La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 5 settembre 2015

Renzi alla lotta di classe. E noi?


di Gianluca Graciolini
"Non c’è altro di cui discutere". Così Renzi ha chiuso il Consiglio dei Ministri, con gli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act tra cui un'ennesima, grande, porcata a danno di tutti i lavoratori: d’ora in poi saranno possibili i controlli a distanza dei dipendenti attraverso tablet, smartphone o altre dotazioni tecnologiche senza dover fare prima accordi sindacali o avere autorizzazioni ministeriali. Un ritorno ad un passato mortificante ed insieme una premessa di un futuro sempre più cupo dove sfruttamento e nuove schiavitù saranno la forma usuale e a questo punto legalizzata delle relazioni di lavoro. 
Io davvero non so che diavolo avranno mai fatto a questo fortunato pargolo della borghesia democristiana toscana cresciuto a telequiz le lavoratrici ed i lavoratori italiani, ma è così chiaro che ogni politica del suo governo porti la puzza della lotta di classe, quella dei ricchi e dei padroni o per conto dei ricchi e dei padroni, contro i poveri, contro tutti coloro che per vivere devono lavorare sempre peggio e contro quelli che un lavoro non ce l'hanno. 
Già, la lotta di classe. In nome di tutti questi ultimi, l'antico ma mai scomparso mondo alla rovescia, il termine viene usato deliberatamente, apertamente e molto serenamente da Jeremy Corbyn e da Bernie Sanders, l'uno nel primo che fu e l'altro nel secondo dei grandi Paesi capitalistici per antonomasia, senza alcun timore reverenziale e senza alcuna paura di passare per veterocomunisti, mietendo ovunque consensi, in particolare tra i giovani e i giovanissimi. Quelli che più di tutti hanno sofferto le conseguenze delle crisi e dell'austerità e quelli che vedono compromesso il loro futuro con il sistema e le politiche economiche e sociali oggi dominanti.
E in Italia? Dobbiamo avere paura proprio noi di chiamare le cose con il loro nome? Non è forse giunto il tempo di rispondere con la lotta di classe alla guerra di classe dichiarataci da un piccolo parvenu di provincia giunto sugli scudi per manifesta assenza di ogni avversario?

Post Scriptum: Sabato Renzi era a Cernobbio, nella consueta kermesse finanzcapitalista di fine estate. Un bagno di applausi fragorosi e di calorose pacche sulle spalle da banchieri, padroni, grandi manager ed economisti del dogma liberista. Un trionfo addirittura quando ha esposto per la generale estasi lo scalpo del Jobs Act, dell'articolo 18, delle decontribuzioni, dei controlli a distanza ed altre promesse di porcate contro il lavoro e a perpetuare, accentuare le diseguaglianze.  Se non è lotta di classe questa che cos'è?

Il nuovo sentiero

di Tommaso Di Francesco
Scri­ve­ranno di «lunga mar­cia», di «cam­mino della spe­ranza» e di «fuga per la libertà», ma nes­suna mito­lo­gia può descri­vere quello che accade. A piedi, da soli, sulle pro­prie gambe s’incamminano in migliaia i rifu­giati; gli stessi che già hanno attra­ver­sato i con­fini riscri­vendo la tri­ste geo­gra­fia del Vec­chio Con­ti­nente pas­sando il muro di razza unghe­rese, quello della nostra coscienza sporca.
Men­tre un ver­tice Ue richiama l’altro e nulla accade, a piedi si incam­mi­nano per sfug­gire a inter­na­menti e fili spi­nati, a nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari. Via dall’Ungheria che li ha umi­liati, bef­fati e depor­tati, men­tre Orbán dichiara lo stato d’emergenza. E men­tre il cuore d’Europa, da Praga, rifiuta ogni acco­glienza. Da un sum­mit all’altro l’Europa, appesa ad una moneta, con­ferma il suo vuoto poli­tico e sociale. Resta solo il para­digma siriano di Angela Mer­kel. Ma che ne sarà degli «altri» disperati?
Ma non doveva, la foto del pic­colo Aylan Kurdi e la sua morte, cam­biare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: acco­glie­teci o i col­pe­voli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano che ha gri­dato: «Fer­mate la guerra e tor­niamo in Siria». Ine­qui­vo­ca­bili. E invece l’«innocente» Pen­ta­gono avverte che la foto di Aylan dovrebbe per­sua­dere (come per Sara­jevo?) a farne un’altra: dove già si com­batte, come in Libia o in Siria.

