di Dario Cecchi
Uno dei luoghi comuni, che si ripetono ormai da anni a proposito
della politica nel mondo islamico, è che questa dovrebbe affrontare un
serio processo di secolarizzazione. Questo della critica
all’Islam non riguarda solo la politica: sono le società islamiche nel
loro complesso che, a detta dei loro critici, dovrebbero avviare un
simile percorso per diventare più libere, aperte e democratiche. Nel
corso degli anni la critica ha affinato i suoi strumenti per
interpretare culture e società così complesse e che hanno una storia
ormai più che millenaria. Sono inoltre società in forte crescita, almeno
dal punto di vista demografico, e che rappresentano nel bene o nel male
uno dei motori del sommovimento politico e sociale dell’ultimo
decennio. È difficile pertanto relegarle al ruolo di puro oggetto di
comparazione con i modelli occidentali di laicità, di libertà e di
democrazia. Occorrono senza dubbio criteri specifici per comprendere
queste realtà, anche in una prospettiva di riforma radicale dei costumi e
delle leggi. Il modello di sviluppo e progresso basato sul semplice
raggiungimento dello standard occidentale è in crisi da più di
trent’anni, almeno da quando, con la Rivoluzione del 1979, gli iraniani
hanno contestato radicalmente l’eventualità che il bene per un paese
islamico sia rappresentato dal fatto di assomigliare quanto più
possibile a un paese occidentale.
L’Iran post-rivoluzionario costituisce un caso paradigmatico della
condizione, per molti versi paradossale, in cui versa la maggior parte
dei paesi islamici. Con la Rivoluzione del 1979 gli iraniani hanno posto
fine a un regime dittatoriale, che aveva se non altro il merito di
promuovere la laicità e lo sviluppo economico, sia pure a fronte di
palesi contraddizioni – se si vuole assumere il modello occidentale di
modernità nella sua interezza – come l’assenza di libertà d’espressione,
di democrazia e in presenza invece di una fortissima corruzione ai
vertici del sistema politico, economico e militare. Anche le società
occidentali e democratiche conoscono fenomeni rilevanti di corruzione
tra le classi dirigenti; le società islamiche sono segnate da specifiche
tendenze a riprodurre meccanismi consolidati di “solidarietà di casta”,
su cui dovremo tornare. La Rivoluzione iraniana ha mostrato la
disponibilità, non solo tra la popolazione – di cui è lecito supporre un
moderatismo e un conservatorismo non dissimili da quelli riscontrabili
in altre popolazioni – ma anche tra ampi settori dell’intellighenzia.
Nel 1979 gli intellettuali iraniani hanno in larga parte creduto di
potersi servire dell’autorevolezza dei religiosi per ottenere il
sostegno del popolo alla loro azione rivoluzionaria, salvo subire la
rapida egemonizzazione della Rivoluzione da parte dei settori religiosi e
accettando anche in molti casi di sottomettersi al nuovo corso
teocratico.
Il paradosso in cui si trovano molte società islamiche è perciò
quello, da una parte, di non poter tornare più indietro a modelli
autocratici di modernizzazione e, dall’altra, di vedere altresì
frustrate le aspettative nel nuovo corso rivoluzionario. Il caso
iraniano è tanto più esemplare, in quanto nell’arco di meno di
quarant’anni il nuovo ordine politico, rivoluzionario e teocratico, ha
finito per riproporre gli stessi meccanismi di casta tipici del periodo
della monarchia, quando l’Iran si trovava sotto il regime dittatoriale
dello scià e di una élite a lui fedele, ma si incamminava verso processi
di rapida secolarizzazione e modernizzazione secondo il modello
occidentale, rivisto e depurato dei suoi aspetti liberali e democratici.
La popolazione iraniana continua a presentare decise tendenze verso la
secolarizzazione dei costumi e l’imitazione dei modelli occidentali;
oggi però questo fenomeno si verifica malgrado la ferma opposizione
delle autorità al potere.
