di Marta Fana
Questa apparente dicotomia trova eco nelle parole del governo che
giudica il reddito minimo come uno strumento meramente assistenzialista,
quindi negativo, perché fonte di sprechi e di disincentivo al lavoro.
In Italia, bisogna creare lavoro (sic!) non assistenzialismo, dice.
Peccato però che l’attuale sistema di welfare italiano sia già, senza
reddito minimo, caratterizzato da forte assistenzialismo, familismo e da
una marcata dose di corporativismo, proprio perché fondato non tanto
sui diritti, intesi come declinazione formale dei bisogni materiali
degli individui, quanto sull’appartenenza a un determinato gruppo (come
nel caso dell’assegno di disoccupazione per lavoratori dipendenti e non
per i precari autonomi, come le partite iva).
Questo tipo di
argomentazione, alquanto diffusa, sembra far prevalere un’idea di fondo:
il sistema Italiano è irriformabile e, di conseguenza, ogni tentativo
di migliorare il rapporto tra Stato e cittadini sarebbe
controproducente. Allo stesso tempo però, difendendo l’attuale sistema
si stravolgono quotidianamente i concetti di welfare e lavoro: il lavoro
diventa welfare, il volontariato lavoro che dà accesso al welfare.
In
particolare, quando i cittadini sono chiamati a prestare lavoro agli
enti locali, perché beneficiari di sussidi, allora è possibile
corrispondere loro un minimo vitale e non invece un salario vero e
proprio, sotto le mentite spoglie del volontariato. E’ questa l’idea
sottostante il nuovo protocollo firmato, ormai da mesi, dal Ministero
del Lavoro di concerto con Anci e Terzo Settore. Altrettanto infondate,
quando non conseguenti e prive di visione, sono le critiche legate al
condizionamento del sussidio a una politica attiva di inserimento al
lavoro.
Da un’altra prospettiva, invece, le critiche al reddito
minimo muovono dall’idea che la principale fonte di reddito deve
necessariamente essere il lavoro. E’ quindi il lavoro il mezzo che dà
diritto al reddito e non di per sé i bisogni materiali dei cittadini. Il
reddito minimo è considerato, a priori, come uno strumento
caritatevole, che avalla l’impoverimento del lavoro, dovuto alla
liberalizzazione del mercato del lavoro e una politica di bassi salari,
in vigore ormai da oltre vent’anni. Un’obiezione giustificabile, senza
dubbio sul piano teorico, ma che non affronta pienamente né l’attualità
né le trasformazioni già in essere e quelle che potrebbero intervenire
nella società, nei processi produttivi e distributivi a seconda delle
scelte di politica economica e industriale.
E’ bene partire dai
fatti. Nel 2014, in Italia, ci sono oltre sei milioni di individui che
vivono in condizioni di povertà assoluta, più di dieci milioni quelli in
povertà relativa. Nel 2013, l’incidenza della povertà relativa tra le
persone in cerca di occupazione sale al 28%. Nel 2014, il 38% dei
lavoratori con contratti precari e il 12,3% dei lavoratori standard
vivono al di sotto della soglia di povertà relativa. Appare quindi
evidente che esiste un’emergenza povertà, da affrontare immediatamente.
In questo senso, il reddito minimo è lo strumento più facile da
adottare: un trasferimento monetario darebbe l’opportunità a singoli e
famiglie di soddisfare quanto meno alcuni tra i bisogni di base, primo
tra tutti il diritto alla casa (affitto o rata del mutuo), la rata del
riscaldamento, il prezzo per il trasporto pubblico, l’istruzione e così
via. Di fronte a un’enorme crisi di domanda interna, il reddito minimo
stimolerebbe i consumi, contrariamente a quanto invece avvenuto per il
programma degli 80€, proprio perché rivolto alle fasce di popolazione la
cui propensione al consumo è più alta. Ciò non vuol dire che il reddito
minimo come trasferimento monetario sia sufficiente a risolvere la
povertà, né tanto meno le sue cause, ma sicuramente non è da considerare
come provvedimento controproducente, soprattutto al sesto anno di crisi
della domanda interna.
