La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 luglio 2015

Quando Krugman iniziò a parlare di mezzogiornificazione d'Europa

di Robero Ciccarelli
È stato il pre­mio Nobel dell’economia Paul Krug­man a par­lare per la prima volta di «mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione» dell’Europa nel 1991 nel libro «Geo­gra­fia e com­mer­cio inter­na­zio­nale». Il dua­li­smo eco­no­mico che ha segnato i rap­porti tra Nord e Sud Ita­lia si è allar­gato a quello tra i paesi del Nord e del Sud dell’Europa e all’interno di tutti i paesi, a comin­ciare della Ger­ma­nia, uni­fi­cata, ma divisa ancora tra un Ovest e un Est. Gli eco­no­mi­sti ita­liani Emi­liano Bran­cac­cio e Ric­cardo Real­fonzo hanno ripreso que­sta cate­go­ria in uno stu­dio del 2008, inti­to­lato «L’Europa è a rischio “mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione». Il dibat­tito con­ti­nua inten­sis­simo a pro­po­sito delle varie ipo­tesi sull’uscita dall’euro, delle sue con­se­guenze sui salari e in gene­rale sull’implosione dell’Eurozona.
Echi si ritro­vano nel rap­porto 2015 dello Svi­mez sul Mez­zo­giorno (ita­liano) dove al rap­porto asim­me­trico tra il cen­tro (in sostanza la Ger­ma­nia) e le peri­fe­rie (i paesi dell’Europa del Sud) se ne aggiunge un altro: quello tra Sud e Est euro­peo inte­grato nell’Eurozona. «Dal 2001 al 2013 la cre­scita del Pil con­si­de­rato in potere di acqui­sto (Ppa) è stato un quinto infe­riore di quella delle regioni deboli dei nuovi paesi dell’Est. Nei primi cin­que anni della crisi, 2008–2013, il Pil è aumen­tato del 4,5% nelle aree più forti («regioni della com­pe­ti­ti­vità») ed è dimi­nuito dell’1,1% in quelle più deboli (quelle della «con­ver­genza») che all’inizio ave­vano un red­dito pro-capite infe­riore al 75%. Prima della crisi, dal 2001 al 2007, le regioni più deboli ave­vano regi­strato una con­ver­genza cre­scendo del 39,6%, più delle aree forti (+31,3%). È acca­duto in Spa­gna, men­tre in Ger­ma­nia si è regi­strata una mag­giore omogeneità.
L’Italia fa sto­ria a parte. Sud e Centro-Nord cre­sce­vano prima della crisi con il 19% e il 21,8%, poi il crollo: +0,6% il Centro-Nord, –5,1%. Le asim­me­trie si sono aggra­vate con l’allargamento a Est. Il Sud ha sof­ferto la con­cor­renza del dum­ping fiscale. Tra il 2000 e il 2013 l’Italia è stato il paese che è cre­sciuto di meno in ter­mini di Pil in Ppa: +20,6% con­tro il 37,3% dell’Eurozona a 18. Il Sud è cre­sciuto oltre 40 punti in meno della media delle regioni di con­ver­genza dell’Europa a 28 (+53,6%). A una con­clu­sione simile è arri­vata la Bce nel bol­let­tino eco­no­mico di mag­gio 2015: l’Italia «ha regi­strato i risul­tati peg­giori» sulla cre­scita del Pil pro­ca­pite tra quelli che hanno adot­tato l’euro fin dall’inizio». La richie­sta Bce è aumen­tare la fles­si­bi­lità nei mer­cati dei beni e ser­vizi e del lavoro. Per gli eco­no­mi­sti ita­liani (e Krug­man) è l’opposto. Per loro è fal­lito il modello eco­no­mico per cui la pro­dut­ti­vità e la cre­scita dipen­dono dal con­te­ni­mento del costo del lavoro. Que­sti paesi hanno invece biso­gno di poli­ti­che industriali.

Fonte: il manifesto

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