Lo schema iraniano sembra essersi riproposto nell’ultimo decennio, a
partire dalla Seconda Guerra del Golfo, in molti paesi arabi. In Iraq,
in Egitto e in Siria il vuoto di potere apertosi con la caduta o la
crisi di un regime militare ha lasciato spazio al riemergere di
movimenti islamici più o meno fondamentalisti, con soluzioni che
divergono da paese a paese. In Iraq l’intervento esterno delle potenze
occidentali ha determinato la caduta del dittatore, ma non ha potuto
impedire che gli sciiti rivendicassero dopo anni di persecuzioni il
fatto di essere maggioranza nel paese, sia pure in una condizione di
balcanizzazione crescente del paese. La Primavera araba ha più di
recente rimesso in discussione il potere del clan Assad e della sua
cerchia in Siria e del clan Mubarak e dei militari in Egitto. In Siria
la crisi è sfociata in un’aperta guerra civile, nella quale gli elementi
islamici radicali hanno rapidamente preso il ruolo di protagonisti
della lotta contro il vecchio regime. In Egitto la vittoria elettorale
dei Fratelli Musulmani è stata nel giro di poco tempo bloccata dal
ritorno delle forze armate come vere protagoniste della politica
egiziana. È vero che l’Iran non è un paese arabo; esso ha spesso giocato
il ruolo di apripista per movimenti che, se in Iran hanno fallito, nei
paesi arabi hanno avuto conseguenze più durature. Il tentativo, portato
avanti nel 1953 dal primo ministro iraniano Mossadeq (con l’opposizione
dello scià) di nazionalizzare le risorse petrolifere del paese e di
avviare un processo di autentica democratizzazione delle istituzioni è
stato fermato da un colpo di stato orchestrato dagli americani. Nel
1956, tuttavia, l’analogo tentativo di Sadat in Egitto – cacciare un re
alleato degli europei e nazionalizzare il Canale di Suez – ebbe
successo. Nel 2009 l’Onda verde iraniana ha contestato nelle sue
fondamenta la teocrazia iraniana, salvo essere duramente repressa; nel
2011 è iniziato in diversi paesi arabi il movimento della cosiddetta
Primavera, che non sembra essersi del tutto sopita nonostante i numerosi
contraccolpi e le contraddizioni di cui soffre.
Vorremmo suggerire che, pur nelle differenze che ciascuna di queste
realtà presenta, se c’è un filo conduttore della storia dei paesi del
Nord Africa e del Medio Oriente, esso va ricercato appunto nella comune
matrice islamica di queste società. Sbagliano però, a nostro avviso,
quei critici, i quali ritengono di poter ridurre l’analisi dei fenomeni
politici che attraversano questa vasta area geografica solo attraverso
un esercizio di decostruzione della presunta “teologia politica” che
sarebbe alla base dell’Islam. Non solo perché sarebbe difficile definire
un’unica “teologia politica” islamica: le differenze, in termini di
concezione del potere e dell’ordine politico che dovrebbe governare una
società islamica, sono infatti troppo grandi tra sunniti e sciiti, come
tra appartenenti a diverse scuole, movimenti e tendenze all’interno
delle rispettive “confessioni”, per poter determinare in modo univoco
l’idea di una prassi politica giusta secondo i dettami della religione
islamica. Queste differenze contribuiscono semmai ad alimentare le
rivalità tra le diverse “confessioni” e di conseguenza tra i vari gruppi
fondamentalisti, i quali hanno tutto l’interesse a forgiare un senso di
appartenenza nazionale (o sovranazionale) anche in chiave polemica e
perfino aggressiva nei confronti di altre correnti islamiche.
Mi sembra che il filo rosso del carattere islamico della politica, il
quale contrassegna i paesi che vanno dal Marocco al Pakistan (non
considero qui l’Estremo Oriente musulmano), vada ricercato piuttosto in
una concezione allargata di religione. Si tratta insomma di una
religione che accoglie al suo interno elementi sociali e culturali di
lunga durata e di vasta portata, tanto vasta da riguardare paesi molto
distanti tra loro geograficamente e per altri aspetti anche
culturalmente. L’ampiezza del fenomeno lascia supporre che una certa
cultura del potere e una determinata struttura sociale siano state
oggetto di negoziazioni fin dalle origini dell’Islam, che ha dovuto
accogliere al suo interno elementi non necessariamente collegati alla
sua dottrina e alla sua “predicazione”. Se si vuole portare avanti in
maniera compiuta una critica alla mancata, o insufficiente,
secolarizzazione dei paesi islamici, e quindi ai difetti di cui la
politica soffre in molti paesi islamici, si deve tenere conto pertanto,
non solo della dottrina politica dell’Islam in senso stretto, ma anche
di questa cultura politica allargata, di cui l’Islam si è fatto
storicamente sostenitore.
