La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 29 luglio 2015

Islam e secolarizzazione

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di Dario Cecchi
Uno dei luoghi comuni, che si ripetono ormai da anni a proposito della politica nel mondo islamico, è che questa dovrebbe affrontare un serio processo di secolarizzazione. Questo della critica all’Islam non riguarda solo la politica: sono le società islamiche nel loro complesso che, a detta dei loro critici, dovrebbero avviare un simile percorso per diventare più libere, aperte e democratiche. Nel corso degli anni la critica ha affinato i suoi strumenti per interpretare culture e società così complesse e che hanno una storia ormai più che millenaria. Sono inoltre società in forte crescita, almeno dal punto di vista demografico, e che rappresentano nel bene o nel male uno dei motori del sommovimento politico e sociale dell’ultimo decennio. È difficile pertanto relegarle al ruolo di puro oggetto di comparazione con i modelli occidentali di laicità, di libertà e di democrazia. Occorrono senza dubbio criteri specifici per comprendere queste realtà, anche in una prospettiva di riforma radicale dei costumi e delle leggi. Il modello di sviluppo e progresso basato sul semplice raggiungimento dello standard occidentale è in crisi da più di trent’anni, almeno da quando, con la Rivoluzione del 1979, gli iraniani hanno contestato radicalmente l’eventualità che il bene per un paese islamico sia rappresentato dal fatto di assomigliare quanto più possibile a un paese occidentale.

L’Iran post-rivoluzionario costituisce un caso paradigmatico della condizione, per molti versi paradossale, in cui versa la maggior parte dei paesi islamici. Con la Rivoluzione del 1979 gli iraniani hanno posto fine a un regime dittatoriale, che aveva se non altro il merito di promuovere la laicità e lo sviluppo economico, sia pure a fronte di palesi contraddizioni – se si vuole assumere il modello occidentale di modernità nella sua interezza – come l’assenza di libertà d’espressione, di democrazia e in presenza invece di una fortissima corruzione ai vertici del sistema politico, economico e militare. Anche le società occidentali e democratiche conoscono fenomeni rilevanti di corruzione tra le classi dirigenti; le società islamiche sono segnate da specifiche tendenze a riprodurre meccanismi consolidati di “solidarietà di casta”, su cui dovremo tornare. La Rivoluzione iraniana ha mostrato la disponibilità, non solo tra la popolazione – di cui è lecito supporre un moderatismo e un conservatorismo non dissimili da quelli riscontrabili in altre popolazioni – ma anche tra ampi settori dell’intellighenzia. Nel 1979 gli intellettuali iraniani hanno in larga parte creduto di potersi servire dell’autorevolezza dei religiosi per ottenere il sostegno del popolo alla loro azione rivoluzionaria, salvo subire la rapida egemonizzazione della Rivoluzione da parte dei settori religiosi e accettando anche in molti casi di sottomettersi al nuovo corso teocratico.
Il paradosso in cui si trovano molte società islamiche è perciò quello, da una parte, di non poter tornare più indietro a modelli autocratici di modernizzazione e, dall’altra, di vedere altresì frustrate le aspettative nel nuovo corso rivoluzionario. Il caso iraniano è tanto più esemplare, in quanto nell’arco di meno di quarant’anni il nuovo ordine politico, rivoluzionario e teocratico, ha finito per riproporre gli stessi meccanismi di casta tipici del periodo della monarchia, quando l’Iran si trovava sotto il regime dittatoriale dello scià e di una élite a lui fedele, ma si incamminava verso processi di rapida secolarizzazione e modernizzazione secondo il modello occidentale, rivisto e depurato dei suoi aspetti liberali e democratici. La popolazione iraniana continua a presentare decise tendenze verso la secolarizzazione dei costumi e l’imitazione dei modelli occidentali; oggi però questo fenomeno si verifica malgrado la ferma opposizione delle autorità al potere.
