di Francesca Lacaita
A partire dal
referendum del 5 luglio, il governo greco pare aver sconcertato parecchi
dei suoi (ex?) sostenitori in questo paese. Innanzitutto quei no-euro
di ogni colore che hanno scoperto, alquanto tardivamente, che il
referendum non contemplava l’uscita dalla moneta unica. Per
continuare con quanti hanno preso le distanze da Tsipras durante e dopo
le trattative con i leader dell’Eurozona concluse con un Accordo la
notte tra il 12 e il 13 luglio.
Il dissenso italiano è stato in
realtà di rado espresso in termini espliciti; perlopiù ha preso la
forma di stentoree dichiarazioni sull’irriformabilità della UE, sulla
necessità di farla finita con l’euro e con le “illusioni europeiste”,
sul valore della dimensione nazionale quale unico locus di
legittimazione democratica, sulla rilevanza delle “inclinazioni” e dei
“caratteri” nazionali, e tanto altro ancora. Il contrasto non potrebbe
essere più netto: in Grecia un governo e un popolo hanno lottato fino in
fondo per affermare la propria volontà di rimanere nell’euro e nella UE
(smentendo le distorsioni e false rappresentazioni nei media mainstream)
e al tempo stesso per cambiare radicalmente le regole del gioco,
partendo dalle condizioni e dai bisogni di larghi strati della
popolazione, rigettando le politiche di austerità, e sfidando il “senso
comune” UE con un referendum che, in ogni caso, ha voluto mostrare che
“stare in Europa” non significa affatto rinunciare all’espressione della
volontà popolare.
In Italia l’europeismo è chiaramente sulla
difensiva, con due partiti euroscettici antieuro e anti-immigrati in
ascesa o forti di robuste percentuali di consenso elettorale, con un
governo stretto tra adesione conformista alle politiche dominanti e
velleità verbali di rivincita, e con una percentuale di italiani che
considerano la moneta unica un male persino più alta che nei paesi
colpiti dai programmi di austerità delle istituzioni europee, Grecia inclusa.
Lì una sinistra che pur nella sconfitta sa indicare obiettivi significativi per l’Europa intera, o indicare puntualmente lo scarto fra la UE “reale” e l’Europa federale,
negando alla prima ogni pretesa normativa proprio nel richiamo alla
seconda. Qui una sinistra che si crogiola nella riscoperta
dell’antieuropeismo e della dimensione nazionale, poco preoccupata di
prendere iniziative o formulare propositi di portata europea, poco
preoccupata persino di differenziarsi discorsivamente dal populismo
antieuropeo dominante. Fino a giungere al colmo di un Fassina che dà ragione a Schäuble:
la soluzione era appunto una “Grexit controllata”. “Il governo greco
doveva prenderla”, ammonisce Fassina. Ma come, direbbe qualcuno, la
Grexit non è proprio ciò che governo e popolo greco non vogliono e
contro cui si sono battuti? Pazienza: quando si mettono al centro della
politica i fondamenti del discorso nazionalista, cioè “i caratteri
profondi, morali e culturali, dei popoli, e gli interessi nazionali
degli Stati” (ancora Fassina), l’autodeterminazione dei popoli, specie
degli altri popoli, specie dei piccoli popoli, va
notoriamente a farsi friggere. Il contrasto fra sinistra greca e
sinistra italiana non potrebbe essere più impietoso.
E pensare
che fino a pochi anni fa il richiamo all’“Europa” faceva parte del
comune sentire di questo paese, al di là delle differenze ideologiche,
politiche, culturali. Ricordate come durante il primo governo Prodi gli
italiani accettarono di buon grado il “Contributo straordinario per
l’Europa”, che doveva consentire ai conti pubblici italiani di rientrare
nei parametri di Maastricht, e quindi l’ingresso dell’Italia nella
moneta unica? Da allora sono cambiate molte cose, ma si può individuare
qualche elemento che dia conto di questo passaggio apparentemente così
drastico, in particolare in Italia, dal consenso europeista al
ripiegamento nazionale, nonché delle continuità esistenti – ed
inquietanti – tra una fase e l’altra?
