di Fabiano Schivardi
E così un altro pezzo pregiato dell’industria italiana passa in mani
straniere: HeidelbergCement, multinazionale del cemento con sede in
Germania, acquista dalla famiglia Pesenti la quota di controllo di
Italcementi, maggior produttore di cemento italiano. Inevitabile che la
notizia faccia rumore. Dopo i francesi (Parmalat e il lusso), gli
americani (Indesit), i cinesi (Pirelli), anche i tedeschi vengono a fare
shopping in Italia. Stiamo veramente svendendo l’argenteria? E quali
sono le conseguenze per il nostro sistema produttivo?
Da un punto di vista economico e finanziario l’operazione non fa una
grinza, specie se il punto di vista è quello di Italcementi. L’industria
del cemento è stata colpita duramente dalla crisi, risentendo delle
difficoltà del settore delle costruzioni. Sono stati anni di perdite e
di calo dei corsi azionari: al picco del maggio 2007, le azioni
Italcementi valevano quasi 25 euro; ieri (prima che l’accordo venisse
rivelato), circa 6 euro.
Ci sono anche altri fattori più strutturali che giocano un ruolo
importante. La produzione di cemento è caratterizzata da ritorni di
scala crescenti e da una struttura di mercato oligopolistica. Questi
fattori spingono verso un consolidamento fra i produttori. Il 15 luglio
scorso la fusione fra Holcim e Lafarge
ha generato il primo produttore mondiale, con sede legale in Svizzera e
presenza in novanta paesi. L’accordo fra Italcementi e HeidelbergCement
è un ulteriore passo in questa direzione.
Era un passo obbligato? La società italiana è un produttore importante
ma lontano dai “global player” destinati a dominare il mercato.
LafargeHolcim ha una capacità produttiva di 427 milioni di tonnellate
annue, HeidelbergCement di 129, Italcementi di 60. In termini di
quotazione, Italcementi valeva prima dell’annuncio 2,3 miliardi,
HeidelbergCement 13,8. Numeri che lasciano poco spazio alla fantasia: da
una parte Italcementi da sola avrebbe avuto una prospettiva difficile,
dall’altra il pesce piccolo difficilmente riesce a mangiare quello
grosso. È condivisibile l’affermazione del presidente di Italcementi,
Giampiero Pesenti: non conta il controllo dell’impresa, ma le sue
prospettive di sviluppo. E queste sono migliori all’interno di un gruppo
globale.
Da un punto di vista finanziario, non si tratta certo di una svendita.
HeidelbergCement paga ogni azione 10,6 euro, con un premio di circa il
70 per cento rispetto alla quotazione media degli ultimi due mesi. A
dimostrazione del fatto che l’offerta è generosa, il giorno dopo
l’annuncio il valore delle azioni Italcementi è schizzato del 50 per
cento, mentre quelle di HeidelbergCement perdono a metà giornata il 7
per cento: il mercato ritiene che il compratore stia pagando troppo.
Grazie alla normativa sull’OPa obbligatoria, il prezzo pattuito per il
pacchetto dei Pesenti sarà offerto a tutti gli altri azionisti: per
fortuna sono finiti i tempi in cui i piccoli azionisti erano il “parco
buoi” alle cui spalle venivano fatti gli accordi per i passaggi di
controllo.
Rimane il timore che un controllante estero penalizzi i siti produttivi
italiani. È però un timore poco fondato nel settore del cemento: a causa
degli alti costi di trasporto, la produzione deve avvenire vicino a
dove il materiale viene utilizzato. Non c’è quindi il rischio di
scomparsa della produzione in Italia. Resta invece il problema
dell’eccesso di capacità produttiva, stimata nell’ordine del 30 per
cento. Rischi per l’occupazione quindi ce ne saranno, ma non legati alla
nazionalità del controllante.
Il problema è la famiglia
Se l’operazione in sé è difficilmente criticabile, rimane il fatto
che nel processo di consolidamento internazionale le nostre imprese
finiscono quasi immancabilmente a fare la parte delle prede. Il problema
è che anche quelle di dimensioni medio-grandi, sono in gran parte a
controllo familiare, poco adatte a evolversi nei “global player” che
stanno guidando il consolidamento. Anche nei casi di maggior successo
mancano risorse finanziare e manageriali per diventare multinazionali di
grandi dimensioni: si pensi ad esempio alla Ferrero, impresa familiare
di grandissimo successo, ma che rimane relativamente piccola nel
panorama dell’alimentare, dominato da grandi multinazionali quali la
Nestlè o la Coca-Cola.
Di fronte alla crescente competizione
internazionale, alcune famiglie imprenditoriali preferiscono rinunciare
al controllo dell’impresa e trasformarsi in gestori di portafogli di
partecipazioni azionarie. Esempi sono il Gruppo Partecipazioni Industriali
per la famiglia Pirelli-Tronchetti, Exor per gli Agnelli, Edizione per i
Benetton, Italmobiliare per i Pesenti stessi. Questa evoluzione è di
per sé sensata. Quando un business diventa molto grande, ha bisogno di
capitali ingenti e di manager professionali (e licenziabili in caso di
cattivi risultati). Per una famiglia ha poco senso concentrare (e
mettere a rischio) gran parte della propria ricchezza in una sola
impresa.
Il problema non è tanto il
ritirarsi delle famiglie dalle grandi imprese, quanto l’assenza di una
struttura di proprietà e di controllo alternativa che possa governare le
imprese quando diventano troppo grandi per il controllo familiare. Le
multinazionali sono tipicamente aziende ad azionariato diffuso, spesso
con fondi di investimento che detengono quote di minoranza, ma in grado
di esercitare il controllo sull’operato del management. Questo modello
richiede un mercato borsistico che funzioni e una serie di fondi
interessati a detenere partecipazioni azionarie nelle imprese. In
Italia, sia la borsa sia il mercato dei fondi sono ancora troppo poco
sviluppati. Siamo in ritardo sui fondi pensione, che fornirebbero una
domanda di capitale di rischio stabile e con prospettive di medio lungo
periodo. Sono assenti grandi fondi di private equity, specializzati in
operazioni di crescita o di ristrutturazione. Lo sviluppo dei fondi
comuni è limitato dal fatto che molti sono controllati dalle banche,
creando situazioni di conflitto di interessi. In questa situazione, sono
i fondi esteri quelli più attivi sul mercato azionario italiano. Questa
“colonizzazione” fa meno notizia dei passaggi diretti di controllo, ma
non è certo meno importante: il fondo BlackRock è uno dei principali
investitori delle società quotate nella borsa italiana.
Di fronte al progressivo
disimpegno delle famiglie imprenditoriali, è necessario che il paese si
doti di strutture alternative di proprietà e controllo. Tutte le imprese
nascono familiari. Ma per trasformarsi in “global player” è necessario
che aprano il capitale e la gestione ad apporti esterni. Serve un
sistema finanziario in grado di fornire questi apporti, in assenza del
quale l’opzione estera è l’unica perseguibile.
Fonte: lavoce.info
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