Referendum: lavoriamo per ridare la parola ai cittadini e unire la sinistra

Intervista a Elly Schlein di Alfonso Bianchi
Gli otto referendum promossi da Pippo Civati e la sua creatura politica, Possibile, sono una “sfida ambiziosa” e una “risposta alla crisi di rappresentanza”, ma soprattutto alla crisi della sinistra, che deve capire che per “rimettere insieme i suoi pezzi, deve smetterla con le alchimie verticistiche e ripartire da battaglie che sono già in corso, cercando di unirle”. Elly Schlein, eurodeputata fuoriuscita dal Pd per aderire a Possibile, nel suo ufficio di Bruxelles è indaffarata per l’impegno non facile di contribuire alla raccolta delle 500mila firme, necessarie per ognuno degli otto quesiti, che devono essere depositate entro la fine del mese. È abbronzata ma dice che di vacanze non ne ha viste poche. “A mare ci sono potuta andare in alcune delle tappe del coast to coast che abbiamo fatto quest’estate per l’inizio della raccolta firme”.
Crede che riuscirete a raccoglierle in tempo?
“Sicuramente una sfida ambiziosa, ma siamo fiduciosi, l’obiettivo è assolutamente raggiungibile.

Il diritto allo studio è finito: escluso il 25% degli studenti

di Roberto Ciccarelli
Il 25 per cento degli stu­denti uni­ver­si­tari ita­liani saranno esclusi dalle borse di stu­dio a causa della riforma del nuovo Isee, il nuovo indi­ca­tore della situa­zione economico-patrimoniale adot­tato lo scorso gen­naio. Per gli stu­denti della Rete della cono­scenza la situa­zione è dram­ma­tica: il con­teg­gio dei red­diti esenti ai fini Irpef e la riva­lu­ta­zione del patri­mo­nio immo­bi­liare per il cal­colo dell’Imu costrin­ge­ranno migliaia di bor­si­sti in gra­dua­to­ria a non ripre­sen­tare la domanda, certi di essere esclusi dal bene­fi­cio di un diritto fon­da­men­tale. In que­sto modo non risul­tano nem­meno come «non ido­nei» e dun­que spa­ri­scono dai radar che regi­strano gli stu­denti che hanno biso­gno della borsa. La situa­zione è fra­sta­gliata, visto che ogni regione segue la pro­pria nor­ma­tiva e lavora su un calen­da­rio diverso.
Il sin­da­cato stu­den­te­sco ha inter­pel­lato le sin­gole aziende per il diritto allo stu­dio, otte­nendo una foto­gra­fia della situa­zione par­ti­co­lar­mente pre­cisa.

Il cielo sopra Roma e Berlino: gonfio di balle

di Pierfranco Pellizzetti
Dopo che per decenni nuvole di parole illusionistiche hanno trasformato la scena politica nel set di un reality-show, parrebbe che le dure repliche della realtà stiano smascherando quelle pervicaci macchinazioni per truffare la pubblica opinione.
In Italia, come in Europa e nel mondo.
Forse perché a capo di una Confindustria che ormai non conta più niente, Giorgio Squinzi (nella veste a sonagli del “fou du roi”?) si prende la briga di smentire le balle del premier Renzi, intonando un controcanto impensabile nel recente passato: gli infinitesimali segni di ripresa, che il fanfarone di Rignano sull’Arno accrediterebbe alle sue strampalate riforme puramente labiali (Job Acts), dipendono soltanto dal crollo dei prezzi delle materie prime e dall’andamento delle valute (dollaro su, euro giù). Il solito “miracolo italiano” da peracottari; questa volta – e finalmente – chiamato con il suo vero nome e cognome.