Lo schema iraniano sembra essersi riproposto nell’ultimo decennio, a partire dalla Seconda Guerra del Golfo, in molti paesi arabi. In Iraq, in Egitto e in Siria il vuoto di potere apertosi con la caduta o la crisi di un regime militare ha lasciato spazio al riemergere di movimenti islamici più o meno fondamentalisti, con soluzioni che divergono da paese a paese. In Iraq l’intervento esterno delle potenze occidentali ha determinato la caduta del dittatore, ma non ha potuto impedire che gli sciiti rivendicassero dopo anni di persecuzioni il fatto di essere maggioranza nel paese, sia pure in una condizione di balcanizzazione crescente del paese. La Primavera araba ha più di recente rimesso in discussione il potere del clan Assad e della sua cerchia in Siria e del clan Mubarak e dei militari in Egitto. In Siria la crisi è sfociata in un’aperta guerra civile, nella quale gli elementi islamici radicali hanno rapidamente preso il ruolo di protagonisti della lotta contro il vecchio regime. In Egitto la vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani è stata nel giro di poco tempo bloccata dal ritorno delle forze armate come vere protagoniste della politica egiziana. È vero che l’Iran non è un paese arabo; esso ha spesso giocato il ruolo di apripista per movimenti che, se in Iran hanno fallito, nei paesi arabi hanno avuto conseguenze più durature. Il tentativo, portato avanti nel 1953 dal primo ministro iraniano Mossadeq (con l’opposizione dello scià) di nazionalizzare le risorse petrolifere del paese e di avviare un processo di autentica democratizzazione delle istituzioni è stato fermato da un colpo di stato orchestrato dagli americani. Nel 1956, tuttavia, l’analogo tentativo di Sadat in Egitto – cacciare un re alleato degli europei e nazionalizzare il Canale di Suez – ebbe successo. Nel 2009 l’Onda verde iraniana ha contestato nelle sue fondamenta la teocrazia iraniana, salvo essere duramente repressa; nel 2011 è iniziato in diversi paesi arabi il movimento della cosiddetta Primavera, che non sembra essersi del tutto sopita nonostante i numerosi contraccolpi e le contraddizioni di cui soffre.
Vorremmo suggerire che, pur nelle differenze che ciascuna di queste realtà presenta, se c’è un filo conduttore della storia dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, esso va ricercato appunto nella comune matrice islamica di queste società. Sbagliano però, a nostro avviso, quei critici, i quali ritengono di poter ridurre l’analisi dei fenomeni politici che attraversano questa vasta area geografica solo attraverso un esercizio di decostruzione della presunta “teologia politica” che sarebbe alla base dell’Islam. Non solo perché sarebbe difficile definire un’unica “teologia politica” islamica: le differenze, in termini di concezione del potere e dell’ordine politico che dovrebbe governare una società islamica, sono infatti troppo grandi tra sunniti e sciiti, come tra appartenenti a diverse scuole, movimenti e tendenze all’interno delle rispettive “confessioni”, per poter determinare in modo univoco l’idea di una prassi politica giusta secondo i dettami della religione islamica. Queste differenze contribuiscono semmai ad alimentare le rivalità tra le diverse “confessioni” e di conseguenza tra i vari gruppi fondamentalisti, i quali hanno tutto l’interesse a forgiare un senso di appartenenza nazionale (o sovranazionale) anche in chiave polemica e perfino aggressiva nei confronti di altre correnti islamiche.
Mi sembra che il filo rosso del carattere islamico della politica, il quale contrassegna i paesi che vanno dal Marocco al Pakistan (non considero qui l’Estremo Oriente musulmano), vada ricercato piuttosto in una concezione allargata di religione. Si tratta insomma di una religione che accoglie al suo interno elementi sociali e culturali di lunga durata e di vasta portata, tanto vasta da riguardare paesi molto distanti tra loro geograficamente e per altri aspetti anche culturalmente. L’ampiezza del fenomeno lascia supporre che una certa cultura del potere e una determinata struttura sociale siano state oggetto di negoziazioni fin dalle origini dell’Islam, che ha dovuto accogliere al suo interno elementi non necessariamente collegati alla sua dottrina e alla sua “predicazione”. Se si vuole portare avanti in maniera compiuta una critica alla mancata, o insufficiente, secolarizzazione dei paesi islamici, e quindi ai difetti di cui la politica soffre in molti paesi islamici, si deve tenere conto pertanto, non solo della dottrina politica dell’Islam in senso stretto, ma anche di questa cultura politica allargata, di cui l’Islam si è fatto storicamente sostenitore.