Nel suo illuminante saggio Il linguaggio politica dell’Islam (Laterza 2005), uno studioso attento come Bernard Lewis fa notare che il Corano usa termini come “re” e “regno” (in arabo malik e mulk) solo in un’accezione negativa. Quando il Corano parla di mulk, intende infatti il “regno” come un possesso o una proprietà personale del re. Il re (malik)
è pertanto non il “sovrano” del suo popolo, ma un vero e proprio
proprietario della terra, dei beni in essa contenuti e perfino delle
persone che vi abitano. Tale concezione della regalità contrasta,
secondo il Corano, i dettami dell’Islam. Ciò non ha impedito,
soprattutto in ambiente persiano, indiano e ottomano, che con il passare
dei secoli il “linguaggio della regalità” riemergesse. Il termine
persiano shah – o come lo rendiamo in italiano “scià” – equivale in tutto e per tutto all’arabo malik.
Questo titolo, insieme al suo equivalente arabo, è stato usato dai
principi persiani, indiani e turchi: lo scià di Persia usava addirittura
definirsi shahanshahan (re dei re), mentre il sultano ottomano si riferiva a se stesso come padishah (grande re). I principi del sangue erano definiti shahzadegan
(figli o discendenti di re), mentre per le mogli o le madri – spesso
più autorevoli delle mogli in un regime di poligamia – dei re si
ricorreva spesso al termine malekeh (regina). Perfino nel sistema del laqab (titolo
onorifico) elaborato in Persia e poi diffusosi in altre aree,
soprattutto nell’Inda moghul è presente questo aspetto. Nella Persia
qajar, tra la fine del XVIII e gli inizi del XX secolo, i capi delle
gilde cittadine di mercanti e artigiani erano spesso contraddistinti con
il titolo di malik-ut tajer (re dei mercanti), mentre il poeta di corte era spesso insignito del titolo di malik-ul shoara (re
dei poeti). Fin dall’epoca medievale – i riferimenti cronologici sono
dati per comodità secondo una cronologia e una periodizzazione europee –
i signori dei principati regionali, in cui all’epoca era divisa la
Persia, usavano insignire i loro dignitari con titoli come nizam-ul mulk (ordine del regno, titolo tipicamente conferito ai primi ministri) o shuja-ul mulk
(coraggio del regno). Un dignitario passato alla storia proprio con il
titolo di Nizam-ul Mulk – che servì numerosi principi selgiuchidi,
vissuto nel XI secolo e amico secondo la tradizione del poeta Omar
Khayyam e del capo della setta degli Assassini Hassan-ul Sabah – nel suo
trattato Siyasatnama (libro del governo), avrebbe raccomandato
ai principi di non conferire mai ai loro generali titoli in cui si
facesse riferimento al mulk. Ciò avrebbe infatti indotto i capi
militari a sentirsi loro i veri padroni del regno e ad aspirare a
detronizzare con la forza delle armi il loro signore. Nizam-ul Mulk
consigliava perciò di riservare questi titoli ai dignitari di corte e ai
ministri, i quali non potevano godere del sostegno di un esercito a
loro fedele per rovesciare il potere del re. Un discorso a parte
meriterebbe il ritorno all’uso del termine malik in molte
monarchie arabe nel corso del XX secolo: pensiamo in particolare al
Marocco, all’Egitto prima del colpo di stato dei “liberi ufficiali” e
alla Giordania. Si tratta tuttavia probabilmente di casi in cui i
governanti arabi desideravano porsi allo stesso livello dei sovrani
europei, con cui si trovavano a trattare. L’Islam nutre perciò più di un
timore verso il “linguaggio della regalità”, timore che ha un’eco anche
in visioni meno legate a una prospettiva religiosa, come la tradizione
di trattatistica politica di corte, sul modello dello “specchio dei
principi”, di cui il libro di Nizam-ul Mulk costituisce un esemplare di
considerevole importanza.
