
di Alberto Burgio
Ci siamo finalmente. Martedì il Senato in grande spolvero voterà senza colpo ferire la propria trasformazione in una nuova Camera delle Corporazioni. Napolitano, Verdini e Barani, padri costituenti, raccoglieranno meritati onori. La legislatura vivrà una giornata palpitante. Ma se ci si potrà commuovere, dirsi sorpresi invece no, non sarebbe sensato. Che si sarebbe arrivati a questo punto si era capito già l’anno scorso, quando il ddl Boschi cominciò la navigazione tra i due rami del parlamento meno legittimo della storia repubblicana.
A rigore il governo avrebbe dovuto vedersela con l’agguerrita opposizione berlusconiana, quindi subire le condizioni poste dalle minoranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli ostacoli si rivelarono ben presto inconsistenti. Ancor prima di conquistare palazzo Chigi Renzi si era accordato con Berlusconi sulle «riforme» da varare insieme. Verdini aveva convinto il cavaliere che quel giovane democristiano era un conto in banca, la pensava allo stesso modo sulla Rinascita democratica del paese, quindi perché non sostenerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vecchia guardia rossa del Pd?