Nel suo illuminante saggio Il linguaggio politica dell’Islam (Laterza 2005), uno studioso attento come Bernard Lewis fa notare che il Corano usa termini come “re” e “regno” (in arabo malik e mulk) solo in un’accezione negativa. Quando il Corano parla di mulk, intende infatti il “regno” come un possesso o una proprietà personale del re. Il re (malik) è pertanto non il “sovrano” del suo popolo, ma un vero e proprio proprietario della terra, dei beni in essa contenuti e perfino delle persone che vi abitano. Tale concezione della regalità contrasta, secondo il Corano, i dettami dell’Islam. Ciò non ha impedito, soprattutto in ambiente persiano, indiano e ottomano, che con il passare dei secoli il “linguaggio della regalità” riemergesse. Il termine persiano shah – o come lo rendiamo in italiano “scià” – equivale in tutto e per tutto all’arabo malik. Questo titolo, insieme al suo equivalente arabo, è stato usato dai principi persiani, indiani e turchi: lo scià di Persia usava addirittura definirsi shahanshahan (re dei re), mentre il sultano ottomano si riferiva a se stesso come padishah (grande re). I principi del sangue erano definiti shahzadegan (figli o discendenti di re), mentre per le mogli o le madri – spesso più autorevoli delle mogli in un regime di poligamia – dei re si ricorreva spesso al termine malekeh (regina). Perfino nel sistema del laqab (titolo onorifico) elaborato in Persia e poi diffusosi in altre aree, soprattutto nell’Inda moghul è presente questo aspetto. Nella Persia qajar, tra la fine del XVIII e gli inizi del XX secolo, i capi delle gilde cittadine di mercanti e artigiani erano spesso contraddistinti con il titolo di malik-ut tajer (re dei mercanti), mentre il poeta di corte era spesso insignito del titolo di malik-ul shoara (re dei poeti). Fin dall’epoca medievale – i riferimenti cronologici sono dati per comodità secondo una cronologia e una periodizzazione europee – i signori dei principati regionali, in cui all’epoca era divisa la Persia, usavano insignire i loro dignitari con titoli come nizam-ul mulk (ordine del regno, titolo tipicamente conferito ai primi ministri) o shuja-ul mulk (coraggio del regno). Un dignitario passato alla storia proprio con il titolo di Nizam-ul Mulk – che servì numerosi principi selgiuchidi, vissuto nel XI secolo e amico secondo la tradizione del poeta Omar Khayyam e del capo della setta degli Assassini Hassan-ul Sabah – nel suo trattato Siyasatnama (libro del governo), avrebbe raccomandato ai principi di non conferire mai ai loro generali titoli in cui si facesse riferimento al mulk. Ciò avrebbe infatti indotto i capi militari a sentirsi loro i veri padroni del regno e ad aspirare a detronizzare con la forza delle armi il loro signore. Nizam-ul Mulk consigliava perciò di riservare questi titoli ai dignitari di corte e ai ministri, i quali non potevano godere del sostegno di un esercito a loro fedele per rovesciare il potere del re. Un discorso a parte meriterebbe il ritorno all’uso del termine malik in molte monarchie arabe nel corso del XX secolo: pensiamo in particolare al Marocco, all’Egitto prima del colpo di stato dei “liberi ufficiali” e alla Giordania. Si tratta tuttavia probabilmente di casi in cui i governanti arabi desideravano porsi allo stesso livello dei sovrani europei, con cui si trovavano a trattare. L’Islam nutre perciò più di un timore verso il “linguaggio della regalità”, timore che ha un’eco anche in visioni meno legate a una prospettiva religiosa, come la tradizione di trattatistica politica di corte, sul modello dello “specchio dei principi”, di cui il libro di Nizam-ul Mulk costituisce un esemplare di considerevole importanza.
