Intervista a Wolfang Streeck di Giuliano Battiston
«L’euro non è l’Europa». Per analizzare con lucidità il negoziato sul
debito greco e il futuro politico ed economico del vecchio continente
Wolfgang Streeck suggerisce di partire da qui. «L’equazione tra l’Unione
monetaria e l’Europa è semplicemente ideologica, serve a nascondere
interessi prosaici», spiega nel suo studio il direttore del Max-Planck
Institut per la ricerca sociale di Colonia. Gli interessi dei paesi del
Nord Europa contro quelli del Sud, della finanza internazionale contro
le popolazioni mediterranee, del “popolo del mercato” (Marktvolk) contro il “popolo dello Stato” (Staatvolk): del capitalismo contro la democrazia. Per l’autore di Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli,
2013), il caso greco non rappresenta infatti che l’ultima variante del
processo di dissoluzione del regime del capitalismo democratico del
dopoguerra. Quel regime che aveva faticosamente tenuto insieme, in una
combinazione fragile e instabile, democrazia e capitalismo appunto,
dando vita a un patto sociale ormai imploso. Anche in Europa. E proprio a
causa di un’Unione europea che si è fatta «motore di liberalizzazione
del capitalismo europeo, strumento del neoliberismo». E di una moneta
comune che serve gli «interessi del mercato». Per uscire dal vicolo
cieco dell’Europa liberista votata all’austerity, per Wolfgang Streeck,
tra i più influenti sociologi contemporanei, si dovrebbe partire proprio
dalla rinuncia all’euro come moneta unica. Con una nuova Bretton Woods
europea.
In Tempo guadagnato, un libro pubblicato nel 2013,
lei accoglieva con favore l’emergere in Grecia di una forza politica di
sinistra «che avrebbe potuto decidere di annullare unilateralmente il
debito sovrano del proprio paese». A distanza di due anni quella forza
di sinistra, Syriza, è al governo, ma il negoziato sugli “obblighi” è
ancora in corso. Come giudica la contesa sul debito greco?
Credo che si tratti di una battaglia tra il nord Europa, con la
Germania in testa, e i paesi mediterranei. Quel che è stato presentato
ai popoli europei come un processo di unificazione è in realtà un
processo di consolidamento dell’egemonia dell’Europa del Nord e del
capitalismo internazionale sui paesi mediterranei, affinché diventino
parte integrante di una forma di capitalismo che implica il predominio
dei sistemi finanziari e l’aggiustamento delle politiche di bilancio
statali alle loro richieste. Lo scontro in ogni caso non è soltanto tra
il Nord dell’Europa e i paesi mediterranei. Anche le società
mediterranee appaiono divise – come dimostra il caso italiano – tra un
settore che punta alla ‘modernizzazione’ e che include le elite e le
classi medie che vogliono liberarsi dall’eredità ‘feudale’ e quella
parte di società che teme – a ragione – che i propri interessi verranno
sommersi in questo processo di modernizzazione e trasformazione globale.
Nel caso della Grecia, la spaccatura è evidente anche all’interno di
Syriza, dove ci sono due fazioni: la prima, rappresentata dal ministro
delle Finanze Varoufakis (nel frattempo si è dimesso, ndr), è
quella di chi ritiene che convenga restare nell’euro e ottenere
dall’Europa quanti più sostegni e benefici possibili per modernizzare il
paese. L’altra, incarnata dall’economista greco Costas Lapavitsas,
docente a Londra, è quella di chi suggerisce invece di uscire dall’euro e
di recuperare qualche forma di sovranità monetaria, perché sul lungo
periodo l’euro imporrà una disciplina molto rigida e nessuna protezione
per coloro che soffriranno i danni di questo rapido processo di
‘riforme’ e modernizzazione euro-capitalistica.
Con il referendum del 5 luglio, Tsipras ha reclamato i
diritti della democrazia contro le imposizioni dell’economia, alzando il
prezzo che i creditori devono pagare per evitare che la Grecia, paese
debitore del Sud, abbandoni la partita. È una mossa azzeccata?
