La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 12 gennaio 2018

Diseguaglianze: le ragioni del loro aumento, le politiche che mancano









di Mario Pianta 
L’articolo esamina la natura e lʼentità delle disuguaglianze economiche in Italia, individuando i quattro “motori” che hanno alimentato l’attuale grave aumento delle disparità. Vengono discusse le politiche che potrebbero affrontare tali problemi, con proposte dettagliate per l’intervento pubblico. Tali azioni sono inserite nel contesto dei valori e degli obiettivi generali del paese, da quelli definiti dalla Costituzione italiana agli attuali obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in cui l’uguaglianza è dichiarata come un obiettivo politico fondamentale. 

1. I meccanismi delle disuguaglianze 
Lʼimportanza e lʼoriginalità della questione dellʼeguaglianza nella Costituzione italiana è ben nota, ed è stata riproposta di recente dal volume dedicato allʼ“Art.3” (Dogliani e Giorgi, 2017). A differenza di altri principi costituzionali che possono trovare una diretta traduzione in norme e diritti esigibili in virtù dellʼautorità dello Stato, il principio di eguaglianza – come affermato nellʼarticolo 3 della Costituzione – si presenta come un indirizzo politico, una prospettiva che per essere avvicinata richiede un insieme complesso di interventi dello Stato che interagiscono con sviluppi economici e sociali. Così, la via di una maggior eguaglianza passa per altri articoli della Costituzione, per una molteplicità di norme e per la realizzazione di politiche in tre ambiti principali: 

1. le norme che regolano i rapporti economici, in particolare quelli tra capitale e lavoro, che sono alla base della distribuzione del reddito tra profitti e salari e tra i diversi agenti economici: ad esempio le norme sulla libertà dʼazione del capitale (attività finanziarie, investimenti internazionali, trasmissione ereditaria, etc.) e quelle sullʼerogazione e il compenso del lavoro (contratti di lavoro, diritti sindacali, etc.). 
2. le politiche economiche che redistribuiscono reddito, in particolare attraverso la tassazione e la spesa pubblica, compresi sussidi e pensioni; 
3. i servizi pubblici forniti direttamente dal settore pubblico “fuori mercato”, senza trasferimenti monetari, che rendono concreti i diritti sociali: lʼistruzione, la salute, il welfare, etc. 

Questa distinzione ci consente di individuare per ciascun ambito il quadro costituzionale e normativo specifico in cui ci si colloca, i diversi meccanismi che hanno alimentato lʼaumento delle diseguaglianze, le politiche concrete che potrebbero intervenire per ridurle. Occorre sottolineare qui che per capire la dinamica della diseguaglianza non si può fare una netta divisione tra comportamenti privati – risultato di rapporti tra soggetti economici e sociali diversi – da un lato e azione pubblica dallʼaltra. È riduttivo pensare che ci siano processi di mercato che alimentano le diseguaglianze da un lato e dallʼaltro politiche pubbliche che le ridimensionano attraverso i due ultimi ambiti dʼintervento sopra citati. È certo vero che la logica del funzionamento del mercato per sua natura produce disparità: pesano qui lʼasimmetria nei rapporti sociali e tra capitale e lavoro, la concentrazione di potere economico, la creazione di condizioni di precarietà e marginalità che indeboliscono e frammentano il lavoro. Ed è certo vero che buona parte dellʼazione pubblica come si è consolidata negli anni della Repubblica in Italia – con il modello di Stato sociale e le politiche di welfare – contribuisce a contenere e ridurre le disparità che emergono dai rapporti di mercato (vedremo più avanti alcune misure dellʼentità di tali effetti). Tuttavia gli stessi processi di mercato operano allʼinterno di norme giuridiche e politiche particolari che ne condizionano direttamente gli esiti. Negli ultimi trentʼanni, in Italia come negli altri paesi avanzati, sono state una serie di decisioni politiche – nazionali ed europee - a permettere una libertà dʼazione assai più ampia ai capitali, alla finanza e alle imprese, rendendo i rapporti di mercato una fonte ben più violenta di diseguaglianze rispetto al passato. La sfera politica e le norme che sono state introdotte hanno così avuto effetti in tutti e tre gli ambiti sopra elencati: hanno favorito esiti di maggior disparità nel primo ambito, legato ai processi di mercato; hanno ridotto gli effetti di contenimento della diseguaglianza tradizionalmente realizzati dagli altri due ambiti, legati allʼazione dello Stato. 

