di Tomaso Montanari
Cinquant’anni fa, il 26 giugno 1967, un “cammello entrava nel regno dei Cieli”. Era Lorenzo Milani, uno figlio di ricchi, che saliva in paradiso. Per i cristiani don Lorenzo è soprattutto una imitazione straordinariamente aderente della persona e dell’opera di Gesù (proprio nel senso, antico e altissimo, dell’imitatio Christi). Immagino che qualcosa di simile provassero gli italiani del primo Duecento vedendo Francesco d’Assisi: un altro Cristo sulle strade del mondo. Per tutti gli altri, Milani rappresenta soprattutto un altro modo di fare scuola.
Il simbolo del metodo di Barbiana è ancora lì, ed è assai tangibile: il grande tavolone di legno fatto dagli stessi scolari, anzi dai “ragazzi”. Didattica senza banchi, tutti intorno a un tavolo. Un modello che non aveva niente a che fare con ciò che poi sarebbe esploso nel 1968. Le radici di questo approccio vanno cercare altrove, e cioè nella cultura altissima e nella consuetudine con la pratica accademica che don Lorenzo aveva respirato in famiglia: suo nonno era il grande numismatico Luigi Adriano Milani, il suo bisnonno il celebre filologo Domenico Comparetti. Ad aiutarlo, poi, ad orientarsi nella formazione, e ad esaminarlo circa la serietà del suo orientamento verso la conversione al cristianesimo e al sacerdozio fu Giorgio Pasquali, massimo filologo classico italiano del Novecento. È grazie a questa formazione che Milani cresce come un umanista, esattamente nel senso che Erwin Panofsky fissa in questa formula: “uno che nega l’autorità, ma rispetta la tradizione”. E il metodo di Barbiana non è altro che il metodo del seminario scientifico -consueto per la cultura accademica tedesca, e praticato per esempio da Pasquali e dai suoi allievi- per cui tutti gli studenti, anche le matricole, si siedono alla pari intorno ad un tavolo e lavorano insieme su un testo, e sotto la guida, incalzante e maieutica, dell’insegnante.
Se questo era il metodo, sul fine della Scuola di Barbiana don Milani non lascia alcun dubbio: è una scuola lontana mille miglia dalla retorica neoliberista della meritocrazia (“Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose” e “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”), una scuola che punta all’alfabetizzazione di tutti (“La parola è la chiave fatata che apre ogni porta”), una scuola che non mira alla creazione di una nuova classe dirigente, ma di una massa cosciente. Una scuola il cui fine ultimo è la formazione del cittadino sovrano di domani.
Metodo umanistico della critica storica e abilitazione all’esercizio della sovranità e della cittadinanza: non conosco una via più radicale di quella di Barbiana per l’attuazione del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione, per cui “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca”, intimamente legato all’articolo 1 secondo comma (“La sovranità appartiene al popolo”) e all’articolo 3, secondo comma (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). La Buona Scuola, o la Scuola di Barbiana? Un bivio decisivo e drammatico. Due idee opposte di scuola e di società, due idee opposte del futuro della democrazia.
Fonte: altreconomia.it
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