di Umberto Romagnoli
Generalmente, i materiali giuridici permettono di
identificare il patrimonio culturale di
chi li ha prodotti o ne ha largamente
condizionato il processo di formazione. Così, per fare significativi esempi
legati alla contemporaneità, se il contratto di lavoro a tutele crescenti, la cui
disciplina costituisce finora il pilastro del Jobs Act renziano, esprime la
convinzione che ormai la politica è comunicazione, la clausola contrattuale che
vincola l’impresa ad assumere come “base ed oggetto” delle trattative la
piattaforma rivendicativa approvata tramite votazione referendaria dalla
maggioranza dei dipendenti, e subordina la sottoscrizione dell’ipotesi di
accordo all’esito positivo di un successivo referendum, corrisponde anzitutto
all’istanza di sindacati che rifiutano di appiattirsi su logori stereotipi
carismatico-autoritari e adottano un modello di relazioni fondato sulla
verifica del consenso dei rappresentati. Non è difficile immaginarsi che una
clausola del genere riproduca una proposta della Fiom: ottenendone l’adesione
della controparte, questa organizzazione ha infatti dato il suo imprinting al
sistema dei apporti sindacali all’interno della Automobili Lamborghini
istituito dall’accordo del 4 luglio 2012 cui si richiama l’accordo di rinnovo
del 22 maggio 2015.
Altrettanto agevole è la ricerca della paternità putativa
della cassetta degli attrezzi allestita per garantire la governabilità del
conflitto negli stabilimenti italiani della FCA. Essa non può non appartenere
ad attori delle relazioni industriali persuasi che la globalizzazione
dell’economia sia paragonabile ad una lotta senza quartiere dove i vincitori
non hanno l’abitudine di fare prigionieri; persuasi che le maestranze siano
tenute a ripensarsi come una compagine militare fiondata come una catapulta
sull’obiettivo di assicurare il successo dell’impresa nel mercato mondiale;
persuasi che la tutela della competitività di quest’ultima esiga il massimo di
disciplina da parte di tutti gli addetti. Anche se comporta demansionamenti o
video-sorveglianza continuata o facilità di licenziamenti. Anche se comporta la
confisca del diritto di sciopero. Anche se comporta una rivisitazione in chiave
riduttiva della nozione costituzionale della libertà sindacale che non arretra
nemmeno di fronte alla prospettiva di sopprimere il pluralismo sindacale nei
luoghi di lavoro.
Di solito, i rinnovi dei contratti collettivi scaduti o
in scadenza sono semplice routine. Viceversa, il recentissimo rinnovo del
contratto collettivo applicabile in FCA è molto di più di un atto fisiologico.
E’ la prosecuzione di una strategia di lungo periodo il cui nucleo fondativo è
rintracciabile nell’accordo di Pomigliano del 2010, che è all’origine di un
movimento tellurico ancora lontano dal concludersi anche perché non potrà
esserci assestamento senza appropriati interventi di un legislatore capace
di risposte positive al pressing di cui
è oggetto. Il pressing però deve essere energico. Non meno di quello
effettuato, tutti insieme appassionatamente, dai contraenti dell’accordo per lo
stabilimento campano.
Esso segnò una netta cesura tra il “prima” e il “dopo”,
occasionando un anomalo (e traumatizzante) referendum promosso dall’azienda per
legittimare la demolizione del sistema delle fonti di produzione delle regole
del lavoro dipendente in cima alla cui gerarchia una consolidata tradizione
collocava il contratto nazionale di categoria e per poter intimare alla Fiom lo
sfratto della sua rappresentanza aziendale con la complicità della
manipolazione subita dall’art. 19 dello Statuto dei lavoratori in seguito alla
consultazione popolare del 1995.