Sì. Il governo greco deve cercare di ottenere il più possibile
dall’Unione economica e monetaria. Dopotutto, è stata proprio l’Unione
monetaria a imporre alla Grecia cinque anni di austerità, senza la
minima prospettiva di una ripresa futura. Il rischio, sul lungo termine,
è che la Grecia non abbia comunque speranze all’interno dell’eurozona,
nonostante le concessioni che riuscirà a strappare. È in corso un
conflitto su chi pagherà il conto della Grecia, molto elevato sul lungo
periodo. Ma tutto deriva da un’idea sbagliata: l’idea che un’economia di
mercato comune conduca inevitabilmente alla convergenza della
prosperità dei paesi che ne fanno parte. Piuttosto, è vero il contrario.
All’interno dell’Unione europea, i paesi del Nord prosperano e
prospereranno, mentre quelli del Sud soffrono. Ne deriva un’enorme
pressione politica da parte del Sud per avere qualche forma di
compensazione per la loro permanenza nell’euro. Credo che tale
compensazione alla fine diverrà insostenibile, dal punto di vista
economico ed elettorale. Non è un caso che nel Nord tutte le elezioni
abbiano registrato una vittoria o una significativa affermazione dei
partiti che si battono contro l’Unione europea.
Torniamo alle due ‘fazioni’ presenti anche all’interno di Syriza. Si direbbe che lei sostenga la seconda: in Tempo guadagnato definisce
l’introduzione dell’Unione monetaria europea un grave «errore
politico», simbolo di un «progetto di modernizzazione tecnocratica
socialmente spericolato». Perché?
L’errore principale sta nell’aver imposto una moneta unica a una
società eterogenea e multinazionale, un regime monetario molto rigido a
paesi e sistemi economici che non solo non ne traggono beneficio, ma ne
soffrono. L’euro impedisce ai paesi del Sud di usare lo strumento ella
politica monetaria per bilanciare la loro relazione con il resto del
mondo. Si tratta sostanzialmente della reintroduzione del Gold standard (il sistema di tassi di cambio fissi della valuta all’oro, ndr),
così come esisteva prima della prima guerra mondiale. John Maynard
Keynes aveva ragione quando negli anni Trenta del Novecento diceva che
non si può usare il Gold standard in un’economia. Perché? Perché con il Gold standard
un governo non ha strumenti per impedire che la popolazione si ritrovi
nei guai a causa della bassa competitività. Non ci sono difese
possibili. Le uniche sono quelle dell’abbassamento dei salari, della
riduzione dei diritti, etc, tutte quelle misure che in Italia ha provato
a introdurre Mario Monti. Le politiche economiche monetarie dell’Unione
rispecchiano l’idea tedesca della stabilità monetaria. Imporre tali
politiche a sistemi economici diversificati come quello italiano o
francese è stata un’insensatezza.
Nel suo libro scrive che «l’abolizione delle monete nazionali
e la loro sostituzione con una moneta unica facevano parte della logica
propria della svolta liberista, che mirava a liberare l’economia e il
mercato dagli interventi della politica», favorendo la «giustizia di
mercato» contro la «giustizia sociale». Ci spiega meglio?
L’euro è stato ‘inventato’ negli anni Novanta, quando tra i paesi
ricchi dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa, c’era consenso sul fatto che l’appropriazione delle risorse
economiche da parte dello Stato – in altre parole il processo
democratico – fosse andato troppo oltre e andasse fermato. Come? Con le
politiche dell’aggiustamento e del pareggio di bilancio. Ne seguì un
periodo di consolidamento fiscale in tutta Europa, nel quale sia a
Bruxelles sia al Fondo monetario internazionale era senso comune pensare
che i governi dovessero puntare innanzitutto a quello. Il guaio è che,
soprattutto se introdotto quando la capacità di tassare i ricchi è in
declino, il pareggio di bilancio ha delle implicazioni negative:
significa meno Stato, uno Stato più ‘snello’, e dunque privatizzazione
dei servizi e della sicurezza sociale, e ciò a sua volta significa che
gli effetti redistributivi dell’intervento pubblico (volti alla
giustizia sociale) spariscono in favore della giustizia del mercato.
Lei contesta non solo l’attuale funzionamento dell’eurozona,
ma l’equazione – data per scontata nel discorso pubblico – tra l’euro da
una parte e l’Europa e l’europeismo dall’altra. Come replica alla
cancelliera Angela Merkel, che continua a ripetere che «se l’euro
fallisce, allora fallisce anche l’Europa»?