Pil e disoccupazione. Quando l’ottimismo è frutto dello stordimento mediatico


di Dario Guarascio
Una delle caratteristiche distintive dei media contemporanei è quella di alternare - in un’interminabile montagna russa - allarmi, annunci di catastrofi imminenti e perentori richiami all’emergenza a proclami trionfalistici in ragione dei quali il peggio sarebbe alle spalle e i giorni felici dietro l’angolo. La rapidità con cui la rappresentazione del reale passa – nei media e nelle menti di chi ha con essi una relazione – dall’ecatombe imminente al regno della speranza coincide, sempre più spesso, con lo spazio di un mattino.
Un effetto immediato di tale nutrimento perverso riguarda lo sviluppo di una particolare forma di amnesia. Lo stordimento è tale, infatti, che ci si ritrova con sempre maggiore frequenza a dar credito a notizie, tesi o opinioni che, la stessa fonte mediatica, poteva avere tranquillamente sconfessato o dato per false il giorno prima. Si vive in una sorta di continuo ordine e contrordine che ha come risultato quello di far perdere lucidità, obiettività e visione rispetto agli eventi - quelli sì, reali – che quotidianamente si manifestano.

Il finto “Senato delle Autonomie”

di Maria Luisa Pesante
La concentrazione del dibattito parlamentare sul problema dell’elezione indiretta del senato nel ddl costituzionale, soprattutto in questo momento in cui un’eterogenea opposizione, mossa da principi inconciliabili, minaccia di bloccarne la strada, distoglie l’attenzione da alcuni dei dispositivi specifici che il governo ha messo al centro del suo progetto di trasformazione della Repubblica, come se essi derivassero by default in un’inesorabile logica istituzionale dalla scelta del bicameralismo asimmetrico, con un senato che non vota la fiducia. In particolare è rimasto in secondo piano nelle analisi critiche del progetto governativo un aspetto della sua deriva verso un regime costituzionale privo di efficace bilanciamento tra poteri del governo sui processi legislativi e poteri e funzioni degli organi legislativi. Da un lato, il progetto contiene uno svuotamento dei poteri legislativi delle regioni; ma, dall’altro, attribuisce al futuro senato funzioni (fondamentalmente leggi costituzionali e revisioni della costituzione, nomine istituzionali, e un ridotto potere di interferenza con la legislazione della prima Camera) coerenti solo con un “senato delle autonomie” che rappresenti effettivamente un’istituzione regionale con rilevanti prerogative legislative.

Premesse a una strategia

di Augusto Illuminati
I farfugliamenti sulla “grande politica” che hanno accompagnato il disarmo politico e morale della sinistra italiana nell’ultimo ventennio non depongono a favore del termine. Tuttavia la grande politica esiste. Solo che la fanno gli altri. Anche su temi come i migranti. Vediamo di imparare. Gesti semplici, calcoli precisi, parole comprensibili. Ovviamente su cose importanti, addirittura epocali. Per esempio, la tumultuosa migrazione dei popoli che oggi è manifestamente l’effetto e il sedimento dinamico di una profonda crisi economica e non solo.
Abbiamo registrato tre grandi risposte.
Papa Bergoglio l’ha messa al centro degli eventi e ha proclamato un’accoglienza incondizionata e illimitata, che non distingue fra asilanti, profughi di guerra e migranti economici. Abbastanza realistico, prima ancora che misericordioso: difficile fare una cernita motivazionale da chi scappa dalla morte (per fame, per persecuzione, per conflitto).

Il regime del salario

di Ferruccio Gambino
Questa premessa* intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi.

