La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 luglio 2015

Il nazionalismo, l'Europa e la sua disintegrazione

di Piero Bevilacqua
Nata per scon­giu­rare i nazio­na­li­smi che ave­vano deva­stato il Vec­chio Con­ti­nente e il mondo nella prima metà del ’900, l’Ue ritorna sui suoi passi.
Torna ad ali­men­tarli con rin­no­vato vigore. E lo fa per ini­zia­tiva del paese che avviò, ogni volta, la car­ne­fi­cina: la Ger­ma­nia. Oggi il nuovo nazio­na­li­smo ege­mo­nico tede­sco pos­siede tutti i pre­sup­po­sti per durare ed espandersi.
L’Unione tutte le con­di­zioni mate­riali e poli­ti­che per disin­te­grarsi. Come tutti i vedenti hanno potuto osser­vare, la vicenda greca l’ha mostrato in maniera esemplare.
Alla base dell’egoismo nazio­na­li­stico tede­sco, ben orche­strata dai media, opera infatti una nar­ra­zione ideo­lo­gica potente: la leg­genda che la Ger­ma­nia, seria e labo­riosa, stia a sve­narsi per soste­nere una vasta pla­tea di popoli debosciati.
Sap­piamo che l’opinione pub­blica tede­sca è una delle più colte, se non la più colta, d’Europa. Ma nella patria di Lutero il mes­sag­gio di una nazione del Nord, labo­riosa e rispar­mia­trice, che si con­trap­pone ai popoli del Sud, oziosi e dis­si­pa­tori ha una capa­cità di presa dif­fi­cil­mente resistibile.
Tanto più che in soc­corso di tale con­vin­zione viene una serie di ste­reo­tipi lunga diversi decenni, una Grande Reto­rica, che divide il Nord ed il Sud in due sfere sepa­rate dello spi­rito umano. E a ren­dere mate­ria di senso comune tale divi­sione con­tri­bui­sce anche il lin­guag­gio popo­lare, che separa i popoli in cicale e formiche.
Antica meta­fora del regno ani­male nobi­li­tata dalla let­te­ra­tura del mondo clas­sico. Chi non cono­sce la favola di Esopo, tra­dotta da Fedro nel suo ele­gante e musi­cale latino? «Olim cicada in fron­dosa silva canebat/ labo­riosa for­mica autem assi­due labo­ra­bat». Non è neces­sa­rio tradurre.
Ora, que­sta favola, com­pren­si­bile in un’epoca che doveva ancora costruire la sua etica del lavoro, si fonda su una serie inte­res­sante di errate cono­scenze. E soprat­tutto con­densa oggi la meta­fora di un capi­ta­li­smo che ha smar­rito ogni senso e pro­getto e corre verso la pro­pria autodistruzione.
Già a suo tempo Gianni Rodari, poeta di genio, non aveva ceduto all’autorità degli anti­chi: «Chiedo scusa alla favola antica/se non mi piace l’avara formica./Io sto dalla parte della cicala/che il più bel canto non vende, regala». Ma oggi noi pos­siamo aggiun­gere che la favola non è più pro­po­ni­bile innanzi tutto sul piano biologico.
Le ope­rose for­mi­che, e soprat­tutto le ope­raie e i maschi fecon­da­tori, vivono pochi mesi.
Le cicale hanno un ciclo più com­plesso e pos­sono vivere 4–5 anni, nel ter­reno, allo stato di larve, prima di met­tere le ali. La cicala nord ame­ri­cana – ci infor­mano gli ento­mo­logi — può supe­rare i 15 anni di vita.
Anni pas­sati sugli alberi, non a rac­cat­tare cibo da accu­mu­lare nelle tane come accade alle for­mi­che. I maschi e le ope­raie, i lavo­ra­tori alla base della pira­mide del for­mi­caio, non godono gran che dei beni accu­mu­lati durante i lavori dell’estate.
Pro­prio come tanti ope­rai poveri delle società avan­zate di oggi. Tanto lavoro, poco red­dito. D’inverno, in genere, muo­iono. Occorre aggiun­gere che le for­mi­che, impe­gnate tutto il tempo della loro breve esi­stenza in lavori fati­co­sis­simi, sono inqua­drate in una società gerar­chica e castale, una caserma piena di sol­dati, sem­pre alla ricerca di beni e di prede, una monar­chia asso­luta in cui comanda una dispo­tica regina.
Le cicale, all’ombra di ulivi o di pini – i loro alberi pre­fe­riti — riem­piono del loro incanto il cielo dell’estate, per il puro pia­cere del can­tare, senza alcuna fina­lità uti­li­ta­ria. Offrono gra­tui­ta­mente, a tutti gli altri viventi e per­fino agli uomini, il dono della loro musica che nasce da luo­ghi invi­si­bili, fanno sen­tire anche noi par­te­cipi, se sap­piamo ascol­tare, della miste­riosa ven­tura che è la vita sulla Terra.
Per­ché dovremmo pre­fe­rire la for­mica alla cicala? Il senso della favola antica va rove­sciato. Il male non tanto oscuro del capi­ta­li­smo dei nostri anni è che esso vuole imporre a tutte le società il modello sociale del for­mi­caio, quando abbiamo risorse per vivere, tutti, da cicale.
Il modello di vita più avan­zato, carico di futuro, è quello di que­sto insetto can­tore, che lavora sem­pre meno, è libero di eser­ci­tare i suoi talenti crea­tivi, non è divo­rato dalla feb­bre usu­raia dell’accumulazione e del risparmio.
Que­ste virtù del capi­ta­li­smo delle ori­gini, così ben inter­pre­tate dall’ordoliberismo tede­sco, sono adatte per una società che guarda al pas­sato, ancora pri­gio­niera di paure di un mondo di scar­sità che non c’è più, che non ha più nulla di affa­sci­nante da pro­porre alle gene­ra­zioni venture.

Fonte: il manifesto

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