La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 11 gennaio 2018

Le origini della siderurgia italiana: Il piano Sinigaglia







di Enrico Cerrini 
Dopo la seconda guerra mondiale l’apparato industriale ridotto ad un cumulo di macerie e l’agricoltura poco meccanizzata non coprivano i fabbisogni della popolazione europea. La sopravvivenza era garantita dalle importazioni di cibo e macchinari dal continente americano, in particolare Stati Uniti e Argentina. Gli accordi di Bretton Woods avevano elevato il dollaro a moneta atta agli scambi internazionali, ma le banche centrali europee dilapidarono gran parte delle loro riserve di biglietti verdi già nelle fasi immediatamente successive al conflitto. La scarsità di dollari complicava notevolmente le importazioni.
Per risolvere questi problemi, nel giugno del 1947, gli Stati Uniti decisero di finanziare un grande piano di aiuti chiamato European Recovery Program (ERP), meglio conosciuto come piano Marshall.

Il piano Marshall
L’assenza di obiettivi concreti da perseguire e di coordinazione tra i paesi beneficiari avevano reso improduttivi gli stanziamenti dei precedenti aiuti coordinati dall’ONU. L’ERP fu annunciato dal segretario di stato americano, il generale George C. Marshall, e fu gestito interamente dagli Stati Uniti, i quali lo utilizzarono anche per affermare la propria ideologia. Mentre in Europa, influenzata dal pensiero autarchico precedente alla guerra, il commercio internazionale risentiva di numerose limitazioni, gli Stati Uniti avevano da tempo adottato il liberismo economico.
Gli Stati Uniti pensavano che il libero commercio avrebbe aiutato ad allocare in modo efficiente le risorse necessarie a ricostruire l’Europa. In questo contesto, la Germania avrebbe dovuto integrarsi condividendo il proprio destino con quello delle altre nazioni europee in modo da sfruttare al meglio le importanti risorse minerarie ubicate nel bacino della Ruhr. La cooperazione tra gli stati nazionali diventò così condizione necessaria per accedere ai finanziamenti.
L’ERP finanziò solo progetti coordinati tra loro e dettagliati con obiettivi prefissati in termini di produzione industriale. Gli stati europei costituirono l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), l’organismo, padre dell’attuale OCSE, chiamato a valutare i singoli piani nazionali per verificarne la compatibilità con gli altri e a stabilire l’allocazione dei fondi sulla base dello squilibrio nella bilancia internazionale dei pagamenti.
Dal lato statunitense, l’agenzia Economic Cooperation Administration (ECA) utilizzava tre distinti livelli per amministrare il piano Marshall. A Washington, la sede centrale coordinava l’ERP e approvava definitivamente le richieste europee, mentre a Parigi l’Office of the Special Representative (OSR) rappresentava gli interessi del governo statunitense presso l’OECE. Infine, nelle singole capitali europee, le missioni speciali dell’ECA rappresentavano gli enti con cui i singoli governi erano tenuti ad interagire durante la stesura dei piani.
Le più importanti metodologie di erogazione dei finanziamenti costituivano in:
A) loans, prestiti rivolti alle imprese elargiti a condizioni di favore per l’acquisto di macchinari negli Stati Uniti;
B) grants, regali alle nazioni europee concessi sulla base del valore dei beni acquistati dalle imprese sul mercato statunitense. Le risorse con cui le imprese pagavano i macchinari statunitensi si accumulavano nei fondi di contropartita, i quali potevano finanziare progetti specifici volti ad aumentare la capacità produttiva sia agricola che industriale.

Le idee di Oscar Sinigaglia
Oscar Sinigaglia, presidente dell’ILVA all’inizio degli anni Trenta, ma in seguito ostracizzato dal regime in quanto ebreo, aveva fama di capitano d’industria e tessitore di relazioni. Dopo la caduta del fascismo, fu nominato presidente di Finsider, il ramo dell’IRI che comprendeva le aziende siderurgiche in mano pubblica, tra cui l’ILVA, la Terni, la Dalmine e la SIAC (Società Italiana Acciaierie di Cornigliano). In un paper del 1948 intitolato The future of Italian iron and steel industry, Sinigaglia spiega la sua strategia. Nella sua ottica, l’Italia del dopoguerra si presentava come un paese poco industrializzato e sovrappopolato. A causa delle caratteristiche geografiche e geologiche del paese, l’agricoltura non era in grado di assorbire la manodopera in eccesso e soddisfare il fabbisogno alimentare della popolazione. Il problema poteva essere parzialmente sanato tramite l’emigrazione, ma un ruolo determinante doveva essere giocato dall’industria. In particolare, una grande azienda pubblica siderurgica avrebbe potuto produrre acciaio di alta qualità a prezzi bassi per fornire semilavorati a numerosi settori e contribuire allo sviluppo industriale del paese.
Per ottenere questo risultato l’Italia avrebbe dovuto fronteggiare la scarsità di materie prime, fattore che obbligava la penisola a dotarsi un’industria di proporzioni minori rispetto ai maggiori paesi europei. La liberalizzazione dei commerci europei presentava però la possibilità di colmare lo svantaggio attraverso l’importazione del carbone dal bacino della Ruhr e del minerale dalle colonie francesi nel Nord dell’Africa. I fattori abilitanti dell’acciaio italiano erano invece il basso consumo di carbone coke causato dall’alta qualità delle materie prime reperibili nelle cave fornitrici e il basso costo del lavoro. Ma i costi non sarebbero diventati competitivi se non fosse stata razionalizzata la struttura produttiva degli stabilimenti. Prima della guerra, l’impresa pubblica contava due grandi stabilimenti a ciclo integrale in grado di produrre acciaio grazie all’altoforno, ubicati a Piombino e Bagnoli, mentre se ne andava completando un terzo a Cornigliano. Nello stesso periodo, le aziende pubbliche producevano il 77% della ghisa, il 44% d’acciaio e il 38% di laminati a caldo della penisola. Gruppi come Falck, Fiat e Breda si annoveravano tra le maggiori aziende private capaci di produrre più di centomila tonnellate di acciaio grezzo all’anno, utilizzando una tecnologia mista che permetteva di produrre acciaio dalla ghisa attraverso i forni Martin-Siemens. La guerra aveva ridotto notevolmente la capacità produttiva. Gli stabilimenti a ciclo integrale erano stati prima bombardati dagli alleati e poi smantellati dai tedeschi durante la ritirata dell’esercito. Tali danni erano comuni a tutti i paesi europei e avevano ridotto notevolmente la produzione internazionale d’acciaio, mentre la domanda era sospinta dalla ricostruzione, per questo i prezzi si tenevano alti. Sinigaglia era consapevole che questa condizione sarebbe presto terminata determinando la caduta dei prezzi. Quando i prezzi internazionali sarebbero scesi, la siderurgia italiana si sarebbe dovuta adeguare per evitare che le proprie imprese meccaniche fossero messe fuori mercato dai competitori stranieri. Una parte dei finanziamenti del piano Marshall avrebbero dovuto essere destinati ad un grande piano di ricostruzione e modernizzazione che si prefiggesse di abbattere i costi di produzione dell’acciaio italiano.

