di Benedetto Vecchi
Populismo 2.0. È l’espressione che ricorre
abitualmente per qualificare l’esperienza politica di Podemos, il
partito spagnolo che ha terremotato il panorama politico
iberico. Gli analisti, come sempre, mettono in evidenza le
distanze, gli elementi di discontinuità dal pensiero politico
classico, inscrivendo questa giovane formazione nell’alveo, tutto
sommato tranquillizzante, del populismo di matrice
latinoamericana. Una cornice tesa a demonizzare le potenzialità
elettorali di Podemos, collocando la sua azione al di fuori di una
dimensione costituzionale e ai margini della tradizione
democratica europea. A leggere il volume di Pablo Iglesias Turrion Disobbedienti (Bompiani,
pp. 300, euro 18; ne ha già scritto su questo giornale Giuseppe
Caccia in occasione della sua uscita spagnola il 14 febbraio scorso,
ndr) tale semplificazione va in mille pezzi. Con
un’avvertenza: ciò che viene qualificato come antisistema non viene
smentito, ma arricchito semmai di molti elementi che collocano
Podemos nella critica della democrazia rappresentativa.
Cosa che
non esclude tuttavia una forma istituzionale fondata su un
dinamico equilibrio tra democrazia diretta e, appunto, la sua forma
rappresentativa attraverso il riconoscimento delle figure di
autogoverno messe in campo dalla società civile in una successione
di mutuo soccorso, cooperative sociali, sindacalismo di base che
trovano il loro coordinamento dentro la Rete.
Nella proposta di Podemos
forti sono gli echi di un insieme eterogeneo di teorici,
economisti, filosofi che vengono utilizzati, forzati per dare
potenza comunicativa alle posizioni del partito. C’è ovviamente il
teorico della «ragione populista» Ernesto Laclau, la filosofa
dell’«agonismo pluralistico» Chantal Mouffe, ma anche
l’economia-mondo di Immanuel Wallerstein, la tecnopolitica «à la
Manuel Castells» e la sovranità imperiale di Toni Negri.
Un’eterogeneità teorica che non rappresenta un problema per
Podemos, visto che sono privilegiate le esperienze di
autorganizzazione e di comunicazione attraverso stili
enunciativi che talvolta ricordano quelli del marketing politico
o della pratica «autoriflessiva», che hanno nei social media il loro
contesto privilegiato. Questo libro arricchisce tuttavia la
storia di Podemos di elementi, esperienze che hanno condizionato
non poco il piccolo gruppo di intellettuali, mediattivisti,
militanti che hanno di fatto fondato il partito. La genesi di
Podemos, infatti, viene fatta discendere dai movimenti sociali degli
anni Novanta del novecento, a partire dalle italiane Tute bianche
prima e disobbedienti poi.
Il volume è il risultato di una
ricerca universitaria che Iglesias ha condotto assieme ad altri
ricercatori sui movimenti sociali spagnoli fino all’intensa
stagione degli Indignados, che sono interpretati come l’ultimo
capitolo di una storia che inizia con la rivolta zapatista in
Chiapas, ha il suo sviluppo nelle mobilitazioni no-global e si
conclude appunto con gli Indignados, che mettono in evidenza il
potere espresso dai movimenti, ma anche i limiti, i vicoli ciechi, le
aporie che li ha contraddistinti.
La coppia «conflitto e consenso»
Utilizzando
gli strumenti propri della ricerca sociale, Iglesias passa in
rassegna i documenti, gli articoli, i saggi scritti dalle Tute
bianche italiane o quelli firmati dallo scrittore collettivo Wu
Ming ‚per poi dare la parola ad alcuni portavoce delle tute bianche
(Luca Casarini, ad esempio). Ne emerge un affresco che si propone
come una contro storia del neoliberismo globale e della crisi
radicale dei partiti della sinistra su scala europea. Per Iglesias,
il neoliberismo è stato un fenomeno mondiale che ha però
incontrato forme di resistenza inedite sia per il lessico politico
usato che per la composizione sociale dei movimenti che si
opponevano ad esso.
