sostenuto che tale tenore della politica monetaria ha aiutato a far ripartire, seppure moderatamente, l’eurozona. Secondo il governatore Visco, anche l’Italia ha usufruito del beneficio derivante dalla politica espansiva non convenzionale ed ha così anticipato l’uscita dalla recessione che, diversamente, sarebbe giunta solo nel 2017. Il presidente Draghi ha anche parlato della permanenza, nell’eurozona, di rischi legati a possibili perturbazioni esterne nonché di forze, agenti su scala mondiale, che tendono a tenere troppo basso il livello generale dei prezzi.
Entrambi hanno poi dichiarato che, per perseguire l’obiettivo della crescita, sono essenziali le riforme strutturali accompagnate da politiche fiscali rispettose delle regole europee e che, dal canto suo, l’autorità monetaria si sta adoperando affinché le risorse messe a disposizione del settore finanziario pervengano all’economia reale.
Entrambi hanno poi dichiarato che, per perseguire l’obiettivo della crescita, sono essenziali le riforme strutturali accompagnate da politiche fiscali rispettose delle regole europee e che, dal canto suo, l’autorità monetaria si sta adoperando affinché le risorse messe a disposizione del settore finanziario pervengano all’economia reale.
Dato che la deflazione (per via dei suoi noti effetti perniciosi) è il fenomeno che la Banca centrale europea dichiara di dover contrastare, vale la pena provare a concentrarsi sulle forze mondiali che premono affinché essa si materializzi. Una di esse è, pressoché unanimemente, indicata nel rallentamento dell’economia cinese e di altri paesi emergenti, come Brasile e Russia. Vi è poi il calo del prezzo del petrolio e di altre materie prime. Ebbene, queste forze sono in realtà la conseguenza di un altro fenomeno, la carenza di domanda globale, a sua volta derivazione del modo con il quale è stata affrontata la recessione cominciata nel 2008. Se da una parte, infatti, vi è stata una immediata reazione di politica monetaria da parte delle banche centrali, dall’altra vi è stata in genere una certa insistenza (soprattutto in Europa) nell’applicazione delle politiche di austerità (o, dopo un abbrivio iniziale, un’austerità temperata in paesi come gli USA, che pure non hanno formali vincoli di bilancio pubblico).
Il rallentamento della crescita cinese è in realtà il risultato della necessità, indotta dalla crisi globale iniziata nel 2008, di un riposizionamento della composizione produttiva dell’economia di quel paese in un contesto profondamente mutato. Oggi la Cina soffre, da un lato, di una conversione da un modello di economia basato sulle esportazioni di beni a basso costo verso un modello basato su servizi e consumi interni e, dall’altro, di una necessaria riduzione della leva finanziaria (conseguenza della “religione” del libero movimento dei capitali). Questo comporta una certa volatilità nei mercati azionari e nei tassi di cambio, che genera allarmi di possibili shock (ai quali Draghi fa riferimento). Tuttavia, la lezione che si dovrebbe apprendere è che i mercati necessitano di regolamentazioni le quali dovrebbero disciplinarne il funzionamento. Prendiamo per esempio paesi come la Russia e altri paesi esportatori di materie prime: questi sono ora penalizzati dal calo dei relativi prezzi e dal rafforzamento del dollaro, ma prima della crisi globale i mercati non sono stati in grado di guidare gli investimenti verso una diversificazione delle rispettive economie. Come si sa, la libertà di movimento dei capitali reca con sé scelte che privilegiano movimenti a breve termine piuttosto che investimenti di lungo periodo. Gli stessi mercati che avevano palesemente fallito prima della Grande Recessione oggi continuano a essere fonte di instabilità e condizionare le politiche pubbliche. L’incertezza discendente dalla volatilità dei corsi azionari e del valore delle attività finanziarie in genere può indurre un calo dei consumi e degli investimenti, fino a persuadere i governi ad applicare misure di austerità.
