La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 30 luglio 2015

L'oblio democratico


di Alfonso Gianni
C’è una domanda cru­ciale che si aggira negli ambiti di quella che pos­siamo chia­mare – senza per ora migliore spe­ci­fi­ca­zione — la sini­stra di alter­na­tiva in Europa e nel nostro paese. Laura Pen­nac­chi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il sog­getto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di svi­luppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con que­ste parole: «per­ché il neo­li­be­ri­smo – di cui gli eventi del 2007/2008 ave­vano san­cito il fal­li­mento sul piano teo­rico – si è mostrato così resi­liente nel tempo, con­ti­nuando imper­ter­rito a infor­mare di sé le poli­ti­che e le scelte pratiche?».
Rispon­dere non è facile, eppure biso­gna rico­no­scere che qui sta, non la, ma cer­ta­mente una delle chiavi – anche per­ché le porte da aprire non sono poche – che per­met­tono di com­pren­dere le ragioni pro­fonde della crisi della società con­tem­po­ra­nea e della sini­stra in particolare.

Non c’è dub­bio che per­de­remmo tempo se enu­me­ras­simo le dichia­ra­zioni, le dimo­stra­zioni, per­sino le auto con­fes­sioni che for­ni­scono le prove di quel fal­li­mento. Valga una per tutti. Wol­fgang Mun­chau, in una inter­vi­sta a un gior­nale ita­liano di qual­che tempo fa, si dimo­strava alli­bito che «un eco­no­mi­sta del cali­bro di Mario Monti abbia potuto fir­mare un trat­tato (quello sul Fiscal Com­pact) che, se appli­cato alla let­tera, por­terà l’Italia al fal­li­mento: ridurre al 60% il debito in venti anni signi­fica andare incon­tro a una reces­sione che sot­trar­rebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disa­stro, e la fine dell’euro».
Altro che «sta­gna­zione seco­lare», di cui si parla con mag­giore insi­stenza nel dibat­tito eco­no­mico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fau­sto Ber­ti­notti – che il re è nudo, ma è ancora sta­bil­mente sul trono e con­ti­nua a coman­dare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi eco­no­mica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.
Crepe nella Troika
La vicenda greca costi­tui­sce il disve­la­mento più cla­mo­roso e recente, ma non l’unico, di que­sta realtà. Che la con­di­zione del paese e del popolo greci siano peg­gio­rate, da ogni punto di vista, ivi com­preso quello della quan­tità del debito, è que­stione che nes­suno discute. Eppure l’accordo impo­sto a Tsi­pras riba­di­sce, in parte anche peg­gio­ran­dole e indu­ren­dole, le stesse ricette. Ciò che non ha fun­zio­nato prima, può farlo ora in con­di­zioni peg­giori? Evi­den­te­mente no, basta una logica ele­men­tare ad esclu­derlo. Per­fino il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale lo riba­di­sce, aprendo così una crepa nel mono­lite della Troika (risul­tato non tra­scu­ra­bile della tena­cia con cui il governo greco ha affron­tato la lunga trat­ta­tiva), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è sal­vezza, per­ché la situa­zione debi­to­ria della Gre­cia è desti­nata a ripro­porsi e in modo aggra­vato. Eppure vi è addi­rit­tura, e non solo a destra, chi esalta la lun­gi­mi­ranza pre­sunta di Schaeu­ble per­ché ha posto la Gre­cia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma pre­fe­ri­bil­mente per sem­pre) o accetti que­ste con­di­zioni. Lo stesso docu­mento dei cin­que pre­si­denti reso noto a fine giu­gno, fir­mato da Djis­sel­bloem, da Dra­ghi, da Junc­ker, da Tusk, da Schulz e giu­di­cato irri­tante per­sino da un uomo come Fabri­zio Sac­co­manni ex mini­stro ed ex diret­tore gene­rale di Ban­ki­ta­lia, riba­di­sce una linea di gal­leg­gia­mento della Ue che sconta l’abbandono pos­si­bile dei paesi in dif­fi­coltà, pur di non rimuo­vere le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste del rigore.