***
Il federalismo
europeo contemporaneo ha origine com’è noto nella lotta antifascista e
nella Resistenza, e per alcuni aspetti, ancor prima, nell’opposizione
alla Grande Guerra e agli assetti infra e interstatali da essa prodotti.
Politicamente faceva riferimento a uno spettro più limitato rispetto
all’europeismo del periodo tra le due guerre (non è presente ad esempio
quell’europeismo reazionario che sarebbe intellettualmente sopravvissuto
ancora qualche decennio, specie nella Spagna franchista), ma che,
andando dai liberali alla sinistra non comunista attraverso il
cattolicesimo democratico, era ben rappresentativo del mainstream
del secondo dopoguerra. Certamente il contesto della Guerra Fredda fece
perdere la tensione rivoluzionaria che si riscontra nel Manifesto di
Ventotene o nel Programma di Hertenstein.
Tuttavia
i primi passi dell’integrazione europea costituirono nelle intenzioni
dei suoi promotori una “rivoluzione” nelle relazioni internazionali,
anche se le realizzazioni concrete furono sempre condizionate o volute
in primo luogo dagli stati nazionali (ad esempio l’adozione di un
approccio funzionalista in luogo della costituzione federalista
auspicata da Altiero Spinelli). L’integrazione non andava comunque solo
nella direzione del mercato unico, ma comportava anche le prime forme
embrionali di cittadinanza europea, promosse in particolare dai politici
italiani e rese possibili proprio da una visione europeista di ampio
respiro e slancio progettuale[i].
In ogni caso, nel “Trentennio Glorioso” l’“Europa” non venne percepita
come un ostacolo alle politiche keynesiane e redistributive dello stato
sociale. Di fatto, secondo Cantaro e Losurdo, ciò non era casuale:
È noto che i Trattati istitutivi fossero sostanzialmente poveri di
riferimenti sociali. Ma proprio questa scelta formalmente
“astensionistica” era materialmente funzionale alla difesa dei welfare
nazionali e, quindi, al perpetuarsi dell’eccezionalismo europeo.
L’idea dei padri fondatori della Comunità era, infatti, che le nuove
istituzioni sovranazionali avrebbero dovuto preservare intatte le
dinamiche di funzionamento dei sistemi sociali nazionali. Che andasse,
insomma, mantenuta in capo alle istituzioni democratiche degli Stati
membri una piena sovranità sociale.
“Smith all’estero, Keynes in patria” […]. La costituzione europea come costituzione duale. La costituzione sociale sotto il dominio della discrezionalità dei legislatori degli Stati membri. La costituzione economica sotto il dominio della normativa e della giurisprudenza sovranazionale. La prima, quella interna, una costituzione politica. La seconda, quella comunitaria, una costituzione apolitica.
In Italia i movimenti eurofederalisti ebbero un ruolo fondamentale
nella formazione di un orientamento europeo nell’opinione pubblica,
specie nelle giovani generazioni e sapevano suscitare entusiasmi. La
mobilitazione popolare doveva premere per un’evoluzione istituzionale
dell’integrazione europea, contando su una sostanziale convergenza delle
forze politiche favorevoli a una progressiva integrazione.
Invero nella visione europeista mainstream
l’evoluzione verso la federazione (democratica per definizione)
prescinde dalla dimensione destra-sinistra e va perseguita da una parte
influenzando i decisori e dall’altra cogliendo tutte le opportunità che
via via si presentano, soprattutto nella misura in cui vengono limitate
le sovranità nazionali e rafforzati gli organismi comunitari; il
compimento della federazione porterà con sé la democrazia a livello
sovrannazionale. Tale approccio sarebbe stato tuttavia oggettivamente
spiazzato dal corso che prese il processo di integrazione europea tra la
fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.