Il piano Sinigaglia
Il Piano di Ricostruzione e di razionalizzazione degli stabilimenti siderurgici della Finsider, più noto come piano Sinigaglia, si poneva l’obiettivo di creare un’efficiente siderurgia nazionale strutturando tre stabilimenti a ciclo integrale, di cui Cornigliano rappresentava l’investimento più importante. Proprio lo stabilimento ligure fu reso compatibile con il minerale nordafricano il cui approvvigionamento fu facilitato dalla costituzione alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, mentre ottennero minore importanza le produzioni prive di altoforno. Il piano suscitava malumori tra i grandi produttori privati, in particolare il gruppo Falck, i quali temevano di essere condizionati da un eccessivo intervento pubblico. Anche la politica si divise tra sostenitori e detrattori del piano, suddivisi a loro volta tra pessimisti che lo ritenevano troppo ambizioso e liberali che incoraggiavano l’intervento privato. A livello italiano, il supporto più importante venne dalla Fiat di Vittorio Valletta.
L’azienda torinese sosteneva la propria produzione meccanica attraverso impianti siderurgici e rappresentava il secondo maggior produttore privato d’acciaio nella penisola. Nel primo dopoguerra, Fiat ordinò la costruzione di un impianto di laminazione, ma Valletta abbandonò l’idea. L’imprenditore cedette l’ordine a Cornigliano e si accordò con Finsider per acquistare ad un prezzo di favore almeno il 50% dei laminati prodotti dallo stabilimento genovese.Dopo aver vinto le resistenze interne, il piano avrebbe dovuto essere approvato dall’ECA per ottenere i finanziamenti ERP. In un primo momento Sinigaglia chiese all’ECA i finanziamenti in lire e alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) quelli in dollari, ma dopo pochi mesi l’intera pratica fu rilevata dall’ECA. La BIRS ebbe comunque un ruolo importante perché espresse le critiche più competenti e costruttive. Wayne Rembert, l’ingegnere che firmò il rapporto BIRS, riteneva corrette le argomentazioni di Sinigaglia ma temeva che il mercato italiano potesse assorbire solo una produzione pari a 2,5 milioni di tonnellate d’acciaio al contrario delle 4 proposte da Sinigaglia. Rembert consigliava quindi di stralciare l’impianto di Cornigliano e potenziare quello di Piombino. Sinigaglia non condivideva questo approccio perché il basso livello produttivo avrebbe costretto le aziende meccaniche italiane a rivolgersi ai privati ad ogni fase crescente della domanda di acciaio.
Il rapporto della missione speciale romana dell’ECA fu invece una completa stroncatura, dato che riteneva impossibile produrre acciaio dagli stabilimenti a ciclo integrale italiani a costi contenuti. Tale rapporto fu presto criticato dallo stesso Rembert, diventato consulente dell’ECA. Il successivo braccio di ferro tra Finsider e l’amministrazione dell’ERP verté sulla costruzione dello stabilimento di Cornigliano. Le trattative si sbloccarono solo dopo l’approvazione del piano Fiat, il quale prevedeva l’approvvigionamento dei laminati proprio da Cornigliano.
Gli ottimi rapporti tra l’azienda torinese e il governo statunitense, scaturiti anche dall’entusiasmo mostrato da Valletta verso il modello imprenditoriale americano, consentirono alla Finsider di sfruttare gli aiuti ERP per costruire l’acciaieria di Cornigliano previo ridimensionamento degli impianti di Piombino e Bagnoli. Il valore della richiesta all’ERP fu di 12,5 milioni di dollari come finanziamenti loans, a cui si aggiunsero altri cospicui finanziamenti dai fondi di contropartita nelle disponibilità del governo italiano. La produzione d’acciaio a ciclo integrale raggiunse le 3,5 tonnellate all’anno alla fine del 1952 e le 5,5 nel 1955 per un occupazione complessiva di 382.000 unità. La lucida visione del mondo di Oscar Sinigaglia, incentrata sull’approvvigionamento di materie prime grazie al commercio internazionale e sul ruolo di supporto dello stato verso le imprese, contribuì a far nascere la moderna siderurgia italiana.
Fonte: www.pandorarivista.it
Originale: https://www.pandorarivista.it/articoli/siderurgia-il-piano-sinigaglia/3/

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