di Giuseppe Amari
Giorni fa, in pieno dramma greco, Antonio Polito
scriveva un editoriale su Il Corriere delle Sera, il cui incipit era:
Non c'è Europa senza Euro, non c'è Euro senza Europa. Il fatto che
affermazioni del genere trovino spazio in un quotidiano storico a
tiratura nazionale come questo, dà per intero la povertà e il livello di
certa analisi, almeno di quella “ufficiale”. La prima affermazione è
infatti un falso storico ed attuale.
La Comunità europea c'era
prima dell'Euro, oggi ci sono paesi che non fanno parte dell'eurozona,
ed è concepile anche senza una moneta comune. La seconda affermazione,
non c'è Euro senza Europa, è poi una banalità assoluta che non vale la
pena commentare. Si è fatto dell'Euro un feticcio facendolo coincidere con la stessa idea di Europa.
Scambiando i mezzi con gli obiettivi e spesso sbagliando anche questi.
Essendo la moneta un mezzo e l' “obiettivo ideale un mondo in cui il
progresso sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello
sviluppo economico”1
; che nemmeno c'è e difficilmente ci potrà essere in tali condizioni.
La tesi dei propugnatori, in buona fede, della moneta unica era che
questa avrebbe favorito politiche istituzionali, economiche e sociali di
armonizzazione tra i paesi europei, insieme al processo di unificazione
politica. Inoltre, avrebbe costretto i medesimi paesi ad affrontare le
antiche e nuove tare e le proprie debolezze nazionali2.
In un'Europa in cui persiste un forte dumping sociale e persino fiscale
(Junker docet, e non da solo), mentre si impediscono (a discrezione)
gli “aiuti di Stato”. Tutto questo non è avvenuto, e il principio della
realtà, e non quello dell'arroganza intellettuale e soprattutto degli
interessi, vorrebbe che si riconoscesse che l'Euro ha ottenuto l'effetto
contrario nei suddetti campi. Trascinando al ribasso tutti gli
indicatori economici e sociali europei, in particolare di quelli
aderenti all'Eurozona, e con maggior danno ovviamente dei paesi più
deboli3.
Eppure,
per memoria dei tanti inquisitori dell'attuale governo tedesco, che non
fa che ribadire con tetragona fermezza la politica nota da sempre del
suo paese, va ricordato che il cancelliere socialdemocratico Schmidt
implorava, a suo tempo, il nostro ministro dell'economia C. A. Ciampi
del governo Prodi, a non entrare nell'Euro perché non ce l'avremmo fatta
a sostenere quel sistema. Come è noto, i “sacrifici” accelerati negli
anni precedenti per avvicinare i parametri richiesti (ma non quello
debito pubblico / PIL) per l'ammissione all'Euro, non furono capiti
dall'elettorato che infatti votò per Berlusconi. E, subito dopo
l'ingresso nell'Euro, almeno in Italia, abbiamo subito un veloce e
spropositato aumento dei prezzi, non rilevato dalle fonti ufficiali che
ancora sostengono una sorta di illusione da “percepimento” da parte di
milioni di persone, nell'assordante silenzio generale delle forze
politiche e sociali. Mentre lo straordinario e correlato aumento dei
profitti non è certo andato al rafforzamento del tessuto produttivo del
Paese, ma in finanza prevalentemente all'estero. Che le politiche
deflazionistiche tradizionali della Germania non siano la ricetta per la
ripresa dello sviluppo, e quindi anche per il pagamento del debito
della maggior parte dei paesi europei, è cosa di evidenza logica e
soprattutto storica. Lo ricorda ancora una volta P. Krugman in un
recente articolo4.
Ma
l'aver fatto di Schoible il capro espiatorio di tutto serve a
nascondere l'accettata subalternità delle classi dirigenti europee,
tanto da poter pensare ad una sorta di sindrome da Vichy. E soprattutto
dimenticare che è non meno pericoloso l'abile governatore della BCE che
sa benissimo come questa “trappola per topi”, con il suo mantra
“austerità per lo sviluppo”, indebolisca economicamente, socilamente e
politicamente l'Europa, a tutto vantaggio dei poteri dominanti,
soprattutto finanziari anglo americani. Volutamente o meno, è in fondo
la stessa tecnica usuraia abbondantemente usata nell'America latina:
indebitamento insostenibile e dipendenza politica. Magari in attesa
dell' ”assorbimento” - Germania inclusa con il suo modello sociale che
andrebbe invece difeso - da parte americana di cui il Ttip potrebbe
rappresentare un primo passo. L'offensiva in Italia contro il modello
cooperativo nel credito ne è probabilmente un segnale. Un'agonia,
innanzitutto per le fasce più deboli che devono pagare i contenuti della
“lettera BCE“ neoliberali (ma solo per il lavoro beninteso),
antisociali e neoautoritari come la politica del nostro Governo
(politiche permanentemente antisociali non possono che prevedere governance
di tipo autoritario). Sia detto per inciso, anche la recente promessa
di alleggerimento fiscale “in cambio delle riforme” ha poco a che vedere
con le promesse elettorali berlusconiane e molto con l'attuazione del
programma BCE. Una lenta agonia che pagano e pagheranno i ceti popolari
dei paesi più deboli per la permanenza in questa europa e in
particolare nell'eurozona. Paesi che - rebus sic stantibus - sono
destinati alla stessa sorte del Mezzogiorno d'Italia. E ad onta dei
tanti benintenzionati non si vede perché debba cambiare lo “stantibus”.