1.1 Una misura dellʼaumento delle diseguaglianze in Italia

Lʼaumento delle diseguaglianze è stato al centro di molte analisi, tra queste Stiglitz (2012), Piketty (2014), Atkinson (2015), Pianta (2012), Franzini (2013), Franzini et al. (2014), Franzini e Pianta (2016). Sulla base della distinzione tra i tre ambiti dei meccanismi di mercato, delle politiche di redistribuzione monetaria e di fornitura di servizi pubblici “fuori mercato” è possibile quantificare lʼeffetto che ciascuno di essi ha avuto nellʼaumento delle diseguaglianze in Italia. Occorre precisare che ci si concentra qui sulle disparità di reddito, trascurando quelle (ben più rilevanti) che riscontriamo esaminando gli stock di ricchezza dei cittadini. Al di fuori della dimensione economica le diseguaglianze sono definite anche da aspetti di genere, di salute e di altre condizioni sociali, che non sono qui considerate. Utilizzando le analisi svolte in Franzini e Pianta (2016, capitolo 2) possiamo qui confrontare la situazione dellʼItalia al 1985 e quella al 2010, utilizzando lʼindice di Gini sulla distribuzione del reddito delle famiglie degli italiani sulla base dei dato Ocse. Lʼindice varia da zero, una situazione di perfetta uguaglianza, a uno, nel caso in cui una sola persona detenga lʼintero reddito del paese. I redditi di mercato, risultato dei rapporti di forza sul mercato del lavoro e dei comportamenti dei soggetti economici, hanno visto un aumento delle diseguaglianze che ha portato lʼindice da 0,38 a 0,50. Il dato del 2010 mostra un livello di disparità senza precedenti, analogo a quello di Usa e Francia, superato solo dal Regno Unito tra i maggiori paesi avanzati. Se teniamo contro della redistribuzione monetaria avvenuta attraverso imposizione fiscale e spesa pubblica, i livelli iniziali delle disparità erano 0,28 nel 1985 e sono saliti a 0,32 nel 2010; la capacità di redistribuzione delle politiche è quindi rilevante e qui lʼItalia è superata solo da Usa e Regno Unito in termini di diseguaglianze. Se teniamo infine conto dei servizi pubblici, distribuiti ai cittadini sulla base del bisogno e non delle capacità di spesa, è stato calcolato un ulteriore indice di Gini per il reddito disponibile corretto assegnando alle famiglie una stima del valore monetario dei servizi ottenuti. La stima è stata effettuata dallʼOcse per il 2007; i dati per lʼItalia passano da un indice pari a 0,32 per i redditi disponibili monetari a un valore di 0,26 che tiene conto dei servizi pubblici ʼfuori mercatoʼ; solo gli Usa hanno un valore più alto dellʼindice, mentre gli altri paesi europei presentano una più elevata capacità redistributiva attraverso i servizi pubblici (Franzini e Pianta, 2016, pp.50-57). Da questi dati vediamo non solo il forte aumento delle disparità, ma anche lʼentità dei meccanismi di redistribuzione che risulta ancora rilevante in Europa, documentando lo spazio che la politica può mantenere in una strategia di riduzione delle diseguaglianze. Riprendiamo ora i tre ambiti delineati in precedenza e esaminiamo i meccanismi che hanno portato alla crescita delle disparità di reddito. 

1.2 Capitale, lavoro e i ʼmotoriʼ della diseguaglianza 
Il primo ambito è quello dei rapporti economici di mercato che stabilisce la distribuzione funzionale del reddito tra profitti dʼimpresa, rendite finanziarie e immobiliari, salari. Profitti e rendite sono percepiti da gruppi ristretti di persone, mentre i salari sono distribuiti alla grande maggioranza dei lavoratori; un aumento dei primi come quello registrato negli ultimi 30 anni – dellʼordine di 15 punti percentuali di reddito nazionale – porta a una maggior concentrazione del reddito nelle mani di chi controlla il capitale produttivo, finanziario e immobiliare. Anche allʼinterno dei salari si è assistito tuttavia a un forte aumento delle diseguaglianze a causa di spinte in avanti dei redditi più elevati e di una grave caduta dei salari più bassi – legata in particolare alla diffusione del lavoro precario – tanto che milioni di lavoratori hanno redditi che non permettono loro di superare la soglia della povertà. Nel nostro libro “Disuguaglianze: quante sono, come combatterle” (Franzini e Pianta, 2016) individuiamo quattro motori della disuguaglianza che operano in Italia e negli altri paesi avanzati. Il primo meccanismo è lʼaumento del potere del capitale sul lavoro, che si è realizzato in vari modi. Le politiche di liberalizzazione hanno concesso ai flussi di capitale piena libertà di movimento; la deregolamentazione ha permesso che la finanza si espandesse, che i valori dei patrimoni si gonfiassero con le bolle speculative, che il potere di mercato crescesse e si moltiplicassero le posizioni di rendita, a vantaggio dei più ricchi. Le privatizzazioni hanno esteso gli ambiti di investimento e profitto delle imprese. Lʼaffermarsi di un modello di “capitalismo oligarchico” è il secondo motore della disuguaglianza che individuiamo nel nostro libro: un forte aumento del potere e dei redditi dei top manager, la crescente importanza della ricchezza e della sua trasmissione in via ereditaria. Un meccanismo questo che è legato a posizioni di potere e privilegio che nulla hanno a che fare con la presunta efficienza dei mercati nellʼassegnare compensi ai diversi fattori produttivi. In parallelo, il lavoro si è indebolito per effetto di scelte politiche riguardanti il commercio internazionale, gli investimenti e le tecnologie, che hanno permesso alla produzione di organizzarsi su scala internazionale e di fare ampio ricorso a innovazioni che risparmiano lavoro. La conseguenza è stata che molti posti di lavoro sono svaniti e i salari dei lavoratori nei paesi avanzati sono caduti. Il lavoro è stato indebolito in numerosi altri modi: riducendo il potere dei sindacati, rivedendo le norme a tutela dellʼoccupazione, creando posti di lavoro “non standard” attraverso una pluralità di contratti di lavoro temporanei, part-time, etc., caratterizzati da salari più bassi e da minor protezione, limitando il ruolo dei contratti di lavoro nazionali e permettendo una crescente frammentazione delle retribuzioni. Con queste nuove regole, nel mercato del lavoro sono emerse forti differenziazioni anche tra i salariati, aggravando le diseguaglianze. Abbiamo assistito così a una crescente individualizzazione delle condizioni economiche e sociali – il nostro terzo motore della diseguaglianza – che ha diviso e frammentato i lavoratori. Tali processi sono stati resi possibili e favoriti da decisioni politiche, che hanno modificato i rapporti di forza tra capitale e lavoro e condotto a comportamenti di mercato che hanno alimentato la crescita delle diseguaglianze. Lʼarretramento della politica – il nostro quarto motore della disuguaglianza – ha condotto a cambiamenti nelle politiche economiche e nella fornitura di servizi pubblici che sono esaminati nei paragrafi seguenti. 