Lo zapatismo, in primo luogo,
privilegiato non per le analisi sulla globalizzazione, bensì per
la rete di comunità indigene che sono alla base dell’esercito
zapatista di liberazione nazionale, esemplificazione di una
democrazia diretta e di una organizzazione distante anni luce dagli
eserciti popolari della lotta armata latinoamericana. La
comandancia obbedisce al popolo e non viceversa
Dunque nessuna struttura
gerarchica piramidale, ma una rete sociale e politica che prende
decisioni in base alla polarità del conflitto e del consenso. Il
secondo aspetto che si impone con lo zapatismo è la comunicazione,
cioè un ordine del discorso indirizzato alla società civile
organizzata — una chimera che ha avuto una certa fortuna teorica
nel passaggio al nuovo millennio soprattutto in America Latina —
che ha finalità anche organizzative. E se in Messico questo ha
preservato l’esperienza zapatista dalle dinamiche tipiche
e perdenti del fochismo o degli eserciti popolari
latinoamericani, dall’altra parte dell’Oceano, cioè in Europa, lo
zapatismo ha costituito un potente produttore di immaginario
dove il neoliberismo non è la fine della storia ma il contesto
nel quale «produrre» quell’altro mondo possibile che non ripercorra
le tristi strade del socialismo reale, come pochi anni dopo
affermeranno i movimenti no global. Emerge nel libro una ripresa,
ovviamente innovata, dello speech in, della street parade, cioè di pratiche comunicative e al tempo stesso di forme di mobilitazione che hanno radici nel mouvement statunitense degli anni Sessanta.
Cortocircuiti e significanti vuoti
La
storia tuttavia non segue traiettorie lineari. Ci sono sempre
cesura, discontinuità. E continuità. La discontinuità tra Podemos
e i disobbedienti è da cercare nell’analisi del Politico che la
giovane formazione politica spagnola propone. La continuità
è invece da cercare nella tensione a immaginare forme di azione
politica e sociale che risponda alla coppia «conflitto-consenso». Sul
politico è evidente una rivisitazione critica di Ernesto Laclau.
È
stato più volte affermato che Podemos flirta con il populismo,
cercando così di qualificare il partito di Iglesias come una
formazione antisistema. Un’accusa che manca completamente il
bersaglio: la «ragione populista» di Laclau pone infatti il
problema del governo e della capacità di mediazione che esso può
esercitare tra i tanti interessi particolari che scandiscono la
realtà sociale. In un lungo testo pubblicato dal sito Euronomade (Egemonia: Gramsci Togliatti, Laclau)
Toni Negri evidenzia, a ragione, la vocazione governativa delle
tesi di Laclau, che sono però rintracciabili anche in Podemos. Al di
là dell’aspetto retorico che questo partito pone sul superamento
della distinzione tra destra e sinistra, emerge nei suoi documenti
e nella parte finale di questo libro un cortocircuito teorico
e dunque politico. La società spagnola, e più in generale quella
capitalista, è segnata, secondo Podemos, dalla differenza tra chi
sta sopra e chi sta sotto, tra ricchi e poveri, tra impoveriti dalla
crisi e arricchiti dalla crisi, facendo leva su quel significante
vuoto che è la «casta».
Compito di Podemos è di
inventare politicamente il popolo. Da questo punto di vista non
siamo così lontani da quel Louis Althusser che sosteneva che la
classe doveva essere prodotta come soggetto politico dal partito.
Podemos si propone di inventare non la «classe», bensì il popolo
attraverso un dispositivo politico — il partito? il governo? — che
ha vocazione universale. Ernesto Laclau non poteva trovare migliori
interpreti della sua analisi del Politico. Manca in tutto ciò
qualsiasi riferimento alle trasformazioni sociali e ai rapporti
sociali di produzione del capitalismo contemporaneo. E non
è certo qualche timido riferimento all’economia mondo di Immanuel
Wallerstein che può colmare questo vuoto.
