La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 30 luglio 2015

Bisex. Ubriaca e di facili costumi

di Bia Sarasini 
È bru­tale, la sen­tenza del pro­cesso di appello che assolve sei ragazzi impu­tati di stu­pro di gruppo, già con­dan­nati in primo grado a quat­tro anni e mezzo, un fatto avve­nuto a Firenze nel 2008. Bru­tale non solo per­ché dice che il fatto non sus­si­ste, cioè che la ragazza ha sem­pre con­sen­tito a quanto avve­niva, ma per la moti­va­zione. Che usa psi­co­lo­gia disin­volta e cat­tiva let­te­ra­tura per inchio­dare la ragazza a «un’energica reazione». 
Suc­ces­siva ai fatti, «evi­den­te­mente per rispon­dere a quel discu­ti­bile momento di debo­lezza e fra­gi­lità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto con­su­mare e rimuo­vere».
Insomma, il fatto che la mat­tina dopo la ragazza abbia denun­ciato sarebbe stato il ten­ta­tivo di riscatto di una il cui rac­conto «con­fi­gura un atteg­gia­mento sicu­ra­mente ambi­va­lente nei con­fronti del sesso». In altri ter­mini, è il modo di vivere della ragazza che è stato inda­gato, e che for­ni­sce la moti­va­zione dell’assoluzione. Insomma, se l’è cer­cata. Una facile, una che ci è stata. Il col­le­gio giu­di­cante si offen­derà di parole così ridut­tive, rispetto a una sen­tenza che si misura nelle sot­ti­gliezze di un’interpretazione. 
«Un rap­porto di gruppo che alla fine nel suo squal­lore non avrebbe sod­di­sfatto nes­suno, nem­meno coloro che nell’impresa si erano cimen­tati», è forse la frase-capolavoro di que­sta sen­tenza, rima­sti­ca­mento pru­ri­gi­noso di cinema e miti let­te­rari male assi­mi­lati, per appro­dare alla neb­bia indi­stinta: nes­suno è colpevole. 
È la scena che crea con­fu­sione. La pro­ta­go­ni­sta non rap­pre­senta «uni­vo­ca­mente una pre­de­sti­nata vit­tima di vio­lenza», come ha detto uno degli avvo­cati dei con­dan­nati che hanno ricorso in appello. Una ragazza libera, dal com­por­ta­mento ses­suale libero. Bises­suale, fem­mi­ni­sta, mili­tante lgbt. Una serata in disco­teca, dove si è bevuto molto, dove c’era già stato del sesso, tra la ragazza e uno degli impu­tati poi assolti. Dove c’era per­fino un toro mec­ca­nico, su cui si era esi­bita, men­tre beveva molto, tanto da essere «mal­ferma sulle gambe», e all’uscita por­tata a brac­cia, dal gruppo. Tanto da susci­tare domande, sia di una coe­ta­nea che degli addetti della sicu­rezza. A cui lei ha rispo­sto cer­cando di ras­si­cu­rare, che andava tutto bene. Insi­sto con i det­ta­gli, che pos­sono risul­tare urtanti e fasti­diosi, per­ché sia chiaro cosa vuol dire soste­nere la libertà di una donna. Il con­fine dovrebbe risul­tare lim­pido. Essere dispo­ni­bile a gio­chi ses­suali, sbron­zarsi, avere rela­zioni plu­rime, non essere cioè una ragazza «per­bene», rende di per sé una donna con­sen­ziente, una che non può dire: no, non voglio? 
È stato molto citato, giu­sta­mente, «Pro­cesso per stu­pro», il film di Lore­dana Rotondo del 1979. A me viene mente anche «Sotto Accusa», il film del 1988 di Jona­than Kaplan con Jodie Foster nella parte della vit­tima e Kel­lie McGil­lies che inter­preta l’avvocata che la difende. Una sto­ria, a sua volta ispi­rata a un fatto vero, molto simile a quello di Firenze. Penso che nel nostro paese – e non solo – ci sia molto biso­gno di capire cosa sia la libertà fem­mi­nile. Non coin­cide con l’essere irre­pren­si­bili. Anzi. E agli uomini, ai ragazzi non si chiede di esserlo. La ses­sua­lità è un ter­reno aperto, i gio­chi e le rela­zioni pos­si­bili sono mol­te­plici, non tutto è rubri­ca­bile nel bon ton e nel buon gusto. Eppure. Sei ragazzi intorno a una coe­ta­nea, un’amica per uno di loro, ubriaca. È così ovvio tro­vare tutto nor­male? Risol­verla con: ci sta? 
Dice la sen­tenza di Firenze: «E qui dav­vero non vi è alcuna cesura apprez­za­bile tra il pre­ce­dente con­senso e il pre­sunto dis­senso della ragazza che era poi rima­sta in “balia” del gruppo (“ho pro­prio stac­cato la testa, ho pen­sato di essere morta…, non pen­savo più, non guar­davo più”)». È il pas­sag­gio chiave, bru­tale e cru­dele. Per­ché di fronte alla scena di una donna, ubriaca, con sei uomini, in mac­china, non la ascolta. 
Anzi irride, rimar­cando poi la man­canza di suf­fi­cienti segni di vio­lenza.
l'altra sera, a Firenze, pro­prio alla For­tezza da Basso, c’è stata una mani­fe­sta­zione. Con lo slo­gan: «La libertà è la nostra fortezza».

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