1.3 Le politiche di tassazione, redistribuzione e fornitura di servizi pubblici 
Le politiche possono essere distinte in due ambiti: quelle redistributive in termini monetari attraverso tassazione e spesa pubblica, e quelle che forniscono servizi pubblici “fuori mercato” legati allʼesercizio dei diritti sociali dei cittadini. Nel primo ambito abbiamo assistito a una caduta rilevante della capacità redistributiva delle politiche nazionali. Dal lato delle entrate fiscali tale caduta è particolarmente evidente nel caso della tassazione sulle imprese. Il rapporto “Taxation trends in the European Union” mostra una caduta delle aliquote fiscali sulle imprese per la media dei 28 paesi europei dal 28% del 2003 al 22% del 2017 (European Commission 2017). In mancanza di armonizzazione fiscale e con le imprese capaci di spostare le loro attività da un paese allʼaltro, la competizione fiscale tra paesi ha alimentato una corsa al ribasso che ha complicato lʼequilibrio delle finanze pubbliche per molti paesi UE. Tale riduzione del carico fiscale e del ruolo redistributivo dellʼimposizione è avvenuta attraverso una varietà di misure; tra queste la minor imposizione su imprese e capitali, la riduzione della progressività del sistema fiscale, i limiti alle imposte sulla ricchezza immobiliare e finanziaria, la riduzione o eliminazione delle imposte sullʼeredità, lʼaumento di imposte locali spesso regressive. Lʼultimo ambito delle politiche di rilievo per le diseguaglianze da considerare è quello della fornitura di servizi pubblici: scuola, sanità, assistenza, cultura, ambiente, etc. Poiché si tratta di beni pubblici forniti direttamente dallo Stato o da istituzioni pubbliche – anche se ora privatizzazioni e esternalizzazioni dei servizi hanno pesantemente eroso il perimetro di tali politiche – tali attività restano fuori dalla sfera del mercato e consentono unʼazione diretta dello Stato che può garantire lʼesercizio dei diritti sociali più rilevanti. Tali azioni hanno unʼintrinseca portata egualitaria poiché i servizi sono erogati sulla base dei bisogni e delle esigenze dei cittadini, anziché sulla base della capacità di spesa. Ad essi si adatta bene lʼespressione della sentenza della Corte Costituzionale 3/1957 secondo cui lʼeguaglianza va intesa come «trattamento eguale di condizioni eguali e trattamento diseguale di condizioni diseguali» (cit. in Dogliani e Giorgi, 2017, p.55). Inoltre alcune tipologie di spesa, come quella per la scuola e lʼuniversità, hanno un ruolo essenziale di sostegno alla mobilità sociale, creando le condizioni per ridurre le diseguaglianze da una generazione allʼaltra. Negli ultimi anni, in particolare con le politiche di austerità dopo la crisi iniziata nel 2008, la spesa per servizi pubblici ha avuto pesanti limitazioni, riducendo le possibilità di sostenere una maggior eguaglianza tra i cittadini. Il contenimento delle spese per lʼistruzione e lʼuniversità ha limitato anche il ruolo dellʼistruzione per assicurare unʼadeguata mobilità sociale – ad esempio, lʼabbandono scolastico è molto elevato, per la prima volta sono diminuiti gli iscritti allʼuniversità e i laureati – accrescendo il ruolo condizionante della famiglia sulle prospettive di occupazione e di reddito. I limiti alla spesa sanitaria – per una popolazione che invecchia rapidamente e esprime una crescente domanda di servizi sanitari – hanno portato dal 2015 a una riduzione dellʼaspettativa di vita alla nascita in Italia. Tale riduzione colpisce in modo più grave le persone con redditi più bassi, come mostrato da diversi studi che hanno documentato il grave aumento delle diseguaglianze nella salute (Marmot, 2016; Costa, 2014). Accanto a una riduzione delle risorse pubbliche necessarie a garantire un buon funzionamento dei servizi pubblici, si è assistito anche a una riduzione dellʼambito dellʼazione pubblica attraverso privatizzazioni ed esternalizzazioni delle attività economiche e dei servizi. In molti casi – dagli asili, allʼassistenza agli anziani – un diritto sociale è nei fatti cancellato e la soddisfazione di un bisogno deve prendere la strada dellʼacquisto di servizi privati sul mercato, in funzione della capacità di spesa di ciascuno. Un fenomeno che ha contribuito in modo rilevante allʼaumento delle diseguaglianze economiche e sociali. 


2. Le politiche che mancano 
È possibile rovesciare tali tendenze e tornare a politiche – coerenti con la Costituzione – che assicurino maggior eguaglianza? Nel nostro volume (Franzini e Pianta, 2016, capitolo 5) abbiamo proposto una serie di politiche specifiche che possono avere un effetto diretto sulla riduzione delle diseguaglianze. Si tratta di politiche specifiche che sono al centro di un dibattito internazionale e che a volte sono già state introdotte in molti paesi. Una trattazione sistematica delle proposte in questʼambito è stata sviluppata anche da Atkinson (2015). Riprendiamo qui le proposte del nostro libro, ordinate in base alla loro capacità di contrastare i quattro motori della disuguaglianza sopra ricordati. In questo paragrafo vengono accennate brevemente, una trattazione più ampia è nel nostro volume. 

2.1 Riequilibrare i rapporti capitale-lavoro 

2.1.1 Regolamentare e ridimensionare la finanza 
La regolamentazione della finanza è una questione che va ben oltre lʼagenda di una politica contro la disuguaglianza e che può avere effetti sul funzionamento complessivo del sistema economico. Tuttavia, lʼespansione della finanza ha profondamente influenzato due dei nostri motori della disuguaglianza: il potere del capitale sul lavoro e il capitalismo oligarchico. Le misure specifiche da adottare in questo ambito – peraltro proposte da un grande parte della letteratura e da autorevoli organismi – includono il ritorno alla separazione tra banche commerciali e banche di investimento; una tassa generalizzata su tutte le transazioni finanziarie per limitare la speculazione; lʼimposizione di limiti severi alla proliferazione degli strumenti finanziari derivati e, come misura più radicale, lʼintroduzione di vincoli alla libera circolazione dei capitali (si veda anche Piketty, 2014). 

