
di Emanuela Struffolino e Marianna Filandri
Verrebbe quasi da tirare un sospiro di
sollievo nel leggere il Report dell’ ISTAT sulla povertà in Italia. Dopo
due anni di aumento, nel 2014 l’incidenza della povertà assoluta in
Italia è rimasta stabile rispetto al 2013. L’interruzione del trend
precedente non significa tuttavia che la povertà non sia un problema
serio. Infatti, stiamo parlando di quasi un milione e mezzo di famiglie e
di più di 4 milioni di persone (6,8% della popolazione residente) che
non possono acquistare “beni e servizi considerati essenziali per una
determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente
accettabile”. Il fenomeno non è omogeneo sul territorio nazionale:
secondo l’Indagine sulle spese delle famiglie l’incidenza della povertà
assoluta al Sud è doppia rispetto al Nord (8,6% contro 4,2%) e a
soffrire di più sono i piccoli comuni del Mezzogiorno e le aree
metropolitane del Nord.
Le famiglie con due figli vedono
migliorare la loro condizione (da 8,6% nel 2013 a 5,9% nel 2014), ma
questo solo se i due figli non sono minori. Le famiglie numerose (con
tre o più figli) e quelle con un solo genitore conservano il triste
primato della più alta incidenza della povertà per tipologia famigliare
(16% e 7,4% rispettivamente).
Le famiglie composte da coppie di stranieri – per le quali la povertà assoluta raggiunge in media il 23,4% nel Paese – sono particolarmente svantaggiate rispetto alle famiglie di italiani nelle regioni del Centro-Nord.
Le famiglie composte da coppie di stranieri – per le quali la povertà assoluta raggiunge in media il 23,4% nel Paese – sono particolarmente svantaggiate rispetto alle famiglie di italiani nelle regioni del Centro-Nord.
La mancanza di occupazione rappresenta
uno dei fattori che con più forza si associa alla maggiore incidenza
della povertà: nel 2014 la quota di poveri senza lavoro era del 16,2%,
un miglioramento rispetto al 23,7% del 2013, ma ancora ben distante dal
circa 8% pre-2008. Anche il titolo di studio continua ad essere una
variabile importante: l’incidenza della povertà sale dal 3,2 all’8% se
si passa da famiglie in cui la persona di riferimento ha almeno un
diploma di licenza media superiore a famiglie in cui quella persona ha
un titolo di studio più basso.
Se si considerano le stime della povertà
relativa, ossia la condizione di svantaggio rispetto allo standard
medio di vita della popolazione, lo scenario è simile. E’, però,
interessante esaminare il rapporto tra titolo di studio e povertà
relativa. Quest’ultima, nel 2014 ha interessato in media il 6,2% delle
famiglie nelle quali la persona di riferimento aveva almeno la licenza
media superiore, mentre saliva al 13,2% nel caso di licenza media
inferiore, raggiungendo il 15,4% per livello di istruzione elementare.
Nelle regioni del Sud il titolo di studio protegge meno dal rischio di
povertà relativa e la sua incidenza raggiunge il 13,2% – contro il 2,9%
del Nord e il 4,3% del Centro – per le famiglie in cui la persona di
riferimento ha almeno la licenza superiore. Considerando le famiglie con
un livello di istruzione inferiore la percentuale nel Sud arriva a
circa il 28%, mentre l’aumento è più contenuto per il Centro (circa 8%) e
per il Nord (circa 6,5%).
L’analisi di questi dati è
imprescindibile nello studio della povertà, ma quest’ultima è un
fenomeno multidimensionale ed è dunque necessario considerare altre
dimensioni accanto a quella monetaria (in particolare quella dei
consumi, l’unica presa in considerazione nel Report dell’ISTAT), come ad
esempio a quelle della salute, della casa e del lavoro. In realtà,
anche la mancanza di istruzione può considerata, di per sé, un
indicatore di povertà. A partire dai dati appena richiamati sul titolo
di studio e sull’area di residenza, emerge chiaramente come la
deprivazione monetaria e quella educativa spesso siano tra loro
additive. Vi è inoltre un effetto di interazione con il contesto: nel
Sud avere un titolo di studio basso o non averne alcuno aumenta
notevolmente la probabilità di cadere in una situazione di povertà
economica. Questo dato, già di per sé preoccupante, è ulteriormente
aggravato dalla facilità con la quale lo svantaggio si trasmette da una
generazione all’altra. In letteratura è ben noto il cosiddetto effetto
San Matteo (R.K.Merton ,
1988) secondo cui coloro che hanno di più sono anche coloro che avranno
di più. In altre parole si tratta del meccanismo per il quale le
disuguaglianze si riproducono nel corso della vita e tra una generazione
e l’altra. Questo significa non solo che coloro che posseggono un
titolo di studio basso hanno maggiori probabilità di trovarsi in
povertà, ma anche che i loro figli hanno anche minori probabilità di
acquisire alti titoli di studio (e, in particolare, corrono un elevato
rischio di abbandono degli studi dopo la licenza media.
Finora abbiamo considerato la povertà
come una condizione presente o assente. La realtà è tuttavia più
sfumata, come risulta dalla Figura 1, che riprende dati contenuti nel
Report dell’ISTAT. Infatti, se ci limitassimo a distinguere le famiglie
in “povere” (10.3%) o “non povere” (89.7%) non coglieremmo la grande
eterogeneità che esiste all’interno di questi due gruppi e che dipende
dal diverso grado di severità della povertà o dalla distanza dalla
soglia che la delimita.

Ciò vuol dire, in particolare, che le
condizioni e le opportunità di vita delle famiglie incluse nei due
gruppi sono molto differenti. In questa prospettiva, particolare
attenzione merita quel 6.8% delle famiglie che l’ISTAT definisce “quasi
povere” perché ha una spesa mensile che si discosta del +10/20% dalla
soglia di povertà standard. Nonostante l’assenza di disagio conclamato
che caratterizza la condizione delle famiglie “sicuramente povere”,
queste famiglie “quasi povere” sono estremamente vulnerabili alle
conseguenze negative di eventi improvvisi (come la perdita del lavoro di
un componente nel nucleo, un divorzio, o l’insorgere di problemi di
salute) e, quindi, per esse è alto il rischio di scivolare al di sotto
della linea di povertà standard.
In conclusione, lo studio della povertà
non dovrebbe limitarsi alla sola dimensione del reddito e dei consumi:
adeguata attenzione dovrebbe essere prestata alle caratteristiche e ai
fattori di svantaggio non solo delle famiglie e delle persone
identificate come povere, ma anche di quelle vulnerabili. Di questo
potranno beneficiare il disegno e l’attuazione di efficaci politiche di
contrasto alla povertà.
Fonte: eticaeconomia.it
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