Il rapporto dell’Islam con il “linguaggio della regalità” non è perciò privo di ambiguità, non solo perché esiste una tradizione politica che esalta questo linguaggio come fonte di autorità, ma anche perché in alcuni contesti la stessa tradizionale devozionale, distaccandosi dal dettato coranico, recupera questo linguaggio. Così lo sciismo, che a differenza del sunnismo individua nella discendenza della famiglia del Profeta la legittima successione alla guida dell’Islam, conosce forme di devozione popolare, dalle processioni alla poesia fino nei casi più moderni al teatro, in cui i discendenti del Profeta sono spesso chiamati “principi” (shahzadegan). Ma c’è un punto di maggiore rilievo che va messo in luce. Sebbene il Corano condanni tale “linguaggio della regalità”, esso continua a pensare le forme di governo della comunità a partire da un principio “monarchico”. Il califfo non è altro che un “vicario” – questo è uno dei significati etimologici originali del termine – del Profeta. Si narra addirittura che i primi califfi si considerassero parte di una successione, che li vedeva progressivamente allontanarsi dalla nucleo originario del potere, costituito dalla profezia: così solo il primo califfo poteva dirsi a ragione “vicario del Profeta”, mentre i califfi successivi erano “vicari di vicari”, secondo un andamento iperbolico. È anche vero che i primi quattro califfi secondo la tradizione sunnita – l’ultimo, Ali, cugino e genero del Profeta, è quello che per gli sciiti è il primo imam – furono scelti direttamente dalla umma, la comunità dei fedeli: essi sono definiti perciò i califfi al rashidun (ben guidati). Solo in seguito sarebbe subentrato nel califfato un principio ereditario, proseguito fino alla deposizione dell’ultimo sultano ottomano da parte di Atatürk nel 1924. L’elettività e la non ereditarietà in linea di principio del califfo sembrerebbero porre i germi di una concezione “democratica” di potere; resta il fatto che il governo resta privo di contrappesi definiti e stabili, non essendo la umma un’assemblea permanente e dotata di poteri specifici. È sintomatico il fatto che il termine majlis (assemblea) abbia potuto indicare, ancora in età moderna, tanto un “consiglio” di ministri sottoposti all’autorità del monarca, quanto un “parlamento” propriamente detto. Inoltre, l’autorità del califfo su tutto il mondo islamico è stata fin dai primi secoli più nominale che reale: diverse spinte locali – nazionali, linguistiche, dinastiche e religiose – hanno determinato la frantumazione del mondo islamico in una miriade di stati.
Una breve considerazione sui titoli assunti da questi principi locali – i quali in alcuni casi come il Marocco hanno fondato autentiche realtà politiche nazionali, vecchie ormai di diversi secoli – può aiutarci a capire meglio la natura del potere nel mondo islamico. In alcuni casi, come si è detto, in queste realtà è riemerso il “linguaggio della regalità”; in altri casi, come in Marocco, il titolo di re è stato ripristinato solo in epoca moderna, quando si è reso necessario confrontarsi da pari con i sovrani europei. L’araldica privilegiata da questi governanti, come pure in via accessoria dai loro omologhi ottomani, persiani e indiani, si riferiva prima solitamente a titoli come “sultano” ed “emiro”, entrati da tempo anche nelle lingue europee per designare i principi musulmani. Questi titoli conservano una indistinzione di fondo tra l’esercizio del potere politico e l’esercizio di un potere militare o amministrativo. Il sultano, termine che deriva da una parola araba che significa “forza”, è originariamente un comandante militare o un governatore di provincia; in questa accezione il titolo è riesumato nella Persia safavide, dove gli ufficiali di rango intermedio e i governatori dei distretti locali sono definiti “sultani”. Nell’India moghul il titolo era riservato ai signori dei principati locali, accanto a una miriade di altri titoli, in una logica di parziale autonomia dei potentati locali dal potere centrale; tuttora nella Penisola arabica molti sovrani di piccoli stati usano questo titolo. Nell’Impero ottomano, il cui sovrano è da noi europei spesso definito “sultano”, il titolo era in realtà riferito soprattutto ai figli del regnante, accanto al titolo di principe (shahzadeh).