2.1.2 Limitare le posizioni di rendita 
I super-redditi quasi sempre comprendono unʼelevata quota di rendite che in genere derivano dalla mancanza di concorrenza effettiva nei mercati (Stiglitz, 2013). Ciò richiede misure che contrastino il potere monopolistico e promuovano la concorrenza, in particolare nelle attività caratterizzate da rendimenti e redditi molto elevati (Franzini et al., 2014). 

2.1.3 Unʼequa distribuzione dei benefici della tecnologia e della produttività 
Il rapido cambiamento tecnologico, soprattutto nel campo delle tecnologie dellʼinformazione e della comunicazione, ha portato alla nascita di nuovi mercati in cui si sono formati enormi profitti. I guadagni ottenuti sono largamente affluiti a coloro che occupano la parte più alta della distribuzione dei redditi; i profitti sono aumentati molto più dei salari sia perché i nuovi prodotti consentono un potere di monopolio temporaneo, sia perché, con i nuovi processi di produzione, è possibile sostituire il lavoro con il capitale. Di fronte a queste tendenze, si potrebbero introdurre politiche industriali e tecnologiche in grado di orientare lʼinnovazione e la distribuzione dei benefici che offre verso esiti più egualitari, come sostenuto da Atkinson (2015). 

2.1.4 Il salario minimo e il ruolo dei contratti nazionali di lavoro 
Nella distribuzione del reddito tra profitti e salari, i secondi sono scivolati verso il basso e non tengono più il passo con gli aumenti di produttività. Per rovesciare tale tendenza, dovrebbe essere restituito un ruolo maggiore ai contratti nazionali di lavoro, negoziati tra datori di lavoro e sindacati. La contrattazione collettiva è lo strumento principale per trasferire ai lavoratori una parte dei guadagni derivanti dalla crescita della produttività e per permettere a tutti i lavoratori di goderne; nelle trattative nazionali i sindacati possono esprimere una maggiore forza contrattuale e ottenere concessioni più consistenti da parte dei datori di lavoro; i contratti nazionali tendono a comprimere la disuguaglianza salariale perché realizzano la solidarietà tra i lavoratori; lʼaumento generalizzato dei salari in un settore produttivo può stimolare le imprese a investire e innovare per favorire lʼulteriore crescita della produttività. Negli ultimi tre decenni, il ruolo dei contratti di lavoro nazionali è stato seriamente ridimensionato dallʼoperare di diversi fattori: il generale indebolimento dei sindacati, che hanno perso molti iscritti e incisività politica a causa della crescente disoccupazione; lʼadozione di tattiche più aggressive da parte dei datori di lavoro; lʼenfasi posta sulla necessità di accrescere la flessibilità dei salari e dellʼimpiego di manodopera; la pressione per spostare la contrattazione salariale a livello aziendale in base allʼargomento che questa è la sede dove si determinano gli aumenti di produttività. Senza la protezione dei contratti di lavoro nazionali, senza salario minimo (o con standard fissati a livelli molto bassi, come nel caso negli Stati Uniti), con la crescente frammentazione dei contratti di lavoro e la proliferazione di lavori “non standard” i lavoratori non sono stati in grado di difendere la loro quota di reddito e le disparità tra lavoratori sono cresciute in misura rilevante. Per invertire la tendenza della diseguaglianza a crescere occorre che i rapporti di forza tra capitale e lavoro tornino ad essere più equilibrati e occorre ridurre la frammentazione dei contratti di lavoro. 

2.2 Contenere il capitalismo oligarchico 

2.2.1 Controllare i super-redditi 
Nelle prime 350 imprese statunitensi il rapporto tra la remunerazione dei dirigenti e quello dei dipendenti medi è aumentato di circa dieci volte: da 30 a 1 nel 1978 a 296 a 1 nel 2013 (Mishel e Davis, 2014). Anche in Italia assistiamo a fenomeni analoghi. Naturalmente, la riduzione del reddito dei top manager delle imprese private non può essere introdotta con una legge, ma possono essere adottate varie azioni in grado di rendere i super-redditi socialmente inaccettabili e di favorire interventi correttivi. I governi potrebbero fissare alcune linee-guida sui rapporti considerati accettabili tra le remunerazioni più alte, quelle medie e quelle più basse. Tali criteri dovrebbero essere vincolanti nel settore pubblico e dovrebbero condizionare i comportamenti delle imprese e anche del mondo dei professionisti più famosi e delle “star” dello sport e dello spettacolo. Essi potrebbero poi stabilire che le imprese private che violassero quei rapporti sarebbero escluse dalla possibilità di partecipare agli appalti pubblici, di godere di incentivi e sgravi fiscali, anche in base allʼargomento che le diseguaglianze estreme pongono costi a carico della società che prima o poi devono essere sostenuti impegnando risorse pubbliche. In questo modo si ridurrebbe la remunerazione del 10% più ricco – e in particolare dellʼ1% dei “super ricchi” – e si darebbe legittimazione sociale a una distribuzione meno diseguale. 

2.2.2 Aumentare le imposte di successione 
La ricchezza ereditata rappresenta una quota crescente della ricchezza totale, ed è distribuita in modo estremamente diseguale. Cʼè un modo per evitare che tutto questo accada: lʼintroduzione di imposte di successione elevate e progressive, che incidono sulla riproduzione delle diseguaglianze da una generazione a quella successiva. La recente tendenza verso la riduzione o lʼeliminazione della imposte di successione dovrebbe essere fermata e invertita; inoltre, dovrebbe essere introdotto un sistema di tassazione che preveda lʼesenzione per patrimoni di valore inferiore a una determinata, ragionevole soglia, che colpisca la trasmissione di beni immobili e di attività finanziarie più severamente della trasmissione di capitale produttivo, che impedisca le fughe verso i “paradisi fiscali” e contrasti non soltanto lʼevasione ma anche lʼelusione fiscale (Franzini et al., 2014). 