Un rapporto di dominio. Sindacato, reddito, insubordinazione nel regime del salario

di Lavoro Insoburdinato
Lavoro Insubordinato è un collettivo di uomini e donne sull’orlo dell’occupabilità che hanno cominciato a discutere dell’organizzazione politica del lavoro precario in un momento in cui parlare di sciopero era un po’ come evocare un santo. Tra il 2012 e il 2013 l’esperienza degli Stati Generali della Precarietà, a cui abbiamo preso parte, ci aveva lasciato contemporaneamente il senso di una possibilità, un orizzonte politico sul quale investire e una considerevole dose di realismo. Da buoni atei abbiamo perciò cominciato a interrogarci a partire dai limiti, dagli ostacoli, dalle domande che le esperienze pregresse avevano aperto.
La prima considerazione è stata quella della difficoltà oggettiva di organizzare i precari e, anche per questa ragione, l’idea di uno sportello tecnico di supporto alle vertenze, nella sua innegabile utilità, ci sembrava lasciare aperto il problema della comunicazione politica, ovvero di processi organizzativi capaci di assumere una forma espansiva andando al di là della singola vertenza.

Un voto per far ripartire l’Italia. Un appello e una petizione

Una mar­tel­lante cam­pa­gna rilan­ciata dalla grande mag­gio­ranza degli stru­menti di infor­ma­zione vuole con­vin­cerci che per sbloc­care l’Italia c’è biso­gno delle «riforme» costi­tu­zio­nali e isti­tu­zio­nali pro­pu­gnate dal governo Renzi.
In realtà lo stra­vol­gi­mento della Costi­tu­zione e del sistema elet­to­rale, come della pub­blica ammi­ni­stra­zione e della scuola, non ten­dono a sbloc­care l’Italia, ma con­ver­gono verso un unico fine, quello di «bloc­care» la demo­cra­zia, met­tere le gana­sce agli isti­tuti repub­bli­cani che garan­ti­scono l’equilibrio dei poteri e la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini alla deter­mi­na­zione della poli­tica nazio­nale. E per que­sta via restau­rare una nuova forma di governo oli­gar­chico, svin­co­lato dal rispetto dei beni pub­blici che la Costi­tu­zione ha attri­buito al popolo italiano.

Tasse, la prima casa delle libertà

di Ernesto Longobardi
Con l’annuncio della detassazione dell’abitazione principale, Matteo Renzi emula in maniera sfacciata Silvio Berlusconi, il quale, esattamente con la stessa proposta, vinse una prima volta le elezioni, nel 2008, e una seconda volta, nel 2013, rimediò all’ultimo momento a una ormai certa sconfitta elettorale, impedendo al Pd di Bersani una piena vittoria. «Se è andata bene per due volte a Berlusconi, perché non dovrebbe andare bene a me?»: così deve aver pensato il nostro baldanzoso presidente del Consiglio, preoccupato per i segnali di una riduzione del consenso elettorale. E ha sciorinato la ricetta berlusconiana, per la prima volta a un’attonita assemblea del partito.
Si sapeva da mesi che i tecnici di Renzi stavano lavorando all’ipotesi di una “local tax”, cioè di un’imposta comunale che avrebbe dovuto sostituire la Iuc, l’imposta una e trina – Imu, Tasi e Tari – che fu l’esito ultimo del disastroso processo di modifiche del tributo immobiliare comunale innescato dalla trovata di Berlusconi.