Per me l’Europa rappresenta una cultura millenaria, non ha niente a
che fare con l’Unione monetaria. D’altronde l’Europa intesa anche come
unione politica esiste da prima dell’Unione monetaria. L’equazione tra
euro ed Europa è semplice ideologia. Ha la funzione di nascondere
interessi molto prosaici. Lo dimostra il caso della Germania. Il settore
esportazioni, trainante nell’economia tedesca, ha bisogno di un mercato
dell’export che impedisca ai paesi importatori di svalutare la propria
moneta come mezzo di protezione e difesa rispetto ai paesi esportatori.
L’euro in Germania è un dogma perché è il cuore della politica economica
ed estera. Angela Merkel è una donna molto intelligente, ma non nutre
alcun sentimento particolare verso l’Europa. In fondo sa anche lei che
l’equazione tra euro ed Europa è una sciocchezza.
Rimane il fatto che l’idea che esista una corrispondenza tra
la moneta-euro e il progetto politico europeo rimane ben radicata. Anche
tra i partiti di sinistra, perfino tra quelli che contestano l’Europa
dell’austerity. Da dove nasce quest’idea?
Forse per capirne qualcosa di più possiamo fare un passo indietro.
Alla nascita dell’Unione monetaria, che per ironia della storia fu
‘inventata’ da un francese, non da un tedesco. I francesi hanno sempre
sofferto il fatto che per tutto il dopoguerra abbiano dovuto svalutare
la moneta, contro quella tedesca. Ciò contraddiceva lo spirito della
grandeur nazionale. In più, a partire dagli anni Ottanta, tutte le
banche centrali europee seguivano le politiche interstatali della
Bundesbank, la banca centrale tedesca. I francesi pensarono dunque di
puntare a due obiettivi diversi, che si sarebbero dimostrati
incompatibili: europeizzare la Bundesbank, in modo da poterne
condizionarne la politica monetaria e introdurvi politiche economiche
‘francesi’, e allo stesso tempo usare la Banca centrale europea per
imporre maggiore disciplina all’interno dell’economia francese. Jacques
Delors, allora ministro francese dell’Economia e delle Finanze,
all’inizio degli anni Ottanta fu spedito dal presidente Mitterand in
Europa per favorire questo radicale mutamento della politica francese,
che mirava a una moneta stabile e all’internazionalizzazione
dell’economia. Lo stesso proposito che in Italia avevano Monti e i
bocconiani, che insieme agli economisti liberali francesi pensavano in
qualche modo di tornare al presidente Luigi Einaudi, un ordoliberale di
stampo tedesco, importando dalla Germania una certa idea di stabilità
economica che portasse all’indebolimento delle forze sindacali e dei
partiti di sinistra. In Italia e in Francia c’era anche chi pensava che
in questo modo si potesse imprimere alle politiche economiche europee
una direzione ‘mediterranea’. Fu uno sbaglio. Quando oggi gli italiani –
sbagliando – vedono in Mario Draghi l’eroe che introduce elementi non
liberisti nella politica monetaria europea contro la cattiva Merkel
dimostrano che la battaglia su cosa significhi l’unione monetaria è
ancora in corso.
Contrariamente a quanti difendono l’euro a tutti i costi,
indipendentemente dai risultati che ha prodotto o meno fino a oggi e da
quelli che ci si aspetta in futuro, lei non nasconde la sua idea di
«rinunciare all’euro nella veste di moneta unica», e ha proposto una
sorta di Bretton Woods europea. Di cosa si tratta?
Oggi di fronte a noi abbiamo due opzioni: aggravare l’errore
dell’euro, oppure favorire il ritorno in Europa a un sistema ordinato di
tassi di cambi fissi, ma aggiustabili in modo flessibile, che sappia
riconoscere e apprezzare le differenze tra le società europee. Nel mondo
già si è fatta esperienza della combinazione di due diverse politiche
monetarie, con una moneta ‘centrale’, di riferimento e di ancoraggio,
associata a monete nazionali ad essa legate. L’essenza di Bretton Woods
era proprio questa. Nel dopoguerra e fino agli anni Settanta, questo
sistema ha permesso a paesi come l’Italia e la Francia di fare delle
concessioni interne, soprattutto ai partiti comunisti e ai sindacati, in
termini di concessioni salariali e generose politiche sociali, e di
correggere il generale orientamento economico volto soltanto a una
maggiore competitività, aggiustando l’inflazione o il deficit. È un
esempio di come si possano gestire sistemi politici diversificati e allo
stesso tempo far parte di un’economia internazionale. Non è un caso che
molte persone stiano ragionando su questa possibilità. Lo fanno,
insieme tra loro, l’economista greco Lavapitsas e l’ex ministro delle
Finanze tedesche Oskar Lafontaine.
