La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 9 ottobre 2015

Le briciole della memoria per narrare l’«homo sovieticus»

Intervista a Svle­tana Alek­sie­vic di Guido Caldiron
«Ho cer­cato lun­ga­mente me stessa, volevo tro­vare qual­cosa che mi avvi­ci­nasse alla realtà, ero tor­men­tata ipno­tiz­zata, appas­sio­na­ta­mente incu­rio­sita pro­prio dalla realtà. Affer­rare quanto vi è di auten­tico, ecco cosa volevo. E ho assi­mi­lato all’istante que­sto genere, fatto delle voci di uomini e donne, di con­fes­sioni, testi­mo­nianze e docu­menti dell’anima delle per­sone. Sì, il mondo io lo vedo e lo sento pro­prio in que­sto modo: attra­verso le voci e i det­ta­gli della vita quo­ti­diana e del vivere. La mia vista e il mio udito sono strut­tu­rati così. E tutto quello che avevo den­tro si è subito rive­lato utile, per­ché biso­gnava essere al tempo stesso scrit­tore, gior­na­li­sta, socio­logo, psi­coa­na­li­sta, predicatore».
La deci­sione dell’Accademia di Sve­zia di asse­ganre il pre­mio Nobel per let­te­ra­tura a Sve­tlana Alek­sie­vic è prima di tutto un rico­no­sci­mento alla ricerca che l’intellettuale bie­lo­russa, esule volon­ta­ria da più di dieci anni dal pro­prio paese, ha intra­preso da tempo nei ter­ri­tori della memo­ria e della lin­gua, con­si­de­rati alla stre­gua di esseri viventi, pagine di un romanzo col­let­tivo che è poi la sto­ria stessa dell’umanità.
Per la scrit­trice e sag­gi­sta, che ha rac­con­tato in uno stile che va ben al di là del gior­na­li­smo nar­ra­tivo il secolo dell’homo sovie­ti­cus dalla Seconda guerra mon­diale fino all’ascesa al Crem­lino di Vla­di­mir Putin, prima di tutto ven­gono gli esseri umani, la loro libertà e i loro diritti, ma anche il modo asso­lu­ta­mente sog­get­tivo e irri­pe­ti­bile di attra­ver­sare la Sto­ria, le sue con­trad­di­zioni e i suoi drammi che cia­scuno porta con sé.
Sono per­ciò le emo­zioni, paure e spe­ranze rac­colte in cen­ti­naia se non migliaia di inter­vi­ste e incon­tri, ad aver reso nel corso degli ultimi trent’anni le pagine dei repor­tage di Alek­sie­vich pal­pi­tanti come romanzi, a volte dram­ma­ti­che e intrise di orrore, a volte malin­co­ni­che e sot­til­mente ambi­gue come accade per i sogni che sva­ni­scono con il fare del giorno.
Nata nel 1948 nella città ucraina di Ivano Frank­i­vsk, da madre ucraina e padre bie­lo­russo, Sve­tlana Alek­sie­vic ha lavo­rato a Minsk dap­prima come inse­gnante e quindi come gior­na­li­sta. Nel 1985, con il suo libro La guerra non ha un volto di donna, dedi­cato al con­tri­buto dato dalle donne bie­lo­russe alla Seconda duerra mon­diale, e tutt’ora ine­dito in Ita­lia, è entrata nel mirino delle auto­rità locali che l’hanno accu­sata di aver offerto una visione troppo rea­li­stica e dis­sa­cra­to­ria della donna sovie­tica: mal­grado la cen­sura il volume ha però ven­duto più di 2 milioni di copie fino ad oggi. L’intervista con Svle­tana Alek­sie­vic è avve­nuta una man­ciata di giorni fa, quando l’autrice era in Italia.
Nell’introduzione al suo ultimo libro lei torna sul metodo che con­trad­di­stin­gue da sem­pre il suo lavoro, spie­gando di aver rac­colto «bri­ciola dopo bri­ciola la memo­ria» del suo popolo. Le per­sone che inter­vi­sta appa­iono come i pro­ta­go­ni­sti di un grande romanzo corale: come nasce que­sto stile di scrittura?
"Credo che parta prima di tutto da un biso­gno inte­riore. Alla base di ogni repor­tage come di ogni inchie­sta che ho con­dotto in tutti que­sti anni c’è sem­pre stato uno scavo pro­lun­gato, un’immersione pres­so­ché totale in ciò che stavo facendo. Prima di tutto ci sono per­ciò gli incon­tri con le per­sone da cui mi voglio far rac­con­tare un dete­ter­mi­nato avve­ni­mento o periodo e le inter­vi­ste che rea­lizzo con loro. Solo per fare un esem­pio, per quest’ultimo libro, a cui ho lavo­rato com­ples­si­va­mente per sette o otto anni, ho inter­vi­stato tra le 250 e le 300 per­sone, ho perso per­fino il conto, men­tre per La guerra non ha un volto di donna