Il “didattichese” della Buona scuola

di Sandra Zingaretti
Molti colleghi insegnanti, siano essi del primo ciclo d’istruzione che delle Università della terza età, si oppongono all’uso eccessivo del linguaggio “didattichese” in ambito scolastico, sostenendo che (un po’ come avviene per il “burocratese”) appesantisca inutilmente il normale dialogo educativo. Al fine di avvicinare i suddetti colleghi alla nomenclatura e ai contenuti della didattica, soprattutto in vista del nuovo “affascinante” anno scolastico appena iniziato, si intende fornire qui di seguito una breve e semplice guida sulla didattica contemporanea.
La contemporaneità educativo-pedagogico-didattica, com’è noto, ritiene ormai superate le concezioni innatistiche e deterministiche dello sviluppo cognitivo. A seguito di queste nuove istanze pedagogiche del progetto “buona scuola“, a partire dalla fase 0, fino alla fase A, B, C ecc…, è da considerarsi obsoleta sia l’apertura delportfolio, sia la stesura dei curricola che il ritorno dei cicli, nonché la scansione modulare basata su didattica modulare, orario modulare, classi divise in moduli, modulo integrato, modulo curvato e modulo passerella, così come una modularità non modulistica, composta da singoli segmenti di unità formativa, fortemente strutturati e ad alta omogeneità interna, relativi ad aspetti epistemologicamente portanti della proposta di istruzione.

I miei 10 appunti di fine estate

di Simone Oggionni
C'è chi durante l'estate legge i fumetti e chi scarabocchia qualche appunto (tra la lettura di un fumetto e un'altra). Negli ultimi mesi mi è capitato di girare in lungo e in largo l'Italia, parlando con tantissime compagni e tantissimi compagni, militanti di una Sinistra tutta da ricostruire.
Ho ascoltato moltissimo e ho preso nota, perché dalla nostra gente imparo sempre, ogni giorno. Ora che l'estate è quasi finita pubblico queste sintesi. Sono riflessioni che meriterebbero ben altro approfondimento, ma a volte anche gli aforismi brevi hanno un loro senso. Si tratta di dieci appunti. Ognuno di questi è l'inizio di un libro da scrivere tutti insieme.
1) Scrivere una nuova Storia, perché quella che abbiamo alle spalle è finita.
2) Imparare sempre dall'avversario, mai sottovalutarlo, capire le sue ragioni.

Disoccupazione tecnologica, i dati e la fede

di Dante Barontini
È bellissimo avere una fede, incrollabile anche a dispetto dell'evidenza. La realtà, per un credente, diventa solo un momento transitorio – magari addirittura molto negativo – del percorso attraverso cui l'oggetto della fede si afferma.
Se questo oggetto è un dio, non c'è nulla – sulla Terra - che possa dimostrare il contrario. Se èinvece, più banalmente, un modo di produzione (per definizione “storico”, ossia transeunte e mortale come gli esseri umani che ne fanno parte), allora dimostrare l'inconsistenza della fede è decisamente più facile.
Prendiamo ad esempio due articoli apparsi in questi giorni su La Stampa di Torino, foglio di proprietà della Fiat, intorno allo stesso argomento. Da una parte ci sono i dati relativi all'incidenza – negativa, ma inarrestabile - dell'introduzione di tecnologie informatiche e robotizzazione in ogni aspetto o comparto della vita economica; dall'altra la manifestazione di fede assoluta nelle virtù salvifiche del capitalismo.

Jobs Act, via libera ai controlli a distanza

di Antonio Sciotto
Il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti ha cer­cato di ras­si­cu­rare: «Le nuove norme non vio­lano la pri­vacy dei lavo­ra­tori». Ma oppo­si­zione e sin­da­cati si dicono pre­oc­cu­pati. Ieri sono stati varati dal con­si­glio dei mini­stri gli ultimi quat­tro decreti attua­tivi del Jobs Act, e tra le misure appro­vate ci sono anche quelle sui con­trolli a distanza. Senza cor­ret­tivi: il governo non si è fatto influen­zare dalle cri­ti­che mosse dai sin­da­cati, né ha voluto rece­pire, come era invece sem­brato la set­ti­mana scorsa, gli emen­da­menti sug­ge­riti dalla Com­mis­sione Lavoro della Camera. E così, come in tante altre occa­sioni, è andato dritto per la sua strada.
In sostanza, le aziende potranno asse­gnare ai lavo­ra­tori stru­menti come pc, tablet e cel­lu­lari senza che sia neces­sa­rio un accordo sin­da­cale o una auto­riz­za­zione del mini­stero, richie­sto invece per instal­lare tele­ca­mere. Ma sarà sem­pre obbli­ga­to­rio infor­mare pre­ven­ti­va­mente e in maniera ade­guata gli stessi lavo­ra­tori sulle moda­lità d’uso degli stru­menti e di effet­tua­zione dei con­trolli, che devono comun­que sem­pre avve­nire nel rispetto delle norme sulla pri­vacy. In base a que­ste due con­di­zioni, le infor­ma­zioni rac­colte «sono uti­liz­za­bili a tutti i fini con­nessi al rap­porto di lavoro», quindi poten­zial­mente anche a fini disciplinari.

