di Lidia Baratta
L’occupazione in Italia cala ancora. I dati diffusi dall’Istat dicono
che a giugno 2015 ci sono stati 22mila occupati in meno rispetto a
maggio. Un calo che riguarda soprattutto i più giovani: gli occupati
nella fascia d’età tra 15 e 24 anni sono diminuiti del 2,5%, e il tasso
di occupazione giovanile, pari al 14,5%, è sceso di 0,3 punti
percentuali. La disoccupazione, intanto, tra i giovani è salita al
44,2%, quella generale al 12,7 per cento. La «rivoluzione copernicana»
del Jobs Act, se c’è, non si vede.
I giovani ancora fuori dal mercato del lavoro
I dati diffusi da Istat fotografano ancora un mercato del lavoro che
tiene fuori i più giovani. Quelli che hanno un lavoro sono 860mila
(14,5%), ma 682mila sono ancora alla ricerca di un’occupazione. Il dato
più preoccupante sono i 4 milioni di inattivi, cioè quelli non ce
l’hanno e non lo cercano nemmeno. «Gli incentivi a pioggia previsti
dalla legge di stabilità 2015 per le nuove assunzioni con contratto a
tempo indeterminato non aiutano i giovani», spiega Francesco Seghezzi del centro studi sul lavoro Adapt.
«Se un’impresa deve assumere a tempo indeterminato sceglierà o di
trasformare i contratti a tempo determinato di lavoratori che sono già
impiegati presso di loro o assumerà i lavoratori che hanno più
esperienza. In entrambi i casi, sono i giovani a essere le vittime».
Ma c’è anche un altro fenomeno che pesa sui livelli dell’occupazione
giovanile. «I giovani sempre più formati e competenti», continua
Seghezzi, «non riescono a incontrare le richieste del mercato del lavoro
e si verifica così il fenomeno dello skill mismatch,
per cui abbiamo ragazzi che sanno fare cose che non interessano al
mercato e un mercato che cerca competenze che i giovani non possono
offrire». Senza dimenticare «l’utilizzo ormai patologico dei tirocini,
che spesso sono strumenti per ottenere occupazione a breve periodo che
non ha un effetto formativo e spesso si conclude in nuovi periodi di
disoccupazione e inattività».
Jobless recovery
Dopo la crescita del mese di aprile (+0,6%) e il calo del mese di
maggio (-0,3%), a giugno 2015 gli occupati sono diminuiti ancora.
Rispetto a giugno 2014, se ne contano 40mila in meno. «Vista la crescita
della produzione industriale e, anche se poco, del Pil, quello che
preoccupa di più è che stiamo entrando in una fase di jobless recovery, ossia un ciclo economico parzialmente positivo che non porta con sé nuova occupazione», dice Seghezzi. L’Ocse, nell’ultimo Employment Outlook, ha confermato in effetti che molti dei lavori che avevamo prima della crisi non torneranno perché ormai sono obsoleti, soprattutto nel settore manifatturiero.
«E sapendo che l’Italia è grande soprattutto grazie alla sua
manifattura, possiamo capire che siamo tra le principali vittime di
questo trend».
Su base mensile, il numero dei disoccupati è aumentato di 55mila unità, e il tasso di disoccupazione è risalito al 12,7 per cento. Rispetto allo scorso anno, dicono da Istat, ci sono 85mila disoccupati in più. Contemporaneamente, calano gli inattivi
dello 0,1% rispetto a maggio e dello 0,9% nei dodici mesi. «Sicuramente
l’aumento della disoccupazione può significare che degli inattivi
abbiano iniziato a cercare lavoro, ma il problema è la diminuzione
dell’occupazione, questo è un dato che è inequivocabilmente negativo e
che pregiudica tutta la situazione. Soprattutto perché è il secondo mese
che questo avviene», ribadisce Seghezzi.
E il Jobs Act?
Ad aprile, dopo l’entrata in vigore del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti,
l’occupazione era risalita, per tornare poi a scendere nei due mesi
successivi. «Questo fa temere», spiega Francesco Seghezzi, «che
l’effetto del Jobs Act si sia presto esaurito, ma dobbiamo aspettare
ancora per valutare le conseguenze della riforma».
Al momento, l’unico effetto prodotto sembra l’aumento della percentuale dei contratti a tempo indeterminato. «Ma
bisogna capire se è questo quello di cui ha bisogno la nostra economia e
il nostro mercato del lavoro», commenta Seghezzi. «Finché non cresce
l’occupazione i problemi sono gli stessi, e anzi peggiorano. La
rivoluzione copernicana dell'eliminazione dell’articolo 18 doveva essere
la fine della dialettica stabili/precari, che si basa sul mito
novecentesco del lavoro a lungo termine che ormai non ha più senso. Se
invece il risultato del Jobs Act al momento è l'aver “aumentato i posti
di lavori stabili” come viene detto, non sembra ci sia nessuna
rivoluzione. In un Paese come l'Italia che ha un tasso di occupazione
del 55,8% la vera rivoluzione copernicana è creare nuovi lavori».
Fonte: Linkiesta
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.