Nel suo libro sottolinea che ciò non significa che l’euro dovrebbe essere abolito. Nel caso della Grecia, cosa comporterebbe?
L’adesione della Grecia all’Unione monetaria europea non funziona.
Non può reggere. Va trovata una via d’uscita. Se la Grecia intende
recuperare almeno una parte del controllo democratico sulla sua economia
e cessare di essere un distretto della Germania, alla fine dovrà uscire
dall’euro. Una soluzione potrebbe essere quella di reintrodurre la
moneta nazionale in parallelo all’euro. Se i salari pubblici versati
dallo Stato e altre forme di pagamento fossero diciamo per il 70% in
euro e per il 30% nella moneta locale, nel mercato ci sarebbero
meccanismi di aggiustamento tra le due monete. Non sarebbe un passaggio
del tutto inedito. Forse, è l’unica maniera per evitare la bancarotta
del paese.
Eppure nel dibattito pubblico sembra che le uniche due soluzioni, tra loro opposte, siano più austerity o default…
È vero. Anche sul fronte greco non se ne parla molto, perché si vuole
ottenere quanto più possibile dall’Europa. Condivido questa strategia: a
volere la Grecia nell’eurozona sono stati soprattutto la Germania e la
Francia. E allora che ne paghino il conto. Conoscevano i problemi greci,
il clientelismo, la corruzione, eppure l’hanno ammessa. Perché? Perché
alla fine degli anni Novanta la Grecia, che non riusciva ad attingere al
mercato del capitale privato, dipendeva dai trasferimenti di Bruxelles
tramite i programmi di aggiustamento. Ma era un periodo nel quale i
maggiori paesi europei stavano consolidando il proprio budget, mentre
alti paesi – pensiamo ai Balcani – reclamavano nuovi finanziamenti.
Annettendo la Grecia all’eurozona, Francia e Germania hanno pensato che i
greci potessero prendere in prestito il denaro anziché riceverlo sotto
forma di sussidi. Così la Commissione europea e alcuni governi hanno
fatto intendere ai mercati finanziari che il debito greco fosse in
qualche modo un debito europeo. Nel 2009 invece, a causa della
situazione economica generale, i tedeschi hanno cominciato a dire che il
debito greco era soltanto greco. I problemi veri sono cominciati
allora.
Vuol dire che il governo greco ha tutte le ragioni per tenere alto il livello dello scontro con la Troika?
Qui in Germania è diffusa la percezione che i greci siano i ‘cattivi
ragazzi’, perché pretendono troppo. Al contrario, dovrebbero chiedere di
più. Hanno diritto a farlo. I vari Schröder, Monti, Chirac, i leader
europei del periodo in cui si è affermata questa particolare concezione
dell’Unione monetaria e della politica economica comune, potrebbero
essere chiamati in tribunale: devono rispondere di aver mentito ai
propri ‘clienti’ sulla validità e sulla solidità dei prestiti che
stavano erogando, o sui quali ‘garantivano’. Quanto ai greci, nel
momento in cui hanno accettato i prestiti avevano ragione di credere
che li stavano ricevendo come ricompensa per la disponibilità ad
accettare il Gold standard in economia, una cosa ridicola sin
da allora, ridicola almeno quanto la dollarizzazione dell’economia
argentina. Gli europei distribuivano il veleno al governo greco. E il
governo greco a quel tempo era abbastanza corrotto da distribuirlo al
proprio popolo.
Secondo la sua analisi, il fatto che per i paesi debitori sia
sempre giusto e doveroso ripagare i propri debiti «è un mito che serve a
costruire il mito della moralità dei mercati finanziari globali». La
sovranità di uno Stato si esercita anche decidendo di non pagare i
debiti?