2.3 Contrastare lʼindividualizzazione delle condizioni economiche 

2.3.1 Ridurre la frammentazione dei contratti di lavoro 
In tutti i paesi avanzati negli ultimi tre decenni si è assistito a una proliferazione di nuove forme contrattuali diverse dal contratto di lavoro standard, a tempo indeterminato e a tempo pieno. Un recente rapporto dellʼILO (2015) documenta lʼaumento di posti di lavoro “non standard”, che comprendono i lavori part-time, quelli a tempo determinato, quelli di collaborazione spesso collegati allʼesternalizzazione di funzioni delle imprese, nonché le forme di tirocinio e stage che coinvolgono un gran numero di giovani. I posti di lavoro “non standard” sono stati giustificati con lʼesigenza di accrescere la flessibilità del mercato del lavoro; in realtà essi sono generalmente associati a salari molto bassi, alla mancanza di adeguate tutele e, a volte, a insufficienti forme di protezione dei diritti sociali e di godimento delle prestazioni del welfare. Tutto ciò ha accresciuto le diseguaglianze, riducendo i salari dei lavoratori più poveri e dei più giovani che spesso fanno il loro ingresso sul mercato del lavoro con uno di questi contratti “non standard”. Questa segmentazione tra lavoratori è difficilmente accettabile anche indipendentemente dai suoi effetti sulla disparità di reddito; essa, infatti, viola alcuni fondamentali diritti sociali e del lavoro nonché il principio dellʼuguale retribuzione a parità di lavoro. I lavoratori “non standard” hanno contribuito ad approfondire le diseguaglianze in particolare nei paesi in cui essi sono più numerosi (Italia, Spagna, Irlanda e Germania). Spesso essi finiscono nella coda inferiore della distribuzione dei redditi e diventano “lavoratori poveri”. Ridurre la varietà di forme contrattuali è utile per contrastare le diseguaglianze salariali e per far sì che tutti i lavoratori godano di fondamentali diritti sociali e del lavoro. 

2.3.2 Rafforzare lʼistruzione pubblica egualitaria 
Molte analisi hanno mostrato quanto sia importante lʼistruzione per contrastare le forze della disuguaglianza e quanto sia ancora rilevante lʼinfluenza delle condizioni della famiglia di origine nel determinare lʼaccesso allʼistruzione più elevata (Franzini, 2013). Ciò significa che il livello di istruzione dei giovani tende a rispecchiare la disuguaglianza economica tra le rispettive famiglie, favorendo la riproduzione delle diseguaglianze da una generazione allʼaltra. Lʼovvia implicazione politica è che lʼistruzione pubblica dovrebbe essere rafforzata, sostenendo la sua missione egualitaria, quella di offrire a tutti i giovani le stesse opportunità di accesso allʼistruzione più elevata e di qualità. Unʼimportante conseguenza sarà, naturalmente, che chi proviene da famiglie svantaggiate avrà maggiori probabilità di accedere ai posti di lavoro meglio retribuiti, con effetti positivi sulla mobilità sociale e la produttività (Franzini, 2013). 

2.4 Tornare a efficaci politiche redistributive 

2.4.1 La tassazione nazionale e internazionale della ricchezza 
Una tassa globale progressiva sul capitale è la principale proposta politica di Thomas Piketty (2014, capitolo 15); secondo lʼesempio che egli fornisce, le aliquote di una tale imposta potrebbero essere strutturate così: 0% sui patrimoni inferiori a 1 milione di euro; 1% per quelli compresi tra 1 e 5 milioni di euro; 2% per patrimoni superiori a 5 milioni di euro. Applicando queste aliquote fiscali in Europa, i ricavi stimati sarebbero pari a circa il 2% del Pil europeo. É importante che tutte le attività siano incluse – quelle immobiliari, quelle finanziarie e il valore delle imprese – al netto degli eventuali debiti. Lʼinclusione di tutte le forme di ricchezza differenzia significativamente lʼimposta suggerite da Piketty dalle imposte sul patrimonio già esistenti in vari paesi perché queste ultime, in genere, non colpiscono le attività finanziarie e non tengono conto dei debiti. Inoltre, lʼimposta dovrebbe essere definita in modo da evitare uno dei principali punti deboli delle imposte che oggi colpiscono la ricchezza, in particolare quella immobiliare: il gran numero di esenzioni e le regole arbitrarie spesso adottate per determinare il valore degli immobili, che non soltanto contrastano con elementari principi di equità e di parità di trattamento, ma riducono anche le entrate nelle casse dello stato. Piketty ritiene giustamente che unʼimposta sulla ricchezza sia necessaria, insieme con unʼimposta sul reddito e sullʼeredità, per contrastare quella che egli considera la «forza principale della divergenza», vale a dire un tasso di rendimento della ricchezza superiore al tasso di crescita del reddito, e per frenare la crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Le argomentazioni di Piketty a sostegno di unʼimposta sulla ricchezza globale sono molto importanti e questo strumento dovrebbe certamente rientrare nellʼagenda politica di chi intende contrastare la diseguaglianza. Tuttavia, è necessario attivare anche politiche a livello nazionale senza attendere che a livello europeo o mondiale emergano le condizioni per adottare misure come lʼimposta globale. I singoli paesi, soprattutto in Europa, dovrebbero iniziare a introdurre unʼimposta nazionale sulla ricchezza, simile a quella proposta da Piketty a livello internazionale, e ciò potrebbe avvenire nel contesto di una riforma fiscale che riduca altri tipi di tassazione, con lʼobiettivo di mantenere stabile la pressione fiscale complessiva. 