Il rapporto dell’Islam con il “linguaggio della regalità” non è
perciò privo di ambiguità, non solo perché esiste una tradizione
politica che esalta questo linguaggio come fonte di autorità, ma anche
perché in alcuni contesti la stessa tradizionale devozionale,
distaccandosi dal dettato coranico, recupera questo linguaggio. Così lo
sciismo, che a differenza del sunnismo individua nella discendenza della
famiglia del Profeta la legittima successione alla guida dell’Islam,
conosce forme di devozione popolare, dalle processioni alla poesia fino
nei casi più moderni al teatro, in cui i discendenti del Profeta sono
spesso chiamati “principi” (shahzadegan). Ma c’è un punto di
maggiore rilievo che va messo in luce. Sebbene il Corano condanni tale
“linguaggio della regalità”, esso continua a pensare le forme di governo
della comunità a partire da un principio “monarchico”. Il califfo non è
altro che un “vicario” – questo è uno dei significati etimologici
originali del termine – del Profeta. Si narra addirittura che i primi
califfi si considerassero parte di una successione, che li vedeva
progressivamente allontanarsi dalla nucleo originario del potere,
costituito dalla profezia: così solo il primo califfo poteva dirsi a
ragione “vicario del Profeta”, mentre i califfi successivi erano “vicari
di vicari”, secondo un andamento iperbolico. È anche vero che i primi
quattro califfi secondo la tradizione sunnita – l’ultimo, Ali, cugino e
genero del Profeta, è quello che per gli sciiti è il primo imam – furono scelti direttamente dalla umma, la comunità dei fedeli: essi sono definiti perciò i califfi al rashidun
(ben guidati). Solo in seguito sarebbe subentrato nel califfato un
principio ereditario, proseguito fino alla deposizione dell’ultimo
sultano ottomano da parte di Atatürk nel 1924. L’elettività e la non
ereditarietà in linea di principio del califfo sembrerebbero porre i
germi di una concezione “democratica” di potere; resta il fatto che il
governo resta privo di contrappesi definiti e stabili, non essendo la umma un’assemblea permanente e dotata di poteri specifici. È sintomatico il fatto che il termine majlis
(assemblea) abbia potuto indicare, ancora in età moderna, tanto un
“consiglio” di ministri sottoposti all’autorità del monarca, quanto un
“parlamento” propriamente detto. Inoltre, l’autorità del califfo su
tutto il mondo islamico è stata fin dai primi secoli più nominale che
reale: diverse spinte locali – nazionali, linguistiche, dinastiche e
religiose – hanno determinato la frantumazione del mondo islamico in una
miriade di stati.
Una breve considerazione sui titoli assunti da questi principi locali
– i quali in alcuni casi come il Marocco hanno fondato autentiche
realtà politiche nazionali, vecchie ormai di diversi secoli – può
aiutarci a capire meglio la natura del potere nel mondo islamico. In
alcuni casi, come si è detto, in queste realtà è riemerso il “linguaggio
della regalità”; in altri casi, come in Marocco, il titolo di re è
stato ripristinato solo in epoca moderna, quando si è reso necessario
confrontarsi da pari con i sovrani europei. L’araldica privilegiata da
questi governanti, come pure in via accessoria dai loro omologhi
ottomani, persiani e indiani, si riferiva prima solitamente a titoli
come “sultano” ed “emiro”, entrati da tempo anche nelle lingue europee
per designare i principi musulmani. Questi titoli conservano una indistinzione di fondo tra l’esercizio del potere politico e l’esercizio di un potere militare o amministrativo.