Non a caso oggi Draghi è l'unico vero interlocutore della Merkel con il
soccorso, in caso di emergenza, del FMI e dello stesso Obama, che ha
ovvimente i suoi problemi geopolitici, come nel caso greco.
Ma
prendersela con la BCE sarebbe un altro falso bersaglio: la
responsabilità è naturalmente politica e di chi opportunisticamente ha
delegato la propria responsabilità ai tecnici, generalmente al servizio
dei poteri dominanti, senza naturalmente abbandonare i loro interessi di
parte. Basti ricordare i profili degli attuali commissari CEE stracolmi
di conflitti di interesse. L'effetto deleterio della situazione ormai
in atto da tempo, anche in Italia, e forse il peggiore, è quello appunto
dell'avvenuta progressiva deresponsabilizzazione delle classi dirigenti
politiche europee (meno quelle tedesche) e per risulta degli stessi
popoli europei, che ha impedito anche di fare veramente i conti con i
ripettivi problemi di inefficienza, corruzione, evasione fiscale. Popoli
che eleggono parlamentari europei irrilevanti e nazionali senza potere
effettivo nelle scelte importanti; con rituali consultazioni elettorali e
referendarie dai risultati concreti scarsi o persino contrari rispetto
ai programmi votati o alle scelte effettuate. E che portano di
conseguenza alla fuga dell'elettore. Non è certo estraneo l'enorme
potere dei centri economici e finanziari, delle multinazionali, che
condizionano fortemente, se non addirittura esprimono buona parte delle
classi politiche ed amministrative, gli organi di informazione e molte
università e centri di ricerca. Guido Calogero, il filosofo del
liberalsocialismo, avvertiva: “Senza eliminazione degli squilibri di
potenza economica non c'è mai vera libertà politica, e senza la garanzia
delle libertà politiche non c'è neppure la possibilità di sapere se la
giustizia economica sia reale o illusoria”5.
Penso
che ogni cittadino, appena informato dei fatti, e che riesca a
sottrarsi alla strategia del terrorismo economicio o della
cloroformizzazione o della sottrazione delle informazioni o della
distrazione di massa, si debba seriamente preoccupare dello stato della
democrazia e della sua deriva attuale. Per tornare all'Europa viene - a
mio avviso per errore o per intenzione - posto il dilemma secco: fuori o
dentro l'Euro. Mentre ci sono diversi modi di permanenza ovviamente, ma
anche di uscita, temporanea o meno (come avvenne per il serpente
monetario); concordata, insieme ad altre misure di intelligente politica
solidale, oppure per “cacciata” o fuga disperata o “esplosione”
generalizzata e quindi ingestibile. Il buon senso potrebbe far
considerare anche un eventuale, parziale passo indietro per farne poi
eventualmente due in avanti. Nel passato ha funzionato abbastanza bene,
ad esempio, il cosiddetto “serpente monetario”. Perchè non fare un tale parziale
passo indietro da parte di alcuni paesi? Permetterebbe una maggiore
libertà di manovra del tasso di cambio e di politiche economiche. La
quale, se effettuata con intelligenza e finalmente con spirito solidale
ed unitario, potrebbe far riprendere con più facilità (e anche
responsabilità nazionale) quel processo di armonizzazione necessario che
avrebbe dovuto precedere e non seguire la moneta unica. A metà
degli anni settanta Federico Caffè scriveva inascoltato: ”Molti anni
addietro invitai a diffidare del dottrinarismo utopistico di chi,
dimenticando appunto l'indirizzo gradualistico dei padri fondatori,
propone di far precedere l'integrazione comunitaria per la via dei
meccanismi monetari. Quale che sia il virtuosismo tecnico dei
sostenitori di indirizzi del genere, sorprende e preoccupa l'immaturità
epistemologica, in quanto dovrebbe essere di per sé evidente che il
discorso dell'unificazione monetaria non può essere una premessa, ma una
conclusione. Come l'Upupa della Minerva, che compare al crepuscolo,
l'unificazione monetaria presuppone una dura giornata di lavoro in altri
campi, che non può essere né evitata, né scavalcata”6.
1Federico Caffè, “Problemi controversi sull'intervento pubblico nell'economia”, Note economiche, n. 6, 1976.
2Si
veda la recente autocritica di P. Lamy, l'ex consigliere di J. Delors,
“L'Euro? Pensavamo fosse più facile. Parigi e Berlino hanno rovinato
tutto” , Il Fattto Quotidiano, 19 luglio 2015.
3Lo ricorda molto bene Giuseppe Guarino insieme al dimostrato stravolgimento dei Trattati europeri, Cittadini europei e crisi dell'Euro, Editoriale scientifica, Napoli, 2014.
4P.A Krugman, “Il sogno impossibile dell'Europa”, La repubblica del 22 luglio 2105.
5Guido Calogero, In difesa del liberalsocialismo, Atlantica, Roma 1945.
6Federico
Caffè, “Una fase critica della cooperazione economica internazionale”,
La Comunità internazionale, primo trimestre 1976.
Fonte: sbilanciamoci.info
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