di Nicola Borri
È davvero possibile risparmiare 10 miliardi di euro dalla sanità italiana? Dopo l’annuncio da parte di Matteo Renzi
di una prossima “rivoluzione copernicana” volta a ridurre la pressione
fiscale nel nostro paese, in molti si sono chiesti se fosse davvero
realizzabile. La risposta di famiglie e imprese a una riduzione di tasse
senza le necessarie coperture, infatti sarebbe di risparmiare oggi per
far fronte alle maggiori tasse future.
Renzi ha precisato di pensare a una riduzione pari a
50 miliardi in cinque anni, ovvero circa 3 punti percentuali di Pil.
Visto che interventi già approvati, come gli 80 euro o la riduzione
dell’Irap, dovrebbero entrare nel computo complessivo, realisticamente
serviranno nuove coperture per circa 35 miliardi. Tuttavia, il governo
ha già l’arduo compito di trovare 10-15 miliardi per scongiurare nuovi
aumenti Iva, legati alle cosiddette clausole di
salvaguardia. Ecco spiegata la nuova attenzione nei confronti della
revisione della spesa, la cosiddetta spending review, a cui ora lavorano
Yoram Gutgeld e Roberto Perotti.
In un mio precedente articolo, ho analizzato l’andamento della spesa
pubblica in Italia e delle sue componenti principali. La spesa sociale,
che include quella per pensioni e altre forme di assistenza, è la
componente che ha continuato a crescere negli ultimi anni e, dai circa
370 miliardi del 2014, si prevede raggiunga i 420 miliardi (o il 23% del
PIL) nel 2020 (rapporto FMI). Per questa ragione, sarà difficile
diminuire la pressione fiscale senza intervenire su questa voce.
D’altronde, lo stesso ex-commissario alla spending review, Carlo Cottarelli,
aveva evidenziato la necessità di un intervento sulla spesa sociale,
notando, ad esempio, che le sole pensioni di invalidità sono aumentate,
dal 1998 a oggi, del 50 percento.
Dopo alcune dichiarazioni pubbliche di Yoram Gutgeld,
l’attenzione si è però spostata sui tagli alla sanità, per circa 10
miliardi in 3 anni, di cui 2,3 già nel 2015. Anche se il governo, e in
particolare il ministro Lorenzin, ha sottolineato che non si tratta di
riduzioni nei servizi sanitari, ma di rendere la spesa più efficiente, è
evidente che questi tagli comportano quantomeno una riduzione della
spesa pubblica complessiva in sanità. È quindi interessante verificare
se, in Italia, la spesa per la sanità è superiore rispetto a quella di
altri paesi simili al nostro.
L’Ocse ha da pochi giorni pubblicato un rapporto, accompagnato da dati
molto utili, che consente di fare esattamente questo raffronto. In primo
luogo, l’Italia non spende per la sanità, nel complesso, più di altri
paesi, piuttosto il contrario. Ad esempio, mentre in Italia il totale di
spese, pubbliche e private, per sanità ammontava a 8,8 percento del Pil
nel 2013, valeva 11 percento in Germania e Francia, 10 percento in
Giappone e 16,4 negli Stati Uniti. Anche se guardiamo
all’andamento della spesa negli ultimi anni, appare subito evidente come
mentre in Italia (e negli altri paesi della periferia europea come Grecia e Portogallo)
sia diminuita, il contrario è avvenuto in altri paesi. In secondo
luogo, lo stesso rapporto indica che potremmo spendere meglio le nostre
risorse. Ad esempio, il numero medio di giorni di degenza in ospedale
per un’infezione è 10 in Italia, 7,8 in Germania, 6,7 in Francia e 7,2
negli Stati Uniti. Rispetto a altri paesi, abbiamo un numero più elevato
di dottori: per ogni mille abitanti, 3,9 in Italia, 3,1 in Francia, 2,2
in Giappone e 2,5 negli Stati Uniti (anche se in Germania sono invece
4). Ma abbiamo, anche, un numero, in media, inferiore di ospedali: per
ogni milione di persone, 20 in Italia, 40 in Germania e Francia, 67 in
Giappone e 18 negli Stati Uniti.
Questi numeri indicano che è sicuramente possibile rendere la spesa per
sanità, in Italia, più efficiente (basti pensare alle siringhe pagate a
prezzo enormemente differente nelle diverse regioni italiane). Tuttavia,
non è realistico pensare di ridurre la spesa complessiva che, anzi, è
destinata a aumentare con l’invecchiamento della popolazione. Dal
momento che, per ragioni anagrafiche, sono i pensionati a utilizzare
maggiormente i servizi sanitari, i tagli alla sanità andranno
probabilmente a ridurre il loro reddito disponibile. Il
dubbio è, quindi, se le ultime scelte del governo non vogliano
“raccogliere” risorse dai pensionati senza ufficialmente toccare la
spesa sociale, e quindi anche le pensioni. Introdurre franchigie sulle
singole spese mediche può essere utile per limitare l’eccesso di esami
clinici “inutili”. Tuttavia, è importante che tutti i cittadini, anche i
meno abbienti, abbiano accesso a una assistenza sanitaria di primo
livello. E, quindi, franchigie e limiti di spesa devono essere funzione
di indicatori di reddito e ricchezza.
Fonte: Linkiesta.it
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