Storicamente, ci sono stati molti governi che hanno negoziato con i
creditori un alleggerimento o una ristrutturazione del debito, o che si
sono semplicemente rifiutati di pagare. Non c’è nulla di morale in
questo. Dipende dai casi. Senza contare che se un debitore finisce in
bancarotta, in parte è anche colpa dei creditori, che non sono stati
abbastanza vigili. Le banche fanno operazioni di controllo del rischio:
gestiscono un portfolio di prestiti distribuito in modo tale che la
percentuale minoritaria di debitori insolventi non pregiudichi il
profitto totale. Da una banca ci si aspetterebbe questa forma di
responsabilità. Se una banca decide di comprare titoli di stato greci,
lo fa perché ritiene che dietro al rischio ci sia una forma di
assicurazione politica che quei crediti verranno comunque rimborsati.
Per questo, possiamo criticare i creditori quanto i debitori.
È molto diffusa l’opinione che la crisi finanziaria e fiscale
degli Stati europei mediterranei, e non solo, vada ricondotta al fatto
che la popolazione abbia prelevato per sé, a causa di un eccesso di
democrazia, troppe risorse dai fondi pubblici. Lei sostiene invece che
la causa dell’indebitamento pubblico vada ricercata non «nelle spese elevate, bensì nelle basse entrate dovute a un’economia e a una società fondate sul principio dell’individualismo della proprietà privata». Ci spiega meglio?
Su questo, il punto di vista va rovesciato. I governi devono sempre
trovare un equilibrio tra le richieste dei cittadini e quelle dei
‘creditori’, ma per farlo devono essere in grado di tassare l’economia.
Se trovano resistenza alla tassazione, ecco che si crea un deficit.
Negli anni 70 la spesa sociale è cresciuta molto, specie per i benefit
legati alla disoccupazione. Quell’aumento non dipendeva però
dall’eccesso di benefit e di tutele sociali, ma dall’incapacità del
sistema di creare e mantenere posti di lavoro. Intendo dire che i
governi sono tenuti a compensare i danni causati da un’economia
capitalistica che si evolve velocemente a scapito della struttura
sociale e della sua tenuta. In Italia si criticano sempre le
baby-pensioni. É una cosa stupida. Non è questa la causa della crisi
fiscale dello Stato. Le vere spese sono quelle che lo Stato effettua per
garantire le precondizioni affinché i mercati possano operare, oltre a
quelle con cui compensa i danni dell’economia liberista. Stiamo
sperimentando un problema sistemico: i costi per il mantenimento
dell’economia capitalistica eccedono i benefici che ne ricaviamo. La
natura sociale della produzione e la natura capitalistica delle
relazioni di proprietà collidono. Dietro la crisi fiscale c’è questo.
C’è una scuola di pensiero – riconducibile a Jürgen
Habermas, con cui lei ha polemizzato all’uscita del suo libro – che
dice: ‘è vero, esiste un deficit democratico in Europa, ma si può
colmare politicamente, attraverso un processo di democratizzazione che
culmini in una vera Costituzione europea’. Lei è molto scettico su
questa possibilità. Perché?
Perché non si può elaborare alcune teoria istituzionale democratica
senza tener conto della politica economica. Habermas ragiona in termini
di diritto internazionale, di teorie istituzionali, ma se non teniamo
conto dei fattori sistemici sottostanti, se non consideriamo le ragioni
per cui la produzione capitalistica schiaccia il pubblico, qualsiasi
invenzione istituzionale non risolverà nulla. Occorre riconoscere
seriamente il problema attuale: il modo di produzione capitalistico è in
guerra con la democrazia e con le società democratiche. Tutto ciò è
evidente nel Mediterraneo: la disoccupazione giovanile lascerà tracce
importanti, nella testa dei giovani e nella loro capacità di accumulare
reddito. Pretendere che non sia importante è insensato. Davvero non
riesco a capacitarmi di come un uomo così intelligente ancora creda che
la democrazia europea possa essere una sorta di democrazia giacobina, in
cui ciascuno vota per un partito, esiste un parlamento centrale
rappresentativo di tutti ma non esistono i mercati, la finanza
internazionale, gli egoismi nazionali. Nessuno ha idea di chi scriverà
una eventuale Costituzione europea sovranazionale, e tantomeno di come
potrebbe passare nei parlamenti nazionali, dove sono fortissimi i
partiti contrari all’integrazione europea. Al contrario di quel che
pensa Habermas, molti paesi vogliono stare in Europa non perché mirino a
una Costituzione unica e democratica, ma per proteggere la propria
nazionalità. Pensare alla Costituzione europea mi pare irrealistico.
Soprattutto oggi, quando abbiamo problemi ben più importanti da
risolvere. E molto in fretta.
Fonte: L'Espresso
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