La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 10 ottobre 2015

L’eresia di Corbyn, repubblicano e no nuke

di Leonardo Clausi
Mai come nel caso del neoe­letto lea­der del Labour Party, Jeremy Cor­byn, si era inver­tita la pira­mide gerar­chica all’interno di un par­tito di oppo­si­zione, con la base che ha spet­ta­co­lar­mente scip­pato il timone alla diri­genza. E le con­se­guenze sono dirom­penti, sia per le riper­cus­sioni negli equi­li­bri interni al par­tito e nella pro­pa­ganda dei con­ser­va­tori – il cui con­gresso, tenu­tosi a Man­che­ster, si è appena con­cluso — che per via dell’ormai ben nota ere­sia cor­by­niana su due car­dini dello sta­tus quo politico-istituzionale del paese: gli arma­menti nucleari e la monar­chia.
Un’eresia, quella del segre­ta­rio, per­fet­ta­mente fami­liare e con­di­visa dalle frange mili­tanti e socia­li­ste che ne hanno resa pos­si­bile la mira­bo­lante vit­to­ria e pro­prio per que­sto altret­tanto invisa e impre­sen­ta­bile per la mag­gio­ranza dei depu­tati cen­tri­sti, ter­ro­riz­zati da un futuro di plu­ri­de­cen­nale mar­gi­na­lità per il partito.
Il rin­novo del sistema mis­si­li­stico Tri­dent – mega­pro­gramma bellico-nucleare di durata plu­rien­nale che andrà pre­sto votato in par­la­mento e il cui costo baste­rebbe a risol­vere n emer­genze uma­ni­ta­rie, è stato il primo test. Già durante il recente con­gresso di Brighton, tra il paci­fi­sta Cor­byn, da sem­pre attivo sul fronte del disarmo uni­la­te­rale, e i mode­rati del suo governo-ombra sono emerse evi­denti frizioni.
Con i volti cor­ruc­ciati in una gra­vi­tas di cir­co­stanza, una sequela di ana­li­sti poli­tici tele­vi­sivi è sfi­lata davanti al neo­se­gre­ta­rio chie­den­do­gli «Lei dun­que non pre­me­rebbe il bot­tone (dell’attacco nucleare) per difen­dere la Gran Bre­ta­gna?» Cor­byn ha riba­dito la sua con­tra­rietà all’arsenale nucleare, un’opposizione, va forse ricor­dato, in totale discon­ti­nuità con tutti i suoi pre­de­ces­sori dal secondo dopo­guerra a oggi e si è detto ancora una volta pronto a inta­vo­lare una discus­sione aperta con i dis­sen­zienti, ma è chiaro che ad atten­dere l’unità del par­tito di cui si è fatto infa­ti­ca­bile pro­mo­tore è un futuro difficile.
C’è poi la madre di tutte le anglo-eresie, e cioè il repub­bli­ca­ne­simo di Cor­byn. Il suo ruolo di lea­der del par­tito d’opposizione implica la par­te­ci­pa­zione a una sequela di anti­chis­sime litur­gie, pro­stra­zioni, pro­fes­sioni di fedeltà alla sovrana e liri­che into­na­zioni d’inni nazio­nali. All’oltraggio recen­te­mente arre­cato dal suo silen­zio durante l’inno nella messa di suf­fra­gio per la bat­ta­glia d’Inghilterra ha fatto seguito il non pre­sen­tarsi, lo scorso 8 otto­bre, alla ceri­mo­nia del Privy Coun­cil, o Con­si­glio della corona, anch’esso anti­chis­simo orga­ni­smo com­po­sto dalla crema della crema — 500 opti­ma­tes fra laici e chie­rici — che ha lo scopo di con­si­gliare la monarca nel logo­rante eser­ci­zio della sua monar­chia e che com­porta l’accesso a riser­vate infor­ma­zioni circa la sicu­rezza nazionale.
La que­stione è del tutto for­male: l’ammissione al con­si­glio può anche avve­nire senza genu­fles­sioni e bacia­mano a Eli­za­beth Wind­sor, e lo stesso Came­ron ha man­cato tre volte l’evento dopo la sua ele­zione a lea­der del par­tito. Ma è chiaro quanto, in un paese ancora con­fi­den­te­mente monar­chico, l’equilibrismo di Cor­byn si fac­cia deli­cato. Durante la cam­pa­gna elet­to­rale aveva detto che rim­piaz­zare la monar­chia non era prio­ri­ta­rio e un por­ta­voce del par­tito ha con­fer­mato che diven­terà pre­sto mem­bro del con­si­glio. Ma que­sta coe­rente pro­fes­sione di repub­bli­ca­ne­simo è cor­ro­bo­rante per i suoi soste­ni­tori quanto lo è per i Tories e i loro spin doctors.
I quali nel frat­tempo, un po’ come gli sce­neg­gia­tori dell’indimenticata serie tele­vi­siva «Boris», hanno subito comin­ciato a infar­cire i discorsi di Came­ron, Osborne e di Boris John­son di sound­bit come «ter­reno comune» (com­mon ground), ter­mine che indica in buona sostanza il cen­tro, per poi supe­rarsi quando, in occa­sione del suo atteso discorso di chiu­sura del con­gresso di Man­che­ster, Came­ron, come già Osborne prima di lui, si è spinto fino a defi­nire il suo il «par­tito dei lavo­ra­tori», allu­dendo forse agli star­tup­per di Sho­re­ditch finan­ziati dalla City.
Discorso in con­flitto con quello para­xe­no­fo­bico del mini­stro dell’interno The­resa May, che nella corsa alla lea­der­ship — Came­ron ha annun­ciato che lascerà prima delle pros­sime ele­zioni nel 2020 — ha deciso di rivol­gersi alla destra del par­tito lan­cian­dosi in un attacco anti-immigrati che ha inor­ri­dito que­gli impren­di­tori i cui busi­ness fio­ri­scono gra­zie a con­tratti a zero ore e a trat­ta­menti sala­riali che solo i migranti eco­no­mici accet­tano per disperazione.
Ma se in que­sto con­gresso Came­ron ha gustato il sapore dell’insperata e risi­cata mag­gio­ranza par­la­men­tare, la set­ti­mana del pre­mier non è stata pro­prio tutta rosa e fiori. Chie­den­do­gli conto della «squal­lida» alleanza con gli auto­cra­tici Sau­diti, pros­simi a deca­pi­tare un dis­si­dente dicias­set­tenne, in un’intervista su Chan­nel Four, il vete­rano Jon Snow lo ha costretto a una giu­sti­fi­ca­zione sten­tata e penosa.

Fonte: il manifesto 

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