Il sultano, termine che deriva da una parola araba che significa
“forza”, è originariamente un comandante militare o un governatore di
provincia; in questa accezione il titolo è riesumato nella Persia
safavide, dove gli ufficiali di rango intermedio e i governatori dei
distretti locali sono definiti “sultani”. Nell’India moghul il titolo
era riservato ai signori dei principati locali, accanto a una miriade di
altri titoli, in una logica di parziale autonomia dei potentati locali
dal potere centrale; tuttora nella Penisola arabica molti sovrani di
piccoli stati usano questo titolo. Nell’Impero ottomano, il cui sovrano è
da noi europei spesso definito “sultano”, il titolo era in realtà
riferito soprattutto ai figli del regnante, accanto al titolo di
principe (shahzadeh).
Considerazione analoga può essere fatta per il titolo di emiro. Amir
può essere reso tanto con “comandante” quanto con “principe” (nel senso
di signore di un territorio). Lo sceicco della tribù araba stanziatasi
nella provincia dell’Impero persiano chiamata all’epoca non a caso Arabistan-e Fars
(Arabia persiana), oggi meglio conosciuta come Khuzestan, riesce alla
fine del XIX secolo ad affermare la sua potenza e la sua autonomia dal
governo centrale facendosi conferire, oltre all’incarico di governatore
ufficiale della provincia, il titolo personale di “emiro di Mohammerah”,
dal nome della città dove risiede. Pur non essendo califfi, vale a dire
guide dell’intera comunità islamica, i sovrani degli stati musulmani si
attribuiscono spesso il titolo di amir-ul mu’minin, “principe”
o “comandante dei credenti”, con il quale hanno autorità anche in
materia religiosa sui sudditi del proprio regno. Nella tradizione di
corte persiana, dove per lungo tempo si è conservata una distinzione tra
gli “uomini di penna” e gli “uomini di spada” al servizio dello scià,
con un maggior prestigio dei secondi sui primi, per sottolineare la
superiorità del primo ministro sugli altri funzionari, burocrati e
dignitari di corte, gli si conferiva normalmente un titolo che gli
attribuiva un potere di tipo militare, un vero e proprio “comando”. Così
il primo ministro è solitamente nominato sadr- o atabek-e azam (comandante
supremo) e in casi di particolare favore dello scià – come per il primo
ministro riformista, vissuto nel XIX secolo, Mirza Taghi Khan Farahani –
gli si riconosce il titolo di amir kabir (grande principe o comandante). Lo stesso titolo persiano di mirza,
che possiamo rendere con “gentiluomo”, riservato, messo prima del nome
proprio, alle persone istruite e in particolare ai dignitari di corte e
ai funzionari pubblici o, messo dopo il nome proprio, ai principi del
sangue, sarebbe la deformazione di amirzadeh (figlio o discendente dell’emiro).
La concezione del potere nell’Islam, anche nella versione più vicina
al dettato coranico di rifiutare l’idea di regalità, non romperebbe
pertanto con una concezione secondo cui il governo equivarrebbe
all’esercizio di un comando militare. È una concezione talmente radicata
nel pensiero politico islamico, al punto non solo di ritornare nel
linguaggio del governo in senso stretto, ma di rientrare anche in una
concezione del prestigio sociale, che lega tutti coloro i quali traggono
la loro autorevolezza dalla partecipazione all’amministrazione della
cosa pubblica all’idea di una vicinanza al potere delle armi e della
forza. In un articolo scritto per il numero 1108 di Internazionale, la scrittrice turca Elif Shafak ricorda che la parola d’origine araba siyasat,
che in turco vuol dire tuttora “politica”, ha originariamente il
significato di “arte di addestrare i cavalli”: è il governo, nel senso
foucacultiano dell’esercizio di un controllo e dell’imposizione di una
disciplina. Nello stesso articolo Shafak fa notare come la concezione
politica turca – diremmo mediorientale e islamica in genere – resta
profondamente segnata dall’idea patriarcale del “governo del padre”. Non
solo Mustafa Kemal si proclama atatürk (“padre dei turchi” o “grande turco”), ma anche il capo rivoluzionario curdo Öcalan è popolarmente noto come “zio” (apu), mentre titoli come “sceicco” (shaykh),
che significa letteralmente “anziano”, restano a metà strada tra un
significato religioso (il capo di una comunità) e quello politico (il
capo di una tribù), legando comunque l’idea di autorità a quella del
prestigio dato dall’anzianità.