Considerazione analoga può essere fatta per il titolo di emiro. Amir può essere reso tanto con “comandante” quanto con “principe” (nel senso di signore di un territorio). Lo sceicco della tribù araba stanziatasi nella provincia dell’Impero persiano chiamata all’epoca non a caso Arabistan-e Fars (Arabia persiana), oggi meglio conosciuta come Khuzestan, riesce alla fine del XIX secolo ad affermare la sua potenza e la sua autonomia dal governo centrale facendosi conferire, oltre all’incarico di governatore ufficiale della provincia, il titolo personale di “emiro di Mohammerah”, dal nome della città dove risiede. Pur non essendo califfi, vale a dire guide dell’intera comunità islamica, i sovrani degli stati musulmani si attribuiscono spesso il titolo di amir-ul mu’minin, “principe” o “comandante dei credenti”, con il quale hanno autorità anche in materia religiosa sui sudditi del proprio regno. Nella tradizione di corte persiana, dove per lungo tempo si è conservata una distinzione tra gli “uomini di penna” e gli “uomini di spada” al servizio dello scià, con un maggior prestigio dei secondi sui primi, per sottolineare la superiorità del primo ministro sugli altri funzionari, burocrati e dignitari di corte, gli si conferiva normalmente un titolo che gli attribuiva un potere di tipo militare, un vero e proprio “comando”. Così il primo ministro è solitamente nominato sadr- o atabek-e azam (comandante supremo) e in casi di particolare favore dello scià – come per il primo ministro riformista, vissuto nel XIX secolo, Mirza Taghi Khan Farahani – gli si riconosce il titolo di amir kabir (grande principe o comandante). Lo stesso titolo persiano di mirza, che possiamo rendere con “gentiluomo”, riservato, messo prima del nome proprio, alle persone istruite e in particolare ai dignitari di corte e ai funzionari pubblici o, messo dopo il nome proprio, ai principi del sangue, sarebbe la deformazione di amirzadeh (figlio o discendente dell’emiro).
La concezione del potere nell’Islam, anche nella versione più vicina al dettato coranico di rifiutare l’idea di regalità, non romperebbe pertanto con una concezione secondo cui il governo equivarrebbe all’esercizio di un comando militare. È una concezione talmente radicata nel pensiero politico islamico, al punto non solo di ritornare nel linguaggio del governo in senso stretto, ma di rientrare anche in una concezione del prestigio sociale, che lega tutti coloro i quali traggono la loro autorevolezza dalla partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica all’idea di una vicinanza al potere delle armi e della forza. In un articolo scritto per il numero 1108 di Internazionale, la scrittrice turca Elif Shafak ricorda che la parola d’origine araba siyasat, che in turco vuol dire tuttora “politica”, ha originariamente il significato di “arte di addestrare i cavalli”: è il governo, nel senso foucacultiano dell’esercizio di un controllo e dell’imposizione di una disciplina. Nello stesso articolo Shafak fa notare come la concezione politica turca – diremmo mediorientale e islamica in genere – resta profondamente segnata dall’idea patriarcale del “governo del padre”. Non solo Mustafa Kemal si proclama atatürk (“padre dei turchi” o “grande turco”), ma anche il capo rivoluzionario curdo Öcalan è popolarmente noto come “zio” (apu), mentre titoli come “sceicco” (shaykh), che significa letteralmente “anziano”, restano a metà strada tra un significato religioso (il capo di una comunità) e quello politico (il capo di una tribù), legando comunque l’idea di autorità a quella del prestigio dato dall’anzianità.