e Pre­ghiera per Cer­no­byl’ avevo supe­rato le 400 inter­vi­ste. Quindi si tratta sem­pre di un lavoro enorme che viene poi tra­dotto nella scrit­tura, cer­cando di rima­nere fedele, soprat­tutto alle emo­zioni di chi ho incon­trato. Quello che posso dire è che non si tratta solo di dar voce ad una sto­ria orale, di regi­strare e met­tere in ordine signoli ricordi e spez­zoni di memo­ria, ma di costruire un nuovo modo di scri­vere, di com­porre e di riu­scire a rac­con­tare le opi­nioni e le sto­rie delle per­sone come se appar­te­nes­sero ad un’unica grande nar­ra­zione. Da que­sto punto di vista credo si possa par­lare di una nuova filo­so­fia della scrit­tura e sono con­vinta che in effetti sia l’insieme dei miei lavori che ha per certi versi com­po­sto fino ad ora il romanzo corale a cui lei fa riferimento."
Con “Tempo di seconda mano” sem­bra con­clu­dersi il lungo lavoro, durato più di trent’anni, che lei ha dedi­cato a rico­struire la per­ce­zione che i cit­ta­dini sovie­tici, e oggi russi, hanno avuto della loro sto­ria, dalla Seconda guerra mon­diale fino all’ascesa di Putin. Quale la carat­te­ri­stica pecu­liare a que­sta realtà che è emersa?
"A pro­po­sito della realtà dell’Urss credo si possa par­lare com­piu­ta­mente di un mondo a parte, con la sua defi­ni­zione del bene e del male molto diversa da quella dell’Occidente. Met­tete a con­fronto due per­sone di 60 anni, l’una ex sovie­tica, l’altra occi­den­tale, e vi ren­de­rete conto come abbiano vis­suto fin dal loro primo giorno di vita in due uni­versi che ave­vano dav­vero poche cose in comune: dal cibo ai film, fino alla loro visione della car­riera lavo­ra­tiva o dei rap­porti umani era come se appar­te­nes­sero a pia­neti diversi. L’Homo sovie­ti­cus, l’interprete della sto­ria che ho vis­suto anch’io almeno fino ai trent’anni, era dav­vero molto diverso dal resto degli euro­pei. E se si dimen­tica que­sto, si capi­sce dav­vero poco della Rus­sia di oggi."
Nel libro lei cita la «Leg­genda del Grande Inqui­si­tore» di Dostoe­v­skij per intro­durre il tema della scarsa fidu­cia nella libertà che sem­bra emersa nella società postso­vie­tica e che è incar­nata dalla stella auto­ri­ta­ria di Putin, come sono andate le cose?
"L’Urss non ci aveva certo abi­tuati alla demo­cra­zia o a pen­sare con la nostra testa — uno degli inter­vi­stati mi ha rac­con­tato che negli anni Ses­santa, durante un viag­gio orga­niz­zato a Ber­lino Est, la guida che era in realtà un uomo del Kgb deci­deva per­fino se si potesse o meno man­giare un gelato per strada — e per­ciò anche il dopo regime ha colto molti impre­pa­rati. Le parole d’ordine della pere­stroika non erano sem­pre chiare, non tutti capi­vano cosa di dovesse man­te­nere e cosa get­tare via del vec­chio stile di vita. Poi, soprat­tutto, la demo­cra­zia non ha man­te­nuto le sue pro­messe sociali, non ha ridotto né la mise­ria né le dispa­rità — spesso gli stessi ex diri­genti del Pcus che ne tes­se­vano le lodi si arric­chi­vano con le pri­va­tiz­za­zioni e la corruzione.
Così, quando è apparsa una figura come quella di Putin, che non ha caso viene dall’ex appa­rato sovie­tico, molte per­sone hanno avuto la sen­sa­zione che si stesse tor­nando ad un voca­bo­la­rio cono­sciuto e ras­si­cu­rante: quello che parla di un nuovo impero, della gran­dezza della patria russa, del fatto che Mosca deve seguire il pro­prio destino sto­rico senza tener conto di quello che pen­sano gli altri paesi e che gli altri fanno bene ad aver paura di noi. Era que­sto il lin­guag­gio che il popolo era abi­tuato ad ascol­tare da parte di chi dete­neva il potere. E il tra­gico para­dosso è che nel clima di incer­tezza degli ultimi anni è emersa, ali­men­tata ad arte anche dal potere, una sorta di nostal­gia per una sto­ria sovie­tica dove si mesco­lano in realtà Sta­lin e lo Zar, il wel­fare e la potenza mili­tare, le sicu­rezze per­dute e un minac­cioso nazionalismo."

Fonte: il manifesto 

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