Quel che è avvenuto “dopo” è la cronaca di una frana che
ha eccitato l’attivismo di una quantità di soggetti. La Confindustria e le
centrali sindacali che, per calmare una coscienza agitata, il 28 giugno 2011
sponsorizzano in via sperimentale la licenza di pattuire a livello aziendale
“intese modificative” del contratto nazionale malgrado l’assenza di apposite
clausole di rinvio. Il legislatore, che nell’agosto dello stesso anno non solo
certifica che “le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali
vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28
giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il
personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a
condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori”,
ma allarga lo strappo concedendo alla “contrattazione di prossimità” la facoltà
di introdurre modifiche (che soltanto la pruderie semantica impedisca di
chiamare deroghe peggiorative) anche a gran parte della legislazione in materia
di lavoro. La Consulta nel 2013 pronuncia una sentenza additiva con
l’apprezzabile proposito di implementare la norma statutaria riguardante la
costituzione delle RSA in modo da precluderne l’interpretazione ottusamente
letterale che punisce il dissenso sindacale; una sentenza che ha restituito
alla Fiom il diritto di cittadinanza nell’azienda da cui era stata estromessa,
ma non ha potuto riammetterla nelle dinamiche contrattuali ivi sviluppate.
I pochi che sanno, però, non parlano o non dicono tutto.
Fatto sta che, mentre vecchie certezze svanivano e le nuove tardavano ad
affermarsi, i comuni mortali si sono abituati a pensare che, all’ombra della Costituzione
inattuata, il sistema di relazioni industriali era diventato un vaso di Pandora
da cui esce di tutto. Soltanto col passare del tempo hanno potuto capire che
quell’accordo interconfederale non era che il primo segmento di un trittico
normativo. Intervallati da pause sapienti, ne arriveranno altri due. Infatti,
le centrali confederali trascorrono il triennio 2011-2013 collezionando chissà
quanti appuntamenti per elaborare un sofisticato ridisegno del sistema delle
relazioni contrattuali che nel gennaio del 2014 sarà dato in pasto all’opinione
pubblica con l’anodina etichetta di Testo Unico sulla rappresentanza.
Nel complesso, il documento celebra l’elogio
dell’esigibilità degli obblighi contrattuali assunti dai sindacati firmatari
dei contratti collettivi, a cominciare dall’obbligo di tregua sindacale. I
contraenti, però, hanno il torto di non dissociarsi dall’opinione dominante che
fa della titolarità individuale del diritto di sciopero un dogma che Gino
Giugni asseriva fondato sulla ragione. Infatti, ci tengono a dichiarare che la
relativa clausola lo lascia intatto. Per questo, il Testo Unico non può
soddisfare la richiesta di una polizza assicurativa contro il rischio di
scioperi che, non senza ambiguità espressiva, era formulata nella clausola di
responsabilità del contratto collettivo applicato negli stabilimenti italiani
di FCA.
Infatti, l’accordo appena rinnovato ne ha perfezionato la
formulazione subordinando seccamente l’avvio di iniziative conflittuali al
consenso maggioritario della dirigenza sindacale aziendale designata dalle
segreterie nazionali dei sindacati firmatari. Come dire che il legislatore è
sollecitato ad intervenire di nuovo, perché anche questo accordo ha bisogno di
stampelle legali per smettere di zoppicare. Fuor di metafora, trasmette per implicito
un appello al legislatore analogo a quello trasmesso nel 2010 e tempestivamente
raccolto dall’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi. Stavolta, il
pressing si propone di accelerare il processo di giuridificazione dell’agire
sindacale in azienda, completarlo e giungere alla stabilizzazione del risultato
finale. Un risultato che si lascia facilmente intuire.
Adesso, in FCA le RSA formano a livello di unità
produttiva il Consiglio delle RSA, il quale “prende ogni decisione a
maggioranza assoluta dei suoi membri”, sapendo però di essere esposto a rischio
di decadenza deliberata dalle parti firmatarie se cade in eccessi
d’irrequietezza trasgressiva dell’ordine aziendale. Inoltre, “è l’unico
titolare all’interno dell’unità produttiva della potestà di attivare misure di
autotutela sindacale per il tramite delle procedure di raffreddamento”.
Soltanto il fallimento di queste ultime legittima il medesimo organismo a
proclamare lo sciopero con un preavviso di durata non inferiore a 24 h.; una
durata che può sembrare, ed effettivamente è, assai breve: però, è presumibile
che difficilmente le procedure antecedenti possano esaurirsi in un arco di
tempo inferiore ad un paio di settimane. Dopotutto, è “lo spirito che anima”
l’accordo, come recita testualmente il penultimo comma dell’art. 11, che impone
di prefigurare un modello di relazioni sindacali fondato sulla “prevenzione del
conflitto”. Nonché, bisogna affrettarsi a puntualizzare, sull’asimmetria del
rapporto fiduciario esistente tra le parti firmatarie.
