La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 luglio 2015

I tagli alla sanità di Renzi li pagheranno i pensionati

di Nicola Borri
È davvero possibile risparmiare 10 miliardi di euro dalla sanità italiana? Dopo l’annuncio da parte di Matteo Renzi di una prossima “rivoluzione copernicana” volta a ridurre la pressione fiscale nel nostro paese, in molti si sono chiesti se fosse davvero realizzabile. La risposta di famiglie e imprese a una riduzione di tasse senza le necessarie coperture, infatti sarebbe di risparmiare oggi per far fronte alle maggiori tasse future.
Renzi ha precisato di pensare a una riduzione pari a 50 miliardi in cinque anni, ovvero circa 3 punti percentuali di Pil. Visto che interventi già approvati, come gli 80 euro o la riduzione dell’Irap, dovrebbero entrare nel computo complessivo, realisticamente serviranno nuove coperture per circa 35 miliardi. Tuttavia, il governo ha già l’arduo compito di trovare 10-15 miliardi per scongiurare nuovi aumenti Iva, legati alle cosiddette clausole di salvaguardia. Ecco spiegata la nuova attenzione nei confronti della revisione della spesa, la cosiddetta spending review, a cui ora lavorano Yoram Gutgeld e Roberto Perotti.

In un mio precedente articolo, ho analizzato l’andamento della spesa pubblica in Italia e delle sue componenti principali. La spesa sociale, che include quella per pensioni e altre forme di assistenza, è la componente che ha continuato a crescere negli ultimi anni e, dai circa 370 miliardi del 2014, si prevede raggiunga i 420 miliardi (o il 23% del PIL) nel 2020 (rapporto FMI).  Per questa ragione, sarà difficile diminuire la pressione fiscale senza intervenire su questa voce. D’altronde, lo stesso ex-commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, aveva evidenziato la necessità di un intervento sulla spesa sociale, notando, ad esempio, che le sole pensioni di invalidità sono aumentate, dal 1998 a oggi, del 50 percento.
Dopo alcune dichiarazioni pubbliche di Yoram Gutgeld, l’attenzione si è però spostata sui tagli alla sanità, per circa 10 miliardi in 3 anni, di cui 2,3 già nel 2015. Anche se il governo, e in particolare il ministro Lorenzin, ha sottolineato che non si tratta di riduzioni nei servizi sanitari, ma di rendere la spesa più efficiente, è evidente che questi tagli comportano quantomeno una riduzione della spesa pubblica complessiva in sanità. È quindi interessante verificare se, in Italia, la spesa per la sanità è superiore rispetto a quella di altri paesi simili al nostro.
L’Ocse ha da pochi giorni pubblicato un rapporto, accompagnato da dati molto utili, che consente di fare esattamente questo raffronto. In primo luogo, l’Italia non spende per la sanità, nel complesso, più di altri paesi, piuttosto il contrario. Ad esempio, mentre in Italia il totale di spese, pubbliche e private, per sanità ammontava a 8,8 percento del Pil nel 2013, valeva 11 percento in Germania e Francia, 10 percento in Giappone e 16,4 negli Stati Uniti. Anche se guardiamo all’andamento della spesa negli ultimi anni, appare subito evidente come mentre in Italia (e negli altri paesi della periferia europea come Grecia e Portogallo) sia diminuita, il contrario è avvenuto in altri paesi. In secondo luogo, lo stesso rapporto indica che potremmo spendere meglio le nostre risorse. Ad esempio, il numero medio di giorni di degenza in ospedale per un’infezione è 10 in Italia, 7,8 in Germania, 6,7 in Francia e 7,2 negli Stati Uniti. Rispetto a altri paesi, abbiamo un numero più elevato di dottori: per ogni mille abitanti, 3,9 in Italia, 3,1 in Francia, 2,2 in Giappone e 2,5 negli Stati Uniti (anche se in Germania sono invece 4). Ma abbiamo, anche, un numero, in media, inferiore di ospedali: per ogni milione di persone, 20 in Italia, 40 in Germania e Francia, 67 in Giappone e 18 negli Stati Uniti.
Questi numeri indicano che è sicuramente possibile rendere la spesa per sanità, in Italia, più efficiente (basti pensare alle siringhe pagate a prezzo enormemente differente nelle diverse regioni italiane). Tuttavia, non è realistico pensare di ridurre la spesa complessiva che, anzi, è destinata a aumentare con l’invecchiamento della popolazione. Dal momento che, per ragioni anagrafiche, sono i pensionati a utilizzare maggiormente i servizi sanitari, i tagli alla sanità andranno probabilmente a ridurre il loro reddito disponibile. Il dubbio è, quindi, se le ultime scelte del governo non vogliano “raccogliere” risorse dai pensionati senza ufficialmente toccare la spesa sociale, e quindi anche le pensioni. Introdurre franchigie sulle singole spese mediche può essere utile per limitare l’eccesso di esami clinici “inutili”. Tuttavia, è importante che tutti i cittadini, anche i meno abbienti, abbiano accesso a una assistenza sanitaria di primo livello. E, quindi, franchigie e limiti di spesa devono essere funzione di indicatori di reddito e ricchezza.

Fonte: Linkiesta.it

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