2.4.2 Una maggiore progressività della tassazione del reddito delle persone 
Il modo più ovvio e semplice per ridurre le diseguaglianze è accrescere la progressività delle aliquote delle imposte sui redditi, che è stata drasticamente ridotta dagli interventi attuati nel corso degli ultimi tre decenni. É necessario intervenire sulla curva delle aliquote allo scopo di renderla più ripida, riducendo le più basse e aumentando le più alte. Lʼaliquota marginale per i redditi più elevati potrebbe essere portata al 65%, come ha proposto Atkinson (2015) che argomenta in modo dettagliato e convincente a favore di una maggior progressività. Altri hanno proposto aliquote ancora più elevate anche ricordando che lʼaliquota massima nel Regno Unito, prima del governo Thatcher, nel 1979, era dellʼ 83%; e negli Stati Uniti era del 91% fino al 1963, e del 70% fino al 1980. É inoltre importante rivedere il complesso sistema di agevolazioni e deduzioni che favoriscono i redditi più alti. Il principio della progressività fiscale è affermato dalla Costituzione italiana e questa politica non dovrebbe essere controversa perché vi è una chiara evidenza che le riduzioni fiscali per i ricchi hanno avuto effetti negativi sulla disuguaglianza e, dʼaltro canto, non hanno sostenuto gli investimenti e la crescita. Con un semplice decreto il governo può cambiare le aliquote e non vi è alcuna necessità di modificare i metodi di riscossione delle imposte o di creare nuove istituzioni. Lʼimportanza di una simile mossa nel contesto di una strategia politica a favore della giustizia sociale e della riduzione delle diseguaglianze sarebbe di immediata evidenza e potrebbe influenzare il dibattito pubblico. Anche in questo caso, i cambiamenti fiscali potrebbero essere introdotti mantenendo stabile la pressione fiscale totale, ricalibrando opportunamente, in senso opposto, le aliquote sui redditi più alti e quelle sui redditi più bassi. 

2.4.3 Il reddito minimo 
Lo sviluppo dello Stato sociale nel dopoguerra ha visto lʼintroduzione di pensioni pubbliche, misure di assistenza e la fornitura di un ampio insieme di servizi pubblici. In Italia non sono state introdotte tuttavia misure universali di sostegno al reddito per chi non ha lavoro. Il modo più efficace per colmare questa lacuna è lʼintroduzione di un reddito minimo universale, che garantisca un livello di vita dignitoso a tutti i cittadini, come parte integrante dei loro diritti civili e sociali. In questo modo si potrebbe migliorare la situazione di chi sta molto in basso nella distribuzione dei redditi, alleviando la povertà e riducendo le diseguaglianze. Inoltre, con questa misura verrebbe meno quella discriminazione che consiste nel far dipendere lʼaccesso a varie forme di sostegno del reddito dal tipo di contratto di lavoro di cui si è stati o si è titolari, oppure dalla storia lavorativa. Il dibattito sul reddito minimo e le misure possibili sono presentate in dettaglio nel libro di Granaglia e Bolzoni (2016). Una delle questioni principali è se le politiche debbano assicurare lʼoccupazione o garantire il reddito, scelte che hanno conseguenze rilevanti sullʼetica del lavoro, sulla cittadinanza sociale e così via. Entrambe le proposte hanno i loro meriti e una politica ben congegnata potrebbe combinare la creazione di posti di lavoro pubblici con lʼassicurazione di un reddito minimo. Si potrebbe combinare, allʼinterno di una strategia complessiva, la creazione di occupazione con il reddito garantito e il salario minimo. Lʼintroduzione di un reddito minimo universale, finanziato con la fiscalità generale, sarebbe un passo avanti importante per la tutela dei diritti sociali e la semplificazione del sistema di welfare. Su questo fronte il governo italiano ha deciso lʼintroduzione, a partire dal 1° gennaio 2018, del Reddito di inclusione (Rei), una misura unica di contrasto alla povertà che è condizionata alla “prova dei mezzi” e alla partecipazione ad attività che puntano allʼinserimento lavorativo. Possono ottenere il Rei i nuclei familiari che hanno un reddito molto basso (Isee familiare non superiore a 6.000 euro) sono residenti in Italia da almeno due anni, comprendono una persona con disabilità, o figli minori, o una donna incinta, o almeno un lavoratore di età pari o superiore a 55 anni che non abbia diritto a prestazioni come la Naspi. La Legge di Bilancio 2018 dovrebbe estendere lʼaccesso al Rei ai nuclei familiari con persone di età pari o superiore a 55 anni che non erano precedentemente inclusi. Lʼammontare del Rei è pari a 3.000 euro lʼanno per una persona che non abbia alcun reddito; se ci sono redditi lʼammontare è pari alla differenza tra i 3.000 euro e il reddito. Lʼimporto cresce con la numerosità familiare, ma il Rei può raggiungere al massimo lʼammontare dellʼassegno sociale di 5.824 euro. Il Rei si può ottenere per un periodo non superiore a 18 mesi; dopo un intervallo di sei mesi, il Rei può essere nuovamente richiesto per un massimo di altri 12 mesi. Per ottenere il Rei, inoltre, è necessario che i beneficiari partecipino a attività previste dai servizi per lʼimpiego per favorirne lʼinserimento lavorativo; non è chiaro se tali attività potranno essere organizzate in maniera efficace per tale obiettivo. Il finanziamento prevede di utilizzare il Fondo povertà, finanziato dalla Legge di Bilancio con 2.060 milioni nel 2018, 2.540 milioni nel 2019, 2.700 milioni nel 2020. Come sostiene il Rapporto della Campagna Sbilanciamoci 2018 (Sbilanciamoci, 2017), la misura del governo riuscirà a coprire solo il 38% della popolazione in povertà assoluta, date le restrizioni sui criteri e le risorse limitate. La Campagna Sbilanciamoci chiede una misura più universale e meno condizionata, estendendo il Rei a tutti coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta, definendo il sussidio in base alla differenza tra la soglia di povertà e il reddito personale, senza limite di importo massimo. Si è calcolato che con uno stanziamento di 11.166 milioni di euro si potrebbe portare la copertura di un Rei più generoso dalle attuali 500 mila famiglie allʼ1,7 milioni di famiglie italiane che vivono in povertà assoluta (Sbilanciamoci, 2017). Una misura di questo tipo potrebbe avere un effetto importante per la riduzione delle diseguaglianze sostenendo la parte più povera della popolazione. 