L’Atto
Unico Europeo del 1986, il Trattato di Maastricht del 1992, così come
gli indirizzi politici generali da quegli anni a questa parte e la
stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea vi
imprimono una torsione strutturalmente neoliberista, in quanto
pongono in primo piano una “concorrenza libera e non falsata” ormai fine
a se stessa, che non riguarda più soltanto le imprese (in uno spazio
europeo ben definito), ma anche stati, società, sistemi sociali e
fiscali[ii]; impongono l’austerità di default
con il Patto di Stabilità e di Crescita e la perpetuano nonostante gli
evidenti fallimenti; “radicalizzano gli obiettivi economici” e le
pressioni “di mercato” nel processo d’integrazione; interferiscono nelle
politiche sociali interne degli stati fino a una “radicale
‘funzionalizzazione’ delle costituzioni sociali nazionali alla
costituzione economica sovranazionale”[iii];
bloccano finanche quelle misure di “neowelfarismo liberale” con cui il
centrosinistra europeo intende correggere le storture della fase
ascendente del neoliberismo[iv].
Del
resto, possono affermarsi politiche diverse da quelle neoliberiste o
ordoliberali, in un contesto come quello della UE in cui le relazioni
tra gli stati restano improntate al peso specifico di ciascuno e ai
rapporti di forza intercorrenti fra loro? Negli ultimi vent’anni si è accentuata la dimensione intergovernativa sia nei Trattati sia nella governance della UE in generale[v],
fino a giungere all’accordo intergovernativo chiamato Fiscal Compact,
avvenuto al di fuori delle istituzioni europee (in quanto il Parlamento
Europeo non ha voce in capitolo), o alla gestione della crisi in Grecia,
in cui il bandolo è stato quasi interamente nelle mani dei leader
dell’Eurozona, e in particolare della Germania quale stato più forte
(proprio le dinamiche delle trattative con l’Eurogruppo culminate nella
riunione del 12 luglio mostrano in modo lampante l’assurdità di chi dice
che “la UE ha rivelato il suo vero volto, basta con l’unità europea” –
quel che si è visto è stato in realtà un piccolo, insipido assaggio di
quel che sarebbero i rapporti tra creditori e debitori in un sistema di
stati nazionali in competizione tra loro senza nemmeno la parvenza di
un’“unione” o di una “comunità”, come ai tempi del Congresso di Vienna o
della Conferenza di Versailles).
Gli europeisti hanno tutti
avuto difficoltà a individuare tali sviluppi sin dall’inizio. I Trattati
sembravano ogni volta contenere aspetti di genuino progresso che
sollecitavano il sostegno: l’abbandono di una prospettiva puramente
economica dell’integrazione, il protocollo sulla politica sociale, la
cittadinanza europea, la Carta dei Diritti Fondamentali, nonché il
continuo rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo. Non mancavano
inoltre tentativi di ampliare la visione politica europea o introdurre
correttivi all’approccio neoliberista dominante (tra gli esempi più
noti, il Libro Bianco di Jacques Delors). Di fatto, al più tardi con la
crisi iniziata nel 2008, tutti questi elementi sono stati lasciati
cadere, o posti in secondo piano, o sminuiti nella prassi politica, o
ridotti a mera retorica, o fatti oggetto di una più o meno velata
insofferenza (si pensi alla limitazione e alla messa in discussione dei
diritti di cittadinanza europea per i migranti provenienti dai paesi più
poveri della UE).
Attualmente la sovranità popolare è
stata pesantemente limitata o intaccata a livello nazionale senza
trovare compensazione a livello europeo; le questioni importanti sono
trattate da diciannove o ventotto politici nazionali incaricati dai
propri elettorati nazionali di tutelare i rispettivi interessi
nazionali, con l’ovvia egemonia dei paesi economicamente e politicamente
più forti e la riproposizione di logiche geopolitiche all’interno della
costruzione europea (quando il loro superamento era proprio uno degli
obiettivi dei progetti di Europa unita). Non si tratta semplicemente del
“deficit democratico” o “deficit di legittimazione” su cui si dibatte
da anni, ma anche di asimmetrie strutturali all’interno della UE e
dell’Eurozona: ad alcuni paesi è consentito mantenere in maggiore misura
le proprie prestazioni sociali, la forza contrattuale del lavoro,
l’espressione senza interferenze della volontà popolare rispetto ad
altri; alcuni stati contano più di altri; alcuni sottopongono altri al
controllo sanzionatorio dei bilanci e della vita economica in generale
(lo si è visto chiaramente a proposito della crisi dell’Eurozona e degli
ultimi avvenimenti in Grecia, anche per il rifiuto del governo e del
popolo greco di riconoscere tali asimmetrie, ma lo si sarebbe potuto
vedere a proposito dei paesi ex comunisti entrati nella UE, solo che
allora non lo si volle vedere o far vedere).