Il dispositivo di potere che regola le società in questione unisce il
riferimento alla dimensione militare e quello alla dimensione
patriarcale della vita associata: la società è concepita come una grande
famiglia in armi, al cui capo sta l’anziano padre e comandante del
gruppo. È soprattutto la dimensione militare a costituire uno strumento
di esercizio non democratico del potere, perché amplifica questa visione
tradizionalista e la proietta in una gerarchia organizzata, che può
operare in modo oppressivo nei confronti della popolazione. Questo dato
sembra chiarire perché nella storia di molti paesi islamici accada che
una minoranza ben organizzata dal punto di vista miliare possa arrivare a
conquistare il potere, anche opprimendo la maggioranza: è il caso della
casta dei mamelucchi in Egitto fino alla fine del XVIII secolo; è il
caso della confraternita dei qizilbash e poi di un gran numero
di tribù turcomanne, curde e turche in Persia a partire dalla
riunificazione nel XVI secolo fino alla modernizzazione avviata nel XX; è
più recentemente il caso del clan Assad e della minoranza alauita in
Siria, o della dinasta sunnita Al Khalifa che governa in Bahrein, un
piccolo stato a maggioranza ismailita (sciita).
I critici e i teorici che invocano, non ultime per ragioni di ordine
politico, l’avvio di un deciso processo di secolarizzazione dei paesi
islamici rischiano di ignorare un punto. La struttura del potere, per
come si è consolidata nel mondo islamico, non rimanda a precisi dettami
dottrinari rintracciabili nel Corano. Né si può dire che l’Islam abbia
conosciuto una sacralizzazione dell’istituto monarchico paragonabile a
quella elaborata in Europa a partire dal Medioevo fino alla Rivoluzione
francese. Il potere nel mondo islamico è innanzitutto l’esercizio della
forza: esso è oggetto di realismo politico ben prima che in Europa
questa categoria fosse definita. E tuttavia manca la capacità di
innestare in questo contesto un discorso critico sul potere come tale,
capace di fare appello non solo a istanze ideali laiche – i diritti
umani, la democrazia etc. – ma anche di immaginare un esercizio del
potere pensato secondo criteri operativamente democratici: divisione dei
poteri, sottomissione dei governanti alla legge etc. Storicamente una
funzione di controllo e di contenimento del potere politico, pensato
soprattutto come potere militare, è stata esercitata proprio dalle
autorità religiose, che agivano richiamandosi ai princìpi coranici. E
tuttavia questa forma di critica del potere non è mai arrivata a
metterne in discussione la natura, nemmeno quando, ad esempio con la
Rivoluzione iraniana, i religiosi sono andati al potere: essi hanno
ristabilito un’autorità basata sulle gerarchie, sull’uso della forza e
sul rispetto patriarcale dei potenti, tanto che i giovani dell’Onda
verde iraniana nel 2009 non hanno esitato durante le manifestazioni ad
apostrofare la Guida suprema della Rivoluzione, l’ayatollah Khamenei,
con il titolo infamante di “scià”.
Quando parliamo di secolarizzazione dell’Islam, dovremmo forse tenere
a mente che questa sul piano politico impegnerebbe non solo a una
critica dei testi e delle fonti di una presunta “teologia politica”
islamica, ma più nel profondo a una critica delle forme del potere, così
come una tradizione millenaria le ha consolidate nella storia e nella
pratica dei governi islamici.
Dario Cecchi svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di
Filosofia della Sapienza Università di Roma. Ha conseguito il dottorato
di ricerca in Filosofia (Estetica ed Etica) presso l’Università di
Bologna e ha svolto attività di ricerca postdottorali presso l’EHESS
(Parigi). Ha tradotto testi di Hannah Arendt e John Dewey. Tra le sue
pubblicazioni in volume ricordiamo Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini (Usher 2011, curato insieme a Daniele Guastini e Alessandra Campo) e Abbas Kiarostami. Immaginare la vita (Fondazione Ente dello Spettacolo 2013).
Fonte: MicroMega online - Il rasoio di Occam
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