La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 1 agosto 2015

Germania e neoliberismo, la ridefinizione antidemocratica

di Tommaso Nencioni
I recenti svi­luppi della crisi greca hanno avuto se non altro la virtù di met­tere a nudo pro­cessi di gerar­chiz­za­zione con­ti­nen­tale in atto da circa un ventennio.
Il popolo greco, sot­to­po­sto a un vio­lento stress test da parte della catena di comando del capi­ta­li­smo reale, avrebbe fatto volen­tieri a meno di pre­starsi a que­sta fun­zione di disve­la­mento — in greco antico ale­theia, «verità». Ma tant’è, e con que­sto sce­na­rio disve­lato biso­gna impa­rare a fare i conti, anche per­ché la lezione impar­tita al popolo greco e alle sue rap­pre­sen­tanze demo­cra­ti­che risuona come un de te fabula nar­ra­tur per tutti gli altri anelli deboli dell’eurozona.
Ben assisa al cen­tro nodale del pro­cesso gerar­chico di costru­zione euro­pea sta la Ger­ma­nia. La que­stione tede­sca, più che la que­stione greca, è la que­stione euro­pea per eccel­lenza. Bene ha fatto Alberto Bur­gio su il mani­fe­sto (24 luglio) ad ammo­nire con­tro il rischio che la con­tesa con­ti­nen­tale si spo­sti sul ter­reno del revan­chi­smo nazio­nale, un ter­reno in cui ad incro­ciare le spade sareb­bero ine­vi­ta­bil­mente gli oppo­sti luo­ghi comuni (bril­lan­te­mente ribal­tati da Piero Bevi­lac­qua su que­ste stesse colonne) sulle «cicale» e le «formiche».
Sarebbe que­sta una maniera di elu­dere l’attenzione nei con­fronti delle dina­mi­che pro­fonde del pro­cesso di gerar­chiz­za­zione in corso: una distra­zione fun­zio­nale sol­tanto a gruppi diri­genti tra­di­zio­nali boc­cheg­gianti in ter­mini di legit­ti­mità sul ter­reno nazio­nale. E tut­ta­via, pur rico­no­scendo che la Ger­ma­nia non è sola in que­sta ope­ra­zione di ride­fi­ni­zione anti­de­mo­cra­tica della catena di comando euro­pea, ma che anzi attorno a lei si è cemen­tato un blocco di paesi minori ancor più intran­si­genti; e pur tenendo nella dovuta con­si­de­ra­zione il carat­tere a-territoriale delle isti­tu­zioni incar­nate sotto le inse­gne della troika; nono­stante tutto ciò, che sul tap­peto pesi una enorme que­stione tede­sca non lo si può certo negare in nome di una ras­si­cu­rante nar­ra­zione irenica.
Per salde ragioni sto­ri­che, non certo gene­ti­che o carat­te­riali, la Ger­ma­nia è diven­tata da metà dell’800 in poi un ele­mento di per sé ever­sivo della sta­bi­lità europea.
Dal lungo evo delle guerre euro­pee, l’area geo­gra­fica che venne con­fi­gu­ran­dosi come «Ger­ma­nia» ere­ditò un impo­nente pro­cesso di inno­va­zione indu­striale (e mili­tare). Ma que­sto enorme poten­ziale di svi­luppo si trovò ad insi­stere su un ter­ri­to­rio angu­sto, privo di sboc­chi impe­riali «paci­fici». In larga misura domi­nati i mari dall’impero bri­tan­nico, al Reich era impe­dita anche una solu­zione impe­riale «ter­ri­to­riale» sul modello degli Stati Uniti (Gio­vanni Arrighi).
Con la scon­fitta nella prima guerra mon­diale, la Ger­ma­nia dovette rinun­ciare defi­ni­ti­va­mente a un esito impe­riale di tipo «bri­tan­nico»; con la scon­fitta nella seconda, si rivelò impos­si­bile anche un esito «sta­tu­ni­tense», nono­stante la fero­cia river­sata sulla «fron­tiera» est-europea (Leben­sraum), con le popo­la­zioni slave (Unter­men­schen) nel ruolo che altrove fu degli indiani. Le suc­ces­sive pro­spet­tive di pace si basa­rono per­tanto sullo smem­bra­mento dello spa­zio sta­tale unico tedesco.
La guerra fredda, prima che gli esiti del pro­cesso di de-colonizzazione ne san­cis­sero il carat­tere glo­bale, fu innan­zi­tutto e soprat­tutto una rispo­sta alla que­stione tedesca.