Il contesto europeo
sembra essere rappresentato da società nazionali in concorrenza tra
loro, in cui si riduce quel “valore aggiunto” dello stare insieme che
per decenni è stato la molla del processo d’integrazione (e al quale il
TTIP in discussione darà il definitivo colpo di grazia, annullando
l’idea stessa di uno spazio europeo in cui costruire una comunità
solidale di popoli diversi che condividono un destino comune). Al tempo
stesso hanno ancora poca rilevanza nella sfera pubblica i rapporti
sociali e i legami politici transnazionali fra europei, che pure
esistono, o l’espressione di bisogni e istanze al di fuori dello
stampino dello stato nazionale. Si direbbe che al di fuori della
passività o dell’acquiescenza agli europei non resti in pratica molto
altro che il populismo nazionalista, e che siano gli assetti stessi
della UE a riprodurre strutturalmente euroscetticismo e populismo.
Se questa rappresentazione della situazione non è errata, non è allora
più possibile, dopo oltre sessant’anni di integrazione europea, pensare
all’“Europa” solo come un ideale che appartiene a noi, prescindendo dai
progetti e dagli interessi nazionali, geopolitici, economici,
ideologici, ecc. di chi partecipa concretamente alla sua costruzione.
L’“Europa” “reale” è il luogo in cui s’incontrano, si combattono,
convergono e divergono numerosi e diversi soggetti politici e sociali,
il suo assetto e la sua evoluzione vengono determinati dall’interazione
di tali soggetti, in parte dal tipo di egemonia che riesce di volta in
volta ad affermarsi. Non può invero esistere un progetto europeo senza
tensione utopica e dimensione del desiderio; tuttavia, proprio le
vicende della Grecia insegnano che la propria visione, il proprio
progetto, vanno poi confrontati e misurati con le altre forze “reali” in
campo. In ogni caso, è il proprio progetto la parola chiave.
***
Quanto
detto sopra si riferisce ovviamente all’ambito europeo in generale.
Esistono comunque determinati aspetti del discorso sull’Europa quale è
stato articolato in Italia principalmente dai media e dalla classe
dirigente, con ampia e positiva risonanza nell’opinione pubblica. Sono
essi ad aver prodotto l’“europeismo di regime” del titolo: un europeismo
essenzialmente top-down, retorico e vago nei contenuti, ma
indiscusso e indiscutibile, intento in primo luogo a sollecitare
consenso verso i gruppi dirigenti medesimi e le loro politiche, e che,
proprio per la sua egemonia, sta ora provocando reazioni contro la
stessa idea di Europa e di unità europea.
In questa compagine
discorsiva l’“Europa” è presentata come un concetto indifferenziato, in
termini di istituzioni o di organizzazioni (quante volte, ad esempio, si
è visto il Consiglio d’Europa assimilato a “Bruxelles”?) e del tutto
avulso dagli attori che vi operano o che vi partecipano a vario titolo.
In particolare, del tutto avulso dalla politica e invero al di sopra
di essa. L’“Europa” è il luogo delle decisioni “tecniche” e, se non
“neutre”, in qualche modo “obbligate”. Oppure è il luogo dove albergano i
più alti standard etico-morali o civili. In ogni caso, il luogo della
normatività apolitica per definizione. La sottrazione dell’“Europa” alla
politica la si riscontra anche presso gli euroscettici, per esempio
nella stanca ripetizione di frasi fatte come “l’Europa dei burocrati e
dei banchieri”, dove, coscientemente o no, vengono cancellati gli
interessi politici, spesso nazionali, che sono in gioco.