Come si vede, sem­pre in que­sta vicenda, grandi sono le respon­sa­bi­lità della social­de­mo­cra­zia euro­pea – anche se per for­tuna non vi è un com­por­ta­mento omo­ge­neo in tutti i paesi — quella tede­sca in prima fila. Il para­gone con il voto dei cre­diti di guerra è cer­ta­mente for­zato, come lo sono tutti i paral­le­li­smi sto­rici, ma è quello che più si avvi­cina per gra­vità all’attuale com­por­ta­mento social­de­mo­cra­tico impe­gnato a soste­nere la poli­tica del rigore, a volte sca­val­cando a destra i suoi pro­pu­gna­tori come ha fatto Gabriel nei con­fronti della stessa Mer­kel. Eppure non si potrebbe rispon­dere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, sem­pli­ce­mente soste­nendo che il neo­li­be­ri­smo ha tro­vato solidi alleati da un lato e il ven­tre ancora troppo molle della sini­stra anta­go­ni­sta dall’altro e che ciò sarebbe suf­fi­ciente per spie­gare la sua buona salute e la sua soprav­vi­venza ai pro­pri disa­stri eco­no­mici e politici.
Il con­corso delle discipline
Laura Pen­nac­chi tenta con que­sto suo più recente lavoro un per­corso ambi­zioso. Con­si­de­rando troppo angu­sti i con­fini della «scienza tri­ste» per spie­gare la situa­zione e trac­ciare delle nuove tera­pie, vuole met­tere in campo una affa­sci­nante mul­ti­di­sci­pli­na­rietà per aggre­dire e destrut­tu­rare le basi della dot­trina eco­no­mica domi­nante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teo­rie eco­no­mi­che, ma attra­versa anche quelli della filo­so­fia, dell’antropologia, della socio­lo­gia.
Que­sto rap­pre­senta una nuova sfida per l’autrice, un ele­mento di novità rile­vante, per­lo­meno in que­ste dimen­sioni, rispetto a pre­ce­denti lavori e cer­ta­mente un fat­tore di par­ti­co­lare godi­mento intel­let­tuale per il let­tore. Infatti sta qui forse il mag­giore valore del libro. Cer­care di riu­ni­fi­care men­tal­mente e meto­do­lo­gi­ca­mente le set­to­ria­lità e le spe­cia­liz­za­zioni del sapere è una pre­con­di­zione indi­spen­sa­bile per stron­care il pen­siero unico, per rico­struire una cri­tica dell’economia poli­tica all’altezza dei tempi, per fare rina­scere una cul­tura di sinistra.
Ne nasce un per­corso di scrit­tura nel quale l’erudizione e la for­mi­da­bile ampiezza dei pun­tuali rife­ri­menti ad altre autrici e autori non sono mai osten­tati – come pur­troppo spesso capita ad altri — ma fun­zio­nali alla costru­zione di un discorso. Non tutti i giu­dizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono per­fet­ta­mente con­di­vi­si­bili. Alcuni sem­brano un po’ troppotran­chant. Per esem­pio sui lavori di Dar­dot e Laval che meri­te­reb­bero una più accu­rata disa­mina e non sono acco­sta­bili in tutto e per tutto a certe sem­pli­fi­ca­zioni che cir­co­lano abbon­dan­te­mente sul tema del «comune».
Que­sto per­corso, par­tendo dalla ana­lisi delle prin­ci­pali com­po­nenti del neo­li­be­ri­smo, indi­vi­duate nella finan­zia­riz­za­zione, nella mer­ci­fi­ca­zione (anche se l’autrice pre­fe­ri­sce il ter­mine inglese com­mo­di­fi­ca­tion), nella denor­ma­ti­viz­za­zione, ci con­duce fino alla pro­po­sta di un nuovo modello di svi­luppo fon­dato su un neou­ma­ne­simo che scon­figge la dimen­sione muti­lata e alie­nata dell’homo oeco­no­mi­cus. Su tutti que­sti tre lati gli argo­menti por­tati sol­le­ci­tano rifles­sioni impor­tanti.
In par­ti­co­lare, meri­te­rebbe un appro­fon­di­mento il tema della «deno­mor­ma­ti­viz­za­zione», su cui del resto i giu­ri­sti sono da tempo impe­gnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbat­ti­mento di regole e norme appar­te­nenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprat­tutto nell’ultima fase — ad una peri­co­losa «rinor­ma­ti­viz­za­zione» secondo i prin­cipi della più pura a-democrazia. Nel caso euro­peo que­sto è molto evidente.
La poli­tica insidiosa
Da diverso tempo a que­sta parte la Ue si è data, attra­verso un per­corso pro­dut­tivo di nuove norme e trat­tati, come il già citato fiscal com­pact, un robu­sto e com­plesso sistema di gover­nance. Que­sto sistema detta nuove norme agli stati mem­bri, fino a modi­fi­care le loro Costi­tu­zioni in punti rile­vanti. Come nel caso ita­liano ove la modi­fica dell’articolo 81 ha intro­dotto il pareg­gio di bilan­cio in Costi­tu­zione. Dire oggi, come pur­troppo non è infre­quente udire anche in discorsi alto­lo­cati quanto vuoti, che all’Europa man­che­rebbe un governo, è una pura scioc­chezza. Come anche dire che l’Europa è gover­nata solo dalle leggi dell’economia e che la poli­tica è fuori dalla porta. La poli­tica demo­cra­tica cer­ta­mente, ma non la poli­tica tout court.
