di Manuela Manara
Molte questioni legate
all’assetto sociale sono collegate dai più all’etichetta 'femminismo',
usata come spauracchio e quasi offesa in ammiccanti battutine fintamente
ironiche, invece che come punto di riferimento storico fondamentale e
prestigioso. Mi chiedo se, a decretare questo insuccesso, non abbia
contribuito anche il suffisso –ismo, che lo definisce più come
corrente di pensiero che come movimento di lotta, e se la parola avrebbe
avuto un trattamento diverso con un’uscita in –enza, come resistenza.
Assisto
a incontri, convegni, giornate di studio: di fronte ai dati offerti su
slide frettolose come su vassoi d’argento mal lucidati e a relazioni
che, senza i microfoni, sarebbero poco più che solite chiacchiere tra
amiche, a colpirmi è l’incapacità, o la non volontà, di focalizzarsi su
alcuni snodi oggi fondamentali.
È
necessario valorizzare le differenze tra le persone, più che tra i
sessi. C’è una tendenza a 'genderizzare' tutto e tutti: ci si sforza di
ritagliare ed esaltare a tutti i costi la specificità femminile.
Le
argomentazioni che vogliono mettere in luce le buone pratiche portate
avanti dalle donne (da tutte?) rischiano di assumere i toni di una
giustificazione della presenza femminile (“è una donna, ma lavora bene”)
e tendono a inserire le persone all’interno di giochi di forza
conflittuali (“è una donna, ma lavora meglio di un uomo”). Imperniare
un’argomentazione sull’asse oppositivo maschio-femmina, su cosa una fa
meglio dell’altro, su quali sono le caratteristiche dell’uno rispetto
all’altra, significa rafforzare ancora di più gli stereotipi, o
abbattere quelli tradizionali per crearne di nuovi. Invece: quale modo
migliore per contrastare la stereotipizzazione dei generi che smettere
di leggere il mondo in un’ottica dicotomica e considerare le persone
nella loro singolare differenza?
È
necessario sovvertire il paradigma dominante. La stragrande maggioranza
delle donne per raggiungere posizioni apicali rinuncia
(consapevolmente?) al proprio sé e alla propria voce scomparendo dietro a
una pseudo neutralità (maschile) e omologandosi ai desideri e alle
richieste dell’establishment culturale. Ma c’è una sottomissione al
sistema ancora più ancestrale. Nel percorso formativo e lavorativo di
ciascuna/o si pone a un certo punto la scelta di come gestire il tempo
della famiglia e il tempo del lavoro. Se la società in questi ultimi
cento anni è profondamente cambiata, non è cambiata di molto invece
l’organizzazione degli spazi e dei tempi lavorativi extradomestici:
questi sono ancora improntati a una netta divisione dei compiti, tale
per cui la persona che gestisce gli affetti non deve essere la stessa
che intraprende un percorso professionale retribuito. È proprio qui,
nell’accettare la partizione netta e dicotomica tra professione da un
lato e cura dall’altro, che si stringe un patto di fedeltà al sistema
così tanto radicato nella nostra storia da parere 'naturale' e dunque
non modificabile. Sovvertire il paradigma dominante significa:
riconoscere l’importanza del tempo gli affetti; riconoscere, anche da un
punto di vista economico, il ruolo, fondamentale per la società, di family caregiver;
conciliare i tempi famiglia-lavoro in modo che la cura degli affetti
non implichi la rinuncia al lavoro extradomestico o alla carriera.
Dobbiamo uscire da questa ottica oppositiva e dicotomica tipica
dell’attuale sistema dominante che impone un aut aut tra
cura/famiglia/affetti da un lato e carriera dall’altro; e si deve
superare l’idea che questo sia un problema delle donne: se oggi, ad
esempio, la maternità mette a rischio la carriera - e, prima ancora,
l’accesso a un lavoro retribuito - la carriera sottrae agli uomini la
paternità.
È
necessaria la partecipazione degli uomini. Anche gli uomini sono
condizionati da forti stereotipi, con cui non hanno ancora fatto
pienamente i conti (interessante la differenza semantica e storica tra i
termini maschilismo e femminismo): ad esempio, a loro la tradizione
nega la possibilità di vivere appieno, e manifestare, affetti e certe
emozioni. Consideriamo, poi, la nascita di un/a figlio/a. Il discorso
riguarda in primis le donne che, fisiologicamente, vivono la gravidanza,
la nascita, la maternità, l’allattamento - e per ognuno di questi punti
sarebbe interessante interrogarsi sul modello imposto: la maternità è
spesso presentata come un problema sotto molti punti di vista: da quello
estetico a quello economico. Il discorso, però, riguarda anche, e
profondamente, gli uomini che hanno gli stessi diritti, oltre che
doveri, delle donne nell’accudire, educare, stare con i propri figli e
le proprie figlie; hanno il diritto, oggi negato o difficilmente goduto,
di vivere la felicità degli affetti. Quanti uomini, e donne, però, si
accorgono di essere discriminati da questo punto di vista? Quanti di
loro lottano per ottenere più tempo da trascorrere con la famiglia e gli
affetti?
È
necessario non vergognarsi di essere quel che si è. Quando le donne
arrivano a occupare una posizione apicale spesso ribadiscono anche
attraverso il linguaggio la loro fedeltà al sistema, ad esempio
ricorrendo al cosiddetto 'maschile neutro', che le dovrebbe mettere al
riparo da critiche sessiste preservando al contempo l’autorità legata
alla carica finalmente raggiunta. Tanto più in alto e prestigiose sono
le cariche raggiunte, tanto più facilmente scompaiono i nomi declinati
al femminile. Nonostante alcuni buoni esempi
e le parole spese a favore di un uso corretto della grammatica italiana
da parte dell’Accademia della Crusca, è ancora raro trovare nei
documenti burocratici, nei giornali, in televisione il ricorso a un
linguaggio di genere corretto. Esplicitare la presenza di uomini e donne
nei vari settori professionali, parlare a tutte e tutti, fare
attenzione a un linguaggio rispettoso delle differenze è una scelta che
va al di là della auspicabile correttezza grammaticale: è una scelta
politica con la quale si intende ribadire (o creare) un modello
paritario rispettoso delle differenze e un immaginario non
discriminatorio che non è ancora, purtroppo, scontato.
Alcune
discriminazioni sono lampanti, altre – le più difficili da estirpare –
sono subdole, corrono nei sottotesti, nelle pieghe delle vesti, nei
sussurri biascicati, nelle banalizzazioni e nei modi di dire, nelle
narrazioni. La libertà di scelta è in molti casi solo apparenza e al
discorso imperante soggiace un non detto che è 'naturalmente', e per
questo più pericolosamente, accettato. Tutte e tutti dobbiamo costruire
nuove storie e modelli di organizzazione del tempo, dello spazio, del
lavoro e degli affetti.
Fonte: ingenere.it
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