Naturalmente, essendo compito della Commissione Europea quello di
rappresentare e tutelare l’interesse generale dell’Unione, è sempre
stato sottolineato il suo carattere super partes, “apolitico”,
specie in tempi in cui il suo profilo era senz’altro più alto rispetto a
oggi. Ma non sempre tale carattere è stato visto in opposizione,
di per sé, alla politica. Lo è, invero, soprattutto dai primi anni
Novanta, quando in concomitanza con la crisi finanziaria del 1992, la
gestazione del Trattato di Maastricht, e, per l’Italia, una grave crisi
del sistema politico, fu ripresa con gran squilli di tromba dalle élites
italiane l’invocazione del “vincolo esterno”[vi]
fatta com’è noto da Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia,
ex presidente di Confindustria e Ministro del Tesoro nel sesto e settimo
Governo Andreotti (1989-1992), che in tale veste negoziò e firmò il
Trattato di Maastricht. Il tema del “vincolo esterno” imposto
dall’“Europa” o dal contesto internazionale, che provvidenzialmente
salva gli italiani da se stessi, e impone alla politica “scelte” che di
per sé, vuoi per suoi vizi, vuoi per la dipendenza dal consenso
elettorale, non saprebbe intraprendere, sarebbe stato alla base del
discorso italiano sull’Europa – anche in quanto entrava in piena
sintonia con l’antico mito, così diffuso tra le élites italiane, di un
buongoverno illuminato che è buono e illuminato proprio proviene dalle
élites stesse, è poco o (quasi) per nulla dipendente dalle variabili del
consenso elettorale ed è quindi in grado di disciplinare un popolo di
volta in volta inerte o riottoso.
In questa prospettiva non ha
ovviamente importanza, anzi è auspicabile, la distanza dei decisori
dalle fonti di legittimazione popolare, o la svalutazione discorsiva del
concetto stesso di sovranità, o la subalternità
dell’ambito nazionale all’“Europa”. (Per chiarire: il federalismo è un
sistema di dispersione e condivisione della sovranità, concepito proprio
per contrastare l’accentramento assolutistico del potere statuale. In
un sistema federale le entità che lo compongono cedono parte della loro
sovranità alla federazione, ma rimangono sovrane negli ambiti di loro
competenza – il che distingue la federazione dal decentramento o anche
dalla devoluzione. Né la sovranità che cedono viene buttata via, ovvero
rimessa a un’entità superiore che ne fa quello che vuole, bensì viene
condivisa con altre entità: il livello federale risponde ai cittadini
della federazione, e non agli stati, come invece è nelle confederazioni.
La cessione della sovranità altro non è che un mezzo di limitazione e
“civilizzazione” del potere attraverso la condivisione con altri. Il
potere cioè di fare la guerra, di mandare la gente a morire, di
imprigionare o uccidere gli oppositori, di rinchiudere esseri umani nei
campi, di affamare il proprio e gli altri popoli, di impedire agli altri
di professare la propria religione o di parlare la propria lingua,
tutto quanto avveniva in Europa nella prima metà del XX secolo, ossia il
potere sulla vita, sui corpi, sulle risorse degli individui della
propria nazione e altrui. Non è un caso che nel Manifesto di Ventotene,
a proposito della critica alla sovranità nazionale, il sostantivo
“sovranità” sia in pratica sempre accompagnato dall’aggettivo “assoluta”
– ossia una sovranità in grado di compiere le cose di cui sopra. Che
poi attualmente la limitazione della sovranità riguardi la
contrattazione collettiva o l’apertura domenicale dei negozi, mentre
esseri umani vengono ancora messi in pericolo di vita, privati dei loro
diritti e rinchiusi in campi a causa della loro nazionalità è una delle
tante perversioni del tempo presente contro cui siamo chiamati a
lottare).