Mario Dra­ghi, in un discorso tenuto all’Università di Hel­sinki, nel novem­bre del 2014, affer­mava che: «una dif­fusa erro­nea con­ce­zione sull’Unione Euro­pea – e la zona euro – è che esse siano unioni eco­no­mi­che senza una sot­to­stante unione poli­tica. Ciò riflette un pro­fondo equi­voco di cosa signi­fi­chi unione eco­no­mica: essa è per sua natura poli­tica». Egli ci ricorda una verità sostan­ziale, cur­van­dola però al suo punto di vista: che il capi­ta­li­smo, anche nella sua ver­sione più dichia­ra­ta­mente libe­ri­sta, non esi­ste – e non è mai esi­stito aggiun­gono gli sto­rici dell’economia come Marc Bloch — senza il sup­porto dello Stato. Il per­corso fin qui fatto dall’Europa è stato solo appa­ren­te­mente pura­mente eco­no­mico. È vero che si è comin­ciato dal car­bone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era eco­no­mia reale, da cui muo­veva un certo tipo di gover­nance poli­tica. Ora siamo den­tro un’economia domi­nata dalla finanza e la sua gover­nance poli­tica è imper­scru­ta­bile e imper­mea­bile al volere popo­lare quanto lo sono le sue isti­tu­zioni eco­no­mi­che. Ma non per que­sto non esiste.
Un mondo di interessi
Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro con­ti­nente. Gra­zie all’apporto dei voti social­de­mo­cra­tici ha fatto altri passi in avanti il fami­ge­rato Ttip, l’accordo «com­mer­ciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è pre­vi­sta la pos­si­bi­lità che le mul­ti­na­zio­nali fac­ciano ricorso con­tro stati o enti locali se que­sti attuano prov­ve­di­menti che pos­sono limi­tare la ven­dita dei loro pro­dotti o essere con­si­de­rati lesivi della loro libertà com­mer­ciale. La que­stione non ver­rebbe risolta nei tri­bu­nali ma in sede extra­giu­di­ziale, tra­mite una cupola di supe­re­sperti chia­mati a diri­mere il con­ten­zioso. Si dere­go­la­menta e si anni­chi­li­sce il ruolo della giu­sti­zia e delle sue pro­prie sedi da un lato; dall’altro si costrui­sce un’impalcatura total­mente estra­nea alle logi­che demo­cra­ti­che e coe­rente con la supre­ma­zia degli inte­ressi dell’impresa iden­ti­fi­cati come inte­resse gene­rale non della nazione ma di un intero con­ti­nente e sistema mondo.
Per que­sta ragione la rispo­sta non può che essere poli­tica, ma non poli­ti­ci­sta. Deve con­te­nere una pro­po­sta di nuovo modello di svi­luppo e una nuova e coe­rente idea di demo­cra­zia, di società, di per­sona. È vero, la ter­mi­no­lo­gia – nuovo modello di svi­luppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono con­su­mate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprat­tutto dal pes­simo uso fat­tone. Ma non vi è altro ter­mine più pre­ciso, per­lo­meno non ancora, per indi­care che non solo di distri­bu­zione della ric­chezza esi­stente biso­gna occu­parsi, anche se con cri­teri inno­va­tivi e tra­sfor­ma­tividegli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprat­tutto di radi­cale modi­fi­ca­zione degli oggetti, delle fina­lità e delle moda­lità della pro­du­zione.
Dalla crisi più lunga di sem­pre non si esce rilan­ciando vec­chi modelli pro­dut­tivi, ma con una rivo­lu­zione strut­tu­rale che indi­rizzi la pro­du­zione verso la sod­di­sfa­zione dei biso­gni basici e maturi delle popo­la­zioni. Con un ruolo fon­da­men­tale del pubblico.
Se alcuni pre­ve­dono una ripresa senza lavoro, la nuova sini­stra non può accet­tare l’idea di una jobless society. Il tema della ricerca della piena e buona occu­pa­zione va quindi ripen­sato, ma non espunto. La risog­get­ti­viz­za­zione dell’agente eco­no­mico — per usare le parole di Laura Pen­nac­chi -, la rico­stru­zione del nuovo sog­getto dell’economia non pos­sono avve­nire senza una riva­lo­riz­za­zione del lavoro in tutte le sue anti­che e più moderne forme. Il capi­ta­li­smo ha mostrato nella sua lunga sto­ria di avere diverse facce. È dun­que «rifor­ma­bile», ma all’interno del suoi con­fini e ai suoi fini ripro­dut­tivi. Il suo supe­ra­mento, la tra­sfor­ma­zione, non può avve­nire senza sog­getti forti, resi­stenti alla sua cami­cia di forza.

Fonte: il manifesto

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