Problemi «tecnopolitici»
Il
sociale per Podemos è un indistinto irriducibile a qualsiasi
forma di sintesi: questa deve venire necessariamente dall’esterno,
cioè da un partito, che certo incoraggia forme di
autorganizzazione — come ad esempio è accaduto a Barcellona — ma
vede solo nel governo, meglio nell’esercizio del governo una funzione
propulsiva, unificante. Ciò che sembrava uscire dalla porta — la
forma partito come unica dimensione della politica — rientra dalla
finestra come strada maestra per conquistare non il potere, bensì il
governo. Una semplificazione che entra in rotta di collisione con
la redifinizione della forma stato nella globalizzazione. Non
è però questo un problema che può essere facilmente liquidato come
deviazione da una improbabile e precostituita retta via
Sullo
sfondo c’è infatti la differenza tra esercizio del potere
e esercizio del governo, perché questo secondo termine non
coincide necessariamente con il primo. È d’altronde questo uno dei
nodi che l’esperienza dei disobbedienti — ma anche di altri movimenti
sociali — non è riuscito a sciogliere. Podemos aggira l’ostacolo
facendo leva sulla comunicazione come forma anche organizzativa.
Qui c’è continuità piena con la stagione della disobbedienza. Si
può chiamarla «tecnopolitica», come hanno fatto in Spagna, oppure
in altri modi, ma la comunicazione — la sua produzione,
circolazione — è il contesto nel quale si manifestano i
«particolari» del sociale e nel quale un partito li mette in
relazione.
Antiautoritari e carismatici
Siamo
ovviamente in una situazione dove viene auspicato l’incontro tra
differenze, scegliendo la rete come modello organizzativo. Il
partito proposto da Podemos non è riconducibile ai modelli della
socialdemocrazia o del comunismo novecentesco. È un ibrido che
tra tradizione libertaria e antiautoritaria e procedure
decisionali che hanno come garanti leader carismatici ai quali
è implicitamente delegata la gestione dell’organizzazione. Per
Podemos tutto ciò serve a sbrogliare la matassa del consenso e del
conflitto: il primo si costruisce attraverso la comunicazione, il
secondo si manifesta nella sua elementarità e sta al politico,
cioè al partito il compito di porlo a sintesi
La centralità
sta dunque nella funzione di mediazione che il governo può
esercitare. C’è in questa prospettiva — e qui c’è una presa di
distanza implicita dall’esperienza della disobbedienza — una
primazia della ricerca del consenso, rispetto al conflitto, come se
fossero termini antitetici. In altri termini, il conflitto può
dispiegare la sua capacità di modificare gli assetti di potere solo
dopo la costruzione del consenso, dimenticando che sono invece
elementi temporalmente contigui: è il conflitto a produrre
consenso e non viceversa. Temi e argomenti che sono all’ordine del
giorno, se si guarda con disincanto partecipe a quanto sta accadendo
in Grecia. E in Spagna, dopo la conquista del governo in molte
grandi città da parte di coalizioni politiche che vedono Podemos
come protagonista.
Questo non significa però
rifiutare la scommessa insita nella gestione del governo, ma pensare
che conquistare una maggioranza parlamentare o comunale non
coincida con la conquista del potere. Su questo crinale si aprono
scenari inquietanti, difficili da padroneggiare, ma anche
entusiasmati. Significa fare i conti con il capitalismo reale,
i suoi rapporti di potere, la centralità per ogni movimento dei
rapporti sociali di produzioni, con le tanti, differenziate,
eterogenee figure del lavoro vivo, del dispositivo — dunque dei
conflitti — che possono mettere in crisi di rapporti di potere.
Stare quindi dentro la grande mareggiata della crisi. Situazione
pericolosa, che potrebbe essere esorcizzata invocando chissà quale
salvifico potere destituente dei movimenti. Ma come diceva un poeta,
dove massimo è il pericolo, massima è la possibilità di salvezza.
Fonte: il manifesto
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