Tutto questo apparato discorsivo mirava ovviamente
anche a stabilizzare determinati assetti politici interni. Grazie ad
esso e alla sua scuola di acquiescenza, comunque, l’“Europa” è diventata
in Italia una sorta di totem. L’“Europa” si può magari rifiutare; mai
però discutere. Al di fuori della produzione scientifico-accademica, i
contributi italiani al dibattito in materia sono stati ben pochi in
confronto alla rilevanza che il tema aveva nella politica interna, e
soprattutto quasi nulli quelli provenienti dal mondo della politica (una
parziale eccezione è costituita non a caso da quanto si può ricondurre
all’“altereuropeismo”). Non esistendo opzioni nell’affrontare le
questioni europee, in Italia la frase “ce lo chiede l’Europa” è stata
usata come formula magica per chiudere qualsiasi discussione. Scompaiono
dalla scena considerazioni riguardanti bisogni, motivazioni, condizioni
concrete dei cittadini – quei cittadini che le foto di altre epoche ci
rappresentano attivi e decisi nel volere l’“Europa”. Sembra quasi
impossibile ora per gli italiani concepire modi diversi di “stare in
Europa”, come invece fanno i greci, che rifiutano ottuse e fallimentari
politiche di austerità e avvilenti asimmetrie, ma vogliono restare nella
UE e nell’euro, o come gli indipendentisti scozzesi, che ponendo il
resto della UE davanti al problema di un “allargamento interno” sollevano questioni fondamentali
su cittadinanza europea ed ethos europeo. In Italia crescono invece,
trasversalmente agli schieramenti politici, euroscetticismo e
sovranismo.
***
Il montante euroscetticismo può essere
considerato, specie a sinistra, una reazione all’“europeismo di regime”
discusso sopra? In parte sì, specie a voler vedere nel “neosovranismo”[vii]
una rivendicazione – di per sé legittima – dell’autonomia della
politica mortificata da anni di retorica del “vincolo esterno” e del “lo
vuole l’Europa”. Tale rivendicazione tuttavia si articola in termini di
ripiegamento e di regressione, in cui spiccano inquietanti analogie con
lo stesso discorso europeista che si vuole contestare. Come
quest’ultimo agitava un’“Europa” astratta, lontana e indiscussa, così si
agita ora una “nazione” altrettanto astratta (raramente si parla di
“Italia”), prescindendo da tutti quei contrasti territoriali, di classe o
ideologici che hanno fatto in concreto la storia d’Italia
e che hanno spinto storicamente la sinistra a guardare al di fuori dei
confini nazionali proprio per venirne a capo. L’uno considerava
l’“Europa” un totem, l’altro si bea nella sua dissacrazione in un
deserto di proposte e prospettive (quanto all’uscita dall’euro, è
sconcertante la superficialità con cui a sinistra si parla di
“svalutazioni competitive”, soprattutto se confrontata con la gravità
che assume il tema in Grecia).
Come l’europeismo di regime
ignorava la realtà concreta, ad esempio, delle “riforme strutturali”
imposte “in nome dell’Europa”, così i neosovranisti ignorano la realtà
concreta di società sempre più transnazionali, plurali e interconnesse,
in cui tuttavia i diritti, l’accesso alle risorse, le modalità di
partecipazione alla vita sociale e politica rimangono differenziati in
maniera iniqua. Ha invero riflessi non solo inquietanti, ma anche
decisamente sinistri il fatto che tra gli strepiti di questi giorni
contro l’“Europa” nessuno dei sovranisti abbia trovato il modo di dire
alcunché sul trattamento disumano riservato a migranti, rifugiati e
richiedenti asilo – si direbbe che nell’ambito “nazionale” che si vuole
privilegiare tale trattamento sia una condizione scontata e naturale.
Come
l’europeismo di regime muoveva da settori delle élites italiane che,
riallacciandosi all’“Europa”, miravano a dare un determinato assetto
alla società e alla politica italiana corrispondente alla loro visione e
ai loro interessi, così il neosovranismo è mosso da scampoli di una
classe politica e intellettuale che intendono costruirsi constituencies
il più possibile a propria somiglianza, escludendo o limitando la
rilevanza di “altri” o di diversi. Infine, come nel discorso
dell’europeismo di regime la sinistra era culturalmente e politicamente
subordinata al moderatismo neoliberalista, così la sinistra
neosovranista appare culturalmente e politicamente attigua, quando non
subordinata, al populismo di destra. Nei temi, nei linguaggi, nonché nella proposta di Fassina
di costruire “un’ampia alleanza di fronti di liberazione nazionale […]
composti da forze progressiste aperte alla cooperazione di partiti
sovranisti democratici di destra”. Soprattutto, nell’assunto che
l’“Europa” sia irriformabile e che quindi non si possa che chiudere con
essa.