La risposta comune fornita dalle autorità alla crisi finanziaria iniziata nel 2008 è stata una generalizzata e ipertrofica espansione monetaria. Questa ha fatto rapidamente tornare gli indici azionari a elevati picchi delle relative quotazioni, il che è certamente stato di gradimento per i top manager del settore finanziario, ma ha avuto scarso effetto sull’economia reale. La suddetta espansione concertata della base monetaria non si è rivelata altro che l’intento di riprodurre le condizioni affinché la leva finanziaria tornasse ad alimentare il debito e, per tale via, il consumo. Cioè, precisamente il “modello di crescita” che era imploso nel 2008. Eppure, con la parziale eccezione degli USA, pare proprio che tale tentativo non stia funzionando.
La suaccennata risposta data alla Grande Recessione è quindi stata inappropriata e il mondo
fronteggia oggi una combinazione di insufficiente domanda aggregata dovuta ad una crescente ineguaglianza (come i soldi si spostano verso l’alto, cala la domanda) e ad una eccessiva attenzione alla disciplina del bilancio pubblico (quando non si tratta, come nella zona euro, di vera e propria austerità).
L’impalpabile legame fra sfera finanziaria e sfera reale spiega il sostanziale fallimento delle politiche monetarie non convenzionali della Banca centrale europea nel loro tentativo di realizzare l’intento di riportare i prezzi al valore-obiettivo prefissato.
Vi è poi il problema generato da paesi quali la Germania, che mantenendo consistenti avanzi commerciali, contribuiscono a far sì che la domanda aggregata globale resti insufficiente nonché ed “esportare” deflazione. Ciò tanto più avviene quanto più vengono imposte politiche di austerità ai paesi periferici dell’eurozona, cercando di trascinare l’intera area valutaria dell’euro in una competizione globale di tipo mercantilistico. L’eurozona stessa, che ha fatto dell’austerità la propria inderogabile missione, è quindi protagonista della tendenza alla deflazione mondiale.
La tendenza al calo generale dei prezzi si spiega anche con la caduta delle prospettive di crescita nei paesi sviluppati come in quelli emergenti, da cui una situazione di incertezza la quale incide non poco sulla spesa in capitale produttivo. La prolungata durata della stagnazione ha effetti deleteri sulla capacità di accumulazione del capitale e sulla abilità lavorativa della popolazione. Inoltre, il deleveraging, ovvero il precipitoso affanno alla riduzione dei debiti a seguito della crisi finanziaria, ha agito e agisce nel stesso senso.
Si può ormai parlare di fallimento teorico e pratico alla base delle politiche monetarie ultraespansive adottate dapprima in risposta e poi al perdurare della crisi. Teorico perché la concentrazione della politica economica sulla sola politica monetaria non sta, in genere, sortendo gli effetti sperati sui livelli del prodotto; pratico perché non si riesce a raggiungere il livello di inflazione desiderato. Alcuni temevano che da tali politiche sarebbe derivato un’inflazione galoppante con seguente aumento dei tassi d’interesse a lungo termine. In realtà, niente di ciò è avvenuto. Si è spezzato il legame fra i prezzi e l’offerta di moneta caro ai sostenitori della “teoria quantitativa della moneta”. La velocità di circolazione della moneta è calata. Le banche detengono un’eccessiva quantità di riserve monetarie che non trovano la via del credito e di utili investimenti.
La disoccupazione rimane quasi ovunque troppo elevata, specie in paesi che hanno fatto dell’austerità il loro leitmotiv, di conseguenza i lavoratori hanno scarso potere contrattuale. Vi sarebbero ampi margini per incrementi salariali, eppure le autorità politiche e le organizzazioni economiche internazionali paiono non accorgersene, continuando a raccomandare maggiore flessibilità nei mercati del lavoro (una delle cosiddette riforme strutturali). Vi è, insomma, un generale eccesso di capacità produttiva, accentuato dalla comune convinzione che la soluzione dei problemi debba venire da “politiche dell’offerta” (come le prima accennate riforme strutturali), che preme al ribasso sui prezzi. Tale situazione è destinata a protrarsi fintanto che non sarà affrontata la questione della divergenza fra l’economia finanziaria, foraggiata illimitatamente dalle banche centrali, e l’economia reale. Ma niente di questo compare nelle dichiarazioni ufficiali di Mario Draghi e di Ignazio Visco, né in quelle degli altri protagonisti della politica economica europea. Le forze che tendono a portare l’unione monetaria europea verso la deflazione non sono entità impersonali o eventi naturali, ma riconoscibili scelte politiche.
Fonte: Eunews Oneuro
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