Inoltre, è bene tener presente che
esistono motivi oggettivi ed esogeni per cui non tutta la popolazione è
attiva sul mercato del lavoro né può esserlo per periodi più o meno
lunghi. Si dirà, un trasferimento di reddito diretto, però, può non
essere un intervento ottimale, contrariamente ai trasferimenti
indiretti: case, scuole, asili, accesso gratuito ai mezzi di trasporto e
così via, come già accade in molti altri paesi europei, e l’obiettivo è
assicurare alla popolazione il soddisfacimento dei bisogni di base. In
questo caso però l’azione non potrebbe essere contingente, perché in
molti casi richiederebbe un intervento strutturale da parte del settore
pubblico, quindi tempo, nonostante questi provvedimenti siano
inevitabili e quanto mai urgenti. Occuparsi del reddito è necessario ma
non sufficiente. Serve, infatti, avviare fin da subito un piano per
l’occupazione (e per la sua redistribuzione), l’istituzione del salario
minimo anche per i precari, strumento che insieme al reddito minimo può
scongiurare il ricatto del lavoro gratuito e delle retribuzioni da fame.
Allo Stato spetta, inoltre, definire un programma di investimenti
pubblici, che guardino tanto alle piccole quanto alle grandi opere,
accompagnati da una definitiva riforma dell’amministrazione pubblica.
In
sintesi, è necessaria una visione, un’idea, di politica industriale che
sappia invertire la tendenza decennale alla de-industrializzazione e
alla predilezione per la privatizzazione e acquisizione da parte di
imprese straniere dell’industria italiana.
Senza un’inversione,
infatti, “tutte le decisioni in merito ai livelli di occupazione, alle
condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a che cosa si produce e a quali
prezzi, ai prodotti che entrano nelle case e strutturano la vita delle
persone, saranno prese altrove”, come spiega Luciano Gallino. In un
contesto del genere, il reddito minimo rappresenterebbe nient’altro che
una forma di ricompensa piuttosto caritatevole nei confronti dei
beneficiari, lasciando le imprese libere di svalutare a proprio
piacimento il lavoro.
Esistono altre ragioni, collegate a quelle
di cui sopra, per cui bisogna insistere sul legame tra reddito e lavoro.
Se accettiamo il diritto al reddito senza rivendicare anche il diritto
al lavoro, allora stiamo affermando che può esistere una netta
separazione tra produzione e consumo, tra chi decide sulla produzione e
chi consuma, dove l’oggetto del consumo sarà, soprattutto in assenza di
una vera politica industriale, deciso dai primi, gli stessi che
determineranno i bisogni dei secondi (i cittadini-consumatori), o almeno
quali tra questi potranno essere soddisfatti. Tuttavia, anche le
imprese avranno bisogno che qualcuno corrisponda quel reddito, che loro
stesse hanno negato, in modo da assorbire tramite i consumi la
produzione.
Non meno importante però, il diritto al lavoro è
espressione del principio democratico per cui a ogni cittadino è data la
possibilità di intervenire nei processi di produzione e quindi di
strutturazione della società stessa.
È lecito comunque chiedersi
se il lavoro sarà sufficiente nel futuro, ferma restando l’idea di fondo
che sia anche, se non soprattutto, lo Stato il soggetto principale per
la creazione di lavoro, in periodi di crisi, come “datore di lavoro di
ultima istanza”, e in quelli di espansione, agendo appunto sulla
politica industriale. Se il lavoro scarseggerà, sarà perché l’utilizzo
di automazione, quindi di tecnologie avanzate, è entrato nei processi
produttivi. Ciò implica non solo produrle (o importarle), ma investire
per acquistarle e investire in capitale umano affinché possano essere
utilizzate da chi dovrà controllarle. L’Italia sembra ben lontana al
momento da questa traiettoria e ciò rappresenta effettivamente un limite
almeno su due aspetti dirimenti. Il primo riguarda la creazione di
lavoro in sé, che non può ridursi a settori che vivono in un contesto di
competizione internazionale e/o che, più frequentemente di altri, sono
esposti a periodi più o meno lunghi di crisi, quindi disoccupazione e
calo della domanda: se così fosse, come pare avvenire in Italia da
qualche decennio, anche precedente alla crisi, allora, inevitabilmente i
salari saranno bassi e quindi il reddito minimo, nel caso dei working
poor, si configurerebbe come indennizzo, un ripiego. Settori a basso
valore aggiunto e strutturalmente non espansivi precludono la
possibilità di creare nel tempo altro lavoro e nuova ricchezza.
Se
ciò fosse vero, lo Stato (qualora fosse in grado di agire sul valore
aggiunto) non avrebbe comunque a disposizione ricchezza tale da poter
essere redistribuita a una fetta della popolazione in aumento sia
attraverso il reddito minimo, sia attraverso la creazione di lavori (non
volontariato) a bassa produttività mantenendo salari adeguati e non
caritatevoli.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.