Così come lo furono i primi ten­ta­tivi «atlan­tici» di inte­gra­zione euro­pea. Con le Ceca (la comu­nità del car­bone e dell’acciaio, ndr) si tentò di met­tere sotto comune con­trollo la pro­du­zione side­rur­gica e car­bo­ni­fera (indu­strie bel­li­che per eccel­lenza), con la fal­lita Ced e con la Ueo fu invece la volta dei ten­ta­tivi di inte­grare i sistemi poli­tici e di difesa. Se non è pos­si­bile impe­dire un re-ingresso tede­sco nel con­sesso delle nazioni, si pensò, che que­sto avvenga in maniera nego­ziata e con­sor­ziata con le altre potenze occi­den­tali. Tanto più che c’era lo spau­rac­chio sovie­tico a cui tenere testa.
Fu solo con la disten­sione che i pro­getti di inte­gra­zione mili­tare furono sop­pian­tati da quelli eco­no­mici. I trat­tati di Roma del ’57 det­tero il via alla Comu­nità eco­no­mica euro­pea, un mer­cato unico al cui interno l’economia tede­sca, nel bel mezzo di un’accentuata sta­gione di cre­scita eco­no­mica, era desti­nata ad un ruolo pre­mi­nente, ma che si pen­sava potesse essere bilan­ciato e «messo al ser­vi­zio» di una inte­gra­zione anche poli­tica, alla lunga bene­fica per tutti.
Tanto più che, di lì a poco, con la lunga ege­mo­nia della Spd nei governi di Bonn, pro­prio dalla Ger­ma­nia venne la più arti­co­lata pro­po­sta di solu­zione paci­fica della que­stione euro­pea (e tede­sca): quella Ost­po­li­tik lan­ciata da Willy Brandt, che tra l’altro (e non a caso) costi­tuì lo sce­na­rio all’interno del quale anche il comu­ni­smo ita­liano si con­vertì all’europeismo.
Ma all’appuntamento con la riu­ni­fi­ca­zione tede­sca, l’evento che sta più di ogni altro alla base della suc­ces­siva spinta alla defi­ni­tiva inte­gra­zione euro­pea ed al suo incon­trol­lato allar­ga­mento, si giunse in piena sta­gione di riscossa neo-conservatrice; per cui la stra­te­gia della Ost­po­li­tik fu sosti­tuita da quella dell’Anschluss (Vla­di­miro Giac­ché), river­sando sui ter­ri­tori e sull’apparato pro­dut­tivo dell’ex Ger­ma­nia demo­cra­tica una foga neo-liberista nella cui fili­grana pos­siamo leg­gere un modello per la suc­ces­siva costru­zione dell’Europa gerarchica.
Fran­cesi, ita­liani ed altri soci comu­ni­tari spin­sero la neo­nata Ger­ma­nia unita ad accet­tare l’euro in cam­bio della bene­di­zione all’unificazione, e lascia­rono che l’euro stesso fosse pla­smato ad imma­gine e somi­glianza del marco. Un «vin­colo esterno» cui i gruppi diri­genti dei paesi medi­ter­ra­nei si aggrap­pa­rono, intro­iet­tando la reto­rica sulla «inaf­fi­da­bi­lità» dei pro­pri popoli, in realtà favo­rendo l’attuale deserto pro­dut­tivo in un clima di com­pleta afa­sia democratica.
Ora nel seno stesso della metro­poli si levano voci pre­oc­cu­pate sulla pro­gres­siva espan­sione di sen­ti­menti anti-tedeschi nelle peri­fe­rie euro­pee. Ed è cer­ta­mente posi­tivo che nei Land più col­piti dagli effetti dell’unificazione neo-liberista un par­tito popo­lare e di sini­stra come la Linke si fac­cia mega­fono del mal­con­tento e stru­mento di riscossa politica.
Ma per sman­tel­lare l’Europa gerar­chica, in favore della costru­zione di un’Europa demo­cra­tica, sono chia­mati ad agire in prima per­sona i popoli delle peri­fe­rie dell’eurozona, attra­verso la messa in campo di pro­getti poli­tici ed ipo­tesi di rico­stru­zione eco­no­mica net­ta­mente alter­na­tivi a quelli dell’ordoliberismo tede­sco. Una sfida di lungo periodo, che passa per vie non facili, e che tut­ta­via pare l’unica pos­si­bi­lità di rilan­cio di un’idea demo­cra­tica capace di reci­dere le maglie del recinto gerar­chico dell’Europa tedesca.

Fonte: il manifesto

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