Il dispositivo di potere che regola le società in questione unisce il riferimento alla dimensione militare e quello alla dimensione patriarcale della vita associata: la società è concepita come una grande famiglia in armi, al cui capo sta l’anziano padre e comandante del gruppo. È soprattutto la dimensione militare a costituire uno strumento di esercizio non democratico del potere, perché amplifica questa visione tradizionalista e la proietta in una gerarchia organizzata, che può operare in modo oppressivo nei confronti della popolazione. Questo dato sembra chiarire perché nella storia di molti paesi islamici accada che una minoranza ben organizzata dal punto di vista miliare possa arrivare a conquistare il potere, anche opprimendo la maggioranza: è il caso della casta dei mamelucchi in Egitto fino alla fine del XVIII secolo; è il caso della confraternita dei qizilbash e poi di un gran numero di tribù turcomanne, curde e turche in Persia a partire dalla riunificazione nel XVI secolo fino alla modernizzazione avviata nel XX; è più recentemente il caso del clan Assad e della minoranza alauita in Siria, o della dinasta sunnita Al Khalifa che governa in Bahrein, un piccolo stato a maggioranza ismailita (sciita).
I critici e i teorici che invocano, non ultime per ragioni di ordine politico, l’avvio di un deciso processo di secolarizzazione dei paesi islamici rischiano di ignorare un punto. La struttura del potere, per come si è consolidata nel mondo islamico, non rimanda a precisi dettami dottrinari rintracciabili nel Corano. Né si può dire che l’Islam abbia conosciuto una sacralizzazione dell’istituto monarchico paragonabile a quella elaborata in Europa a partire dal Medioevo fino alla Rivoluzione francese. Il potere nel mondo islamico è innanzitutto l’esercizio della forza: esso è oggetto di realismo politico ben prima che in Europa questa categoria fosse definita. E tuttavia manca la capacità di innestare in questo contesto un discorso critico sul potere come tale, capace di fare appello non solo a istanze ideali laiche – i diritti umani, la democrazia etc. – ma anche di immaginare un esercizio del potere pensato secondo criteri operativamente democratici: divisione dei poteri, sottomissione dei governanti alla legge etc. Storicamente una funzione di controllo e di contenimento del potere politico, pensato soprattutto come potere militare, è stata esercitata proprio dalle autorità religiose, che agivano richiamandosi ai princìpi coranici. E tuttavia questa forma di critica del potere non è mai arrivata a metterne in discussione la natura, nemmeno quando, ad esempio con la Rivoluzione iraniana, i religiosi sono andati al potere: essi hanno ristabilito un’autorità basata sulle gerarchie, sull’uso della forza e sul rispetto patriarcale dei potenti, tanto che i giovani dell’Onda verde iraniana nel 2009 non hanno esitato durante le manifestazioni ad apostrofare la Guida suprema della Rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, con il titolo infamante di “scià”.
Quando parliamo di secolarizzazione dell’Islam, dovremmo forse tenere a mente che questa sul piano politico impegnerebbe non solo a una critica dei testi e delle fonti di una presunta “teologia politica” islamica, ma più nel profondo a una critica delle forme del potere, così come una tradizione millenaria le ha consolidate nella storia e nella pratica dei governi islamici.
Dario Cecchi svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza Università di Roma. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica ed Etica) presso l’Università di Bologna e ha svolto attività di ricerca postdottorali presso l’EHESS (Parigi). Ha tradotto testi di Hannah Arendt e John Dewey. Tra le sue pubblicazioni in volume ricordiamo Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini (Usher 2011, curato insieme a Daniele Guastini e Alessandra Campo) e Abbas Kiarostami. Immaginare la vita (Fondazione Ente dello Spettacolo 2013).

Fonte: MicroMega online - Il rasoio di Occam

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