È difficile immaginare la piccolezza del calibro di quel
che potrebbe fare una forza di sinistra in un contesto di rapporti
sempre improntati alla globalizzazione neoliberista e di rinnovata
competizione in nuovi ambiti con paesi fino a oggi parte di una stessa
unione – per non dire del peggioramento delle condizioni non solo di chi
sta in patria, ma anche e soprattutto si trova a vivere in un altro
stato ora UE. È difficile anche pensare a una sconfitta più radicale e
annunciata di questo ripiegamento in piccoli ambiti, su piccoli
cabotaggi, su piccole constituencies.
***
In
questa crisi europea non crescono tuttavia solo populismo, nazionalismo
ed euroscetticismo, ma anche, in certi quartieri, la consapevolezza che è
proprio l’“Europa” l’ambito in cui resistere alla pressione neoliberista, e magari invertire la rotta (qualcuno in effetti lo aveva già pensato più di novant’anni fa), non senza valorizzare quanto di positivo
si è già fatto e che sarebbe difficile realizzare da soli in un solo
paese. È importante potenziare le reti e il coordinamento tra gruppi,
partiti e movimenti che vogliono cambiare l’UE in senso democratico,
sociale, solidale e federale, includendo il mondo della migrazione,
“comunitaria” e non (si pensi al profilo che ha acquisito tra gli
europeisti britannici il gruppo New Europeans
che è impegnato a lottare contro le discriminazioni e in difesa dei
diritti di cittadinanza europea). La difesa e l’ampliamento dei diritti
di cittadinanza europea devono diventare un obiettivo prioritario
(includendo la solidarietà ai profughi e richiedenti asilo, la modifica
del Regolamento di Dublino e la cittadinanza europea di residenza,
facendo leva sull’ingiustizia della differenziazione dei diritti).
Occorre premere per un aumento del bilancio europeo (che i governi
europei hanno colpevolmente diminuito nel 2013), per poter realizzare un
vero New Deal europeo (non il miserando Piano Juncker) che aiuti la UE a
uscire dalla crisi. Soprattutto è giunto il momento di chiedere un
cambiamento dei Trattati che riconsegni la sovranità al popolo europeo,
con la trasformazione della Commissione in un governo europeo che
risponda a un parlamento europeo dotato di iniziativa e di pieni poteri
legislativi – e al tempo stesso, combattere proposte di riforma che
perpetuano l’esclusione dei cittadini o asimmetrie gerarchiche
all’interno dell’Unione.
Come in altri momenti della nostra
storia, la partita si gioca in Europa. Non ritraiamoci in una dimensione
che inevitabilmente impoverirebbe la qualità della nostra vita e della
nostra democrazia.
Fonte: MicroMega online
NOTE
[i] Willem Maas, Creating European Citizens, Lanham MD, Rowman & Littlefield, 2007.
[ii] Édouard Gaudot e Benjamin Joyeux, L’Europe, c’est nous!, Paris, Les Petits Matins, 2014, pp. 56 e 64.
[iii] Antonio Cantaro e Federico Losurdo, Il «nuovo» modello sociale europeo: fine dell’eccezionalismo?, «La rivista delle politiche sociali», n. 3-4 (luglio 2013), disponibile qui.
[iv] Maurizio Ferrera, Neowelfarismo liberale: nuove prospettive per lo stato sociale in Europa, «Stato e mercato», n. 97 (aprile 2013), pp. 3-36 (p. 31), disponibile qui.
[v] Vedi anche Andrew Duff, Pandora, Penelope, Polity: How to Change the European Union, London, John Harper Publishing, 2015.
[vi] Vedi anche Giuseppe Berta, Oligarchie. Il mondo nelle mani di pochi, Bologna, Il Mulino, 2014, specialmente l’ultimo capitolo La deriva europea verso una tecnocrazia oligarchica.
[vii]
Con il termine “neosovranismo” intendo in particolare la posizione di
quelli che hanno abbracciato di recente posizioni sovraniste provenendo
da un europeismo generalmente mainstream. Per molti aspetti non si possono assimilare agli euroscettici o ai nazionalisti di vecchia data.
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