Infatti, mentre le organizzazioni sindacali si fidano
della FCA a tal segno che l’accordo non menziona nemmeno l’eventualità che sia
l’impresa a non adempiere gli obblighi contrattualmente assunti, non è vera la
reciproca. Anzi, dal documento contrattuale si desume che per governo del
conflitto s’intende esigibilità dei diritti o poteri dell’impresa ed è per
questo che le sanzioni previste sono commisurate soltanto a comportamenti
devianti (= “mancato rispetto” o “violazione dei doveri”) imputabili alle organizzazioni
sindacali od anche ad imprecisabili gruppi di lavoratori “senza collare” –
fermo restando, peraltro, che la FCA non potrà infliggerle fino alla pronuncia
della Commissione paritetica nazionale istituita come “sede preferenziale per
esaminare le situazioni che concretizzino il mancato rispetto degli impegni
assunti dalle organizzazioni sindacali firmatarie”.
Come poc’anzi ho anticipato, la clausola contrattuale che
requisisce l’attenzione degli osservatori è quella che introduce il principio
della titolarità congiunta del diritto di sciopero.
L’innovazione è due volte dirompente.
Una prima volta, perché si pone in aperto contrasto con
l’idea che, in assenza di una regolazione legislativa del diritto di sciopero,
egemonizza tuttora una cultura giuridica favorevole a custodire il medesimo nel
tempio dei diritti della persona a titolarità esclusivamente individuale.
Inalterabili. Intoccabili. Indisponibili. Può darsi che non sia del tutto priva
di venature populistiche e abbia ragione Alberto Asor Rosa a polemizzare con
esponenti della letteratura italiana che, facendo del popolo l’oggetto di una
ipotesi ideologica immancabilmente progressista, si sentono obbligati ad
interpretare ogni manifestazione conflittuale spontanea come una testimonianza
di vitalità delle democrazie di massa. Tuttavia, prima di liquidarla, quella
opzione di politica del diritto andrebbe contestualizzata. Servirebbe per
capire che, pur essendo documentabile che si è affermata nei periodi o nelle
situazioni di carenza di una tutela sindacale organizzata, essa ritrova intatta
la sua giustificazione nei periodi o nelle situazioni in cui
l’autoreferenzialità fa del sindacato istituzionalizzato un’autorità privata
impermeabile ai canoni della legittimazione democratica.
Ma c’è qualcosa di più e desta scalpore. E’ sensazionale
infatti che, pur essendo il fronte
sindacale formato da una pluralità di soggetti, ciascuno di essi abbia
rinunciato alla propria sovranità decisionale anche in ordine all’uso della
risorsa dello sciopero, rimettendosi sistematicamente alla volontà della
maggioranza dei consensi espressi all’interno di un organismo collegiale. Per
questo, mi sono convinto che la clausola finisca per dire meno del voluto e che
proprio il non-detto costituisca la sostanza del messaggio trasmesso al
legislatore. Infatti, i sindacati che hanno sottoscritto la clausola lo hanno
informato di non essere aprioristicamente contrari alla prospettiva di
costituire un interlocutore unico dell’azienda e anzi gli comunicano che in
qualche modo c’è già. Ed è tipico di un sindacato unico sia ambire al
riconoscimento della rappresentanza esclusiva che coltivare l’aspettativa di
disporre della potestà di decidere contenuti e modalità dell’azione collettiva
con effetti generalizzati. Dentro la FCA, insomma, si aspettano l’enunciazione
legislativa del principio “un’impresa, un contratto”, conformemente al modello
di relazioni introdotto dal Bundestag nel maggio scorso con la legge,
caldeggiata dallo stesso DGB, sulla “unità di contrattazione”. Essa prevede che
(a) soltanto il sindacato con più iscritti in azienda è legittimato a negoziare
le condizioni di lavoro che vi si praticano e (b) il contratto aziendale da lui
stipulato ha un’efficacia vincolante per la generalità degli occupati.
Come dire che quella che si prospetta è una democrazia
sindacale disabitata, perché in democrazia si contano le teste, non le tessere.
Fonte: Eguaglianza&Libertà
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