3. Diseguaglianza e politica 
La politica potrebbe dunque far molto per rovesciare lʼaumento delle diseguaglianze registrato negli ultimi trentʼanni. Ma cʼè unʼulteriore ragione per cui è necessario intervenire: lʼarretramento della politica ha lasciato sguarnito uno spazio che è stato occupato dal nuovo potere dellʼélite dei più ricchi. Essa, attraverso il proprio denaro e la propria influenza, è riuscita a incidere sul processo politico e a condizionarne le scelte. Un esempio evidente sono state le frequenti “riforme fiscali” che in quasi tutti i paesi hanno favorito i più ricchi riducendo – come abbiamo visto – la progressività fiscale e la tassazione sulle imprese. Un secondo esempio è lʼincapacità dei governi, dopo la crisi del 2008 provocata dalla finanza, di ridimensionarne le attività e i rischi attraverso una regolamentazione rigorosa. É evidente come ora tale potere di condizionamento esercitato dai più ricchi sul processo politico rappresenti un serio pericolo per la democrazia. Lo stato dellʼeguaglianza ci dice molto, insomma, sulla vitalità della democrazia e sul progetto di società che si afferma. É utile qui riandare alla Costituzione. Secondo Lelio Basso – uno degli autori dellʼarticolo 3 – nella Costituzione lʼaffermazione dellʼeguaglianza non è solo «un comando per il legislatore futuro, che dovrebbe far leggi per rendere effettiva lʼuguaglianza», ma è anche «il tentativo di superare il momento formale e far poggiare il diritto sulla realtà sociale» (Basso, 1971, p.654-655), prefigurando – come mettono in evidenza Dogliani e Giorgi (2017, p.6) – «un modello di società alternativa a quello allora vigente». Lʼavvicinamento allʼeguaglianza era pensato come una misura del successo di un progetto di trasformazione sociale sostenuto da forze politiche progressiste, sindacati e movimenti sociali; la loro affermazione politica sul terreno della democrazia era destinato a concretizzarsi in norme, leggi e politiche coerenti con tale obiettivo. É questo che è accaduto tra gli anni ʼ50 e la fine degli anni ʼ70, il momento in cui le diseguaglianze in Italia, in tutti i paesi avanzati e anche a livello mondiale, sono scese al livello più basso. Ma con il progetto neoliberista che si è affermato a partire dagli anni ʼ80 è iniziato un rovesciamento di tali relazioni; le politiche dei governi e lʼagenda dellʼintegrazione europea sono state definite sulla base della priorità assegnata allʼestendersi delle relazioni di mercato, al ruolo crescente della finanza e allʼarretramento della politica e dellʼazione dello Stato. Con lʼegemonia del progetto neoliberista – il cui programma è stato poi assunto anche da forze politiche di centro-sinistra – si è dato più spazio a ciascuno dei quattro “motori” della diseguaglianza sopra ricordati, con unʼoffensiva avvenuta in parallelo sul terreno dei rapporti di forza politici e sociali, sul piano della legislazione e delle politiche realizzate, unʼazione questa che appare simmetrica e di segno opposto a quella prefigurata dalla Costituzione per realizzare un avanzamento dellʼeguaglianza. Non a caso la misura più sintetica dellʼaffermazione del progetto neoliberista sta proprio nei livelli record raggiunti dalla diseguaglianza in tutti i paesi; negli Stati Uniti si è tornati ai livelli precedenti la Grande Depressione degli anni trenta (Piketty, 2014). Il risultato è che in questo nuovo contesto «il principio di eguaglianza è ridiventato un principio individualistico e privato» (Dogliani e Giorgi 2017, p.69); la portata di trasformazione economica e sociale prefigurata dalla Costituzione sembra smarrita. Ciò è ben visibile nel contesto europeo. La strategia “Europa 2020” delinea lʼevoluzione dellʼeconomia e della società europea che si intende perseguire indicando ai paesi membri una serie di obiettivi che essi sono tenuti a raggiungere – come nel caso dei vincoli di bilancio – o sono incoraggiati a perseguire – come avviene in materia di occupazione, di ricerca e sviluppo, di istruzione o di ambiente –. Nessuno di questi obiettivi riguarda la diseguaglianza (cʼè soltanto un obiettivo che riguarda la povertà). Eppure, il richiamo dellʼeguaglianza non è spento. Un importante segnale positivo – che non ha ancora ottenuto la dovuta attenzione in Italia – viene dallʼAgenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, approvata dai governi nel 2015 (Nazioni Unite, 2015). Tra i 17 obiettivi individuati, lʼobiettivo 10 chiede di «ridurre la diseguaglianza allʼinterno delle nazioni e tra le nazioni». Tale obiettivo è così articolato: 
10.1 Entro il 2030, raggiungere progressivamente e sostenere una crescita del reddito del 40% più povero della popolazione basso ad un tasso superiore rispetto alla media nazionale 
10.2 Entro il 2030, potenziare e promuovere lʼinclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, condizioni economiche o altro 
10.3 Assicurare pari opportunità e ridurre le disuguaglianze nei risultati, anche eliminando leggi, politiche e pratiche discriminatorie e promuovendo legislazioni, politiche e azioni appropriate a tale proposito 
10.4 Adottare politiche, in particolare fiscali, salariali e di protezione sociale, per raggiungere progressivamente una maggior uguaglianza 
10.5 Migliorare la regolamentazione e il monitoraggio di istituzioni e mercati finanziari globali e rafforzare lʼattuazione di tali norme». Seguono poi altri sotto-obiettivi specifici per i paesi in via di sviluppo (Nazioni Unite, 2015, p.21). LʼAgenda delle Nazioni Unite ci offre una rinnovata affermazione dellʼimportanza dellʼeguaglianza – questa volta in un contesto mondiale – in cui risuonano gli stessi echi della Costituzione italiana. 
A livello internazionale la ripresa di attenzione verso politiche per lʼeguaglianza è arrivata anche nellʼambito strettamente economico e si va affermando lʼidea che unʼeccessiva disuguaglianza danneggi le possibilità di crescita. Il rapporto dellʼOcse sulla disuguaglianza del 2015 conclude che «quando la disuguaglianza nei redditi aumenta, la crescita economica diminuisce. Lʼeffetto negativo della disuguaglianza sulla crescita è determinato dalla parte inferiore della distribuzione dei redditi: non riguarda soltanto il decile più povero ma il 40% più povero dei percettori di reddito. La redistribuzione attraverso imposte sui redditi e trasferimenti monetari non danneggia necessariamente la crescita. La disuguaglianza ha un impatto negativo sulla crescita attraverso il canale del capitale umano: maggiore è la disuguaglianza nei redditi, più alta è la probabilità che le famiglie a basso reddito non investano in istruzione» (OECD, 2015, p.60). A conclusioni simili perviene un lavoro pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale (Ostry et al. 2014) che ha lo scopo di valutare lʼimpatto della redistribuzione, cioè del tentativo di ridurre le diseguaglianze tassando i redditi dei ricchi e trasferendo risorse ai poveri. Lo studio non rileva alcun sistematico effetto negativo della redistribuzione sulla crescita e, più in generale, non trova che la disuguaglianza consente una crescita più sostenuta. Lʼimplicazione principale è che si dovrebbe prevenire la formazione di diseguaglianze troppo alte nei mercati, cosicché sarà sufficiente una limitata redistribuzione per realizzare la favorevole combinazione di una bassa disuguaglianza e unʼalta crescita economica. Lo spazio per una discussione seria dellʼimportanza dellʼeguaglianza sembra così riaprirsi. Con lʼauspicabile ritorno dellʼeguaglianza al centro di una agenda politica e sociale largamente condivisa, i principi e gli indirizzi offerti dalla Costituzione italiana tornano ad essere un riferimento prezioso. 

Bibliografia 
Atkinson, A. (2015) Disuguaglianza. Che cosa si può fare? Milano, Raffaello Cortina. 
Azzariti, G. (2014) Portata rivoluzionaria dellʼuguaglianza: tra diritto e storia. In Giorgi (a cura di), Il progetto costituzionale dellʼuguaglianza, Roma, Ediesse, pp.23-37. Basso, L. (1971) Giustizia e potere. La lunga via al socialismo. Quale Giustizia 11-12, pp. 644-659. 
Bobbio, N. (1995), Eguaglianza e libertà, Torino, Einaudi. Costa G. et al. (a cura di). Equità nella salute in Italia, Franco Angeli, Milano, 2014 
Dogliani, M., Giorgi C. (2017) Art.3 Costituzione italiana, Roma, Carocci. 
European Commission (2017) Taxation trends in the European Union, Brussels, European Commission. 
Franzini, M. (2013) Disuguaglianze inaccettabili. Lʼimmobilità economica in Italia. Roma-Bari, Laterza. Franzini, M. Granaglia, E., Raitano, M. (2014) Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Bologna, Il Mulino. 
Franzini, M., Pianta, M. (2016) Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle. Roma-Bari, Laterza. 
Giorgi, C. (a cura di) (2014) Il progetto costituzionale dellʼuguaglianza, Roma, Ediesse. 
Granaglia, E., Bolzoni, M. (2016) Il reddito di base, Roma, Ediesse. 
Granaglia,E.(2016),La persistente modernità dellʼuguaglianza di risorse, in Giovanola B. (a cura di), Etica pubblica, giustizia sociale, diseguaglianze, Carocci, Roma. ILO (International Labour Office) (2015) World Employment and Social Outlook. The changing nature of jobs. Ginevra, ILO. 
Marmot, M. (2016) La salute disuguale, Roma, Il Pensiero Scientifico. 
Mishel, L., Davis, A. (2014) CEO pay continues to rise as typical workers are paid less, Issue brief, Economic Policy Institute, Washington D.C. 
Nazioni Unite (2015) Trasformare il nostro mondo: lʼAgenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, New York, United Nations. OECD (2015) In it together. Why Less Inequality Benefits All. Parigi, OECD. 
Ostry, J.D., Berg, A.,Tsangarides, C.G. (2014) Redistribution, inequality, and growth, Discussion Note SDN/14/02, Washington, DC, IMF. 
Pianta, M. (2012) Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa. Roma-Bari, Laterza. 
Piketty, T. (2014) Il capitale nel XXI secolo. Milano, Bompiani. 
Sbilanciamoci (2017) Rapporto Sbilanciamoci! 2018. Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, lʼambiente. Roma, Sbilanciamoci. 
Stiglitz, J. (2013) Il prezzo della disuguaglianza, Torino, Einaudi. 
Therborn, G. (2013). The killing fields of inequality, Cambridge, Polity Press
Fonte: costituzionalismo.it

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