I referendum mentre tutti si spulciano

di Giulio Cavalli
E niente. Deve essere qualcosa che ha a che vedere con la genetica oppure un meccanismo preimpostato di autodistruzione quello che sta lasciando gocciolare i referendum come se fossero semplicemente un rubinetto che perde nel bagno di Pippo Civati. Forse davvero a sinistra l’incapacità di organizzare gli intenti ha messo questo Paese “in pausa per vent’anni”, come ha detto il premier Matteo Renzi. Riferendosi a Berlusconi, lui. Va bé.
Riepilogando: ‘Possibile’, la creatura politica organizzata da Pippo Civati (e mica solo lui, con coordinamenti in tutta Italia ma la personalizzazione è un gioco semplice per capirsi) ha preparato 8 quesiti referendari da presentare entro la fine di quest’anno. Le motivazioni sono abbastanza lapalissiane: senza votazioni in vista il modo più concreto per “fare politica” è quello di mettere una firma contro le decisioni non condivise del governo per cui si va da dall’eliminazione dei capilista bloccati, all’abrogazione dell’Italicum, all’eliminazione del potere di chiamata del preside “manager” nella riforma scolastica, l’eliminazione delle trivelle in mare, passando per l’ambiente fino all’abolizione del demansionamento e la reintroduzione dell’articolo 18 nel Jobs Act. Insomma: un referendum su molte delle questioni che hanno scaldato la politica in questi ultimi anni e che hanno acceso indignazione varia non solo a sinistra.

Il ritorno della sobrietà: in Italia prendono piede i «consumatori non consumisti»

di Luca Aretini
Se è il linguaggio a definire i confini del mondo che viviamo, quello sperimentato in Italia e raccolto dal rapporto Coop 2015 sta cambiando. Qualche perplessità a leggere “respingere gli immigrati” tra le espressioni a dire il vero c’è, vista la cronaca di questi mesi, mentre più comprensibile è la collocazione nel “passato” di termini come “politici”, “partiti”, “stato” e “sindacati”. Una disaffezione che spaventa, coerente con il sempre minor afflusso alle urne durante le tornate elettorali, ma che è accompagnata dalla speranza nel leggere espressioni come “premiare il merito”, “combattere la disoccupazione”, “ridurre le disuguaglianze”, “famiglia”, “la sobrietà nei consumi”: sono queste le parole nel lessico italiano del futuro.
D’altronde lo specchio del rapporto Coop riflette, come sempre, l’immagine di un’Italia «bipolare e schizofrenica», eternamente divisa. Pil e reddito disponibile, per la prima volta dopo anni di apnea, stanno tirando il primo sospiro di sollievo grazie agli ormai famosi fattori esogeni (euro debole, basso prezzo del petrolio, aiuto della Bce).

La triplice dimenticanza di Renzi

di Gustavo Piga
“Pensano di spiegarci cosa fare sulle tasse? Le tasse che tagliamo le decidiamo noi”.
Matteo Renzi alla radio.
Sono tre le cose che Matteo Renzi dimentica e che condanneranno l’Italia che lui governa alla stagnazione.
Prima dimenticanza: tagliare le tasse (o perlomeno annunciare di tagliarle) senza aver fatto (né messo in moto!) alcuna credibile riforma nel mondo degli appalti pubblici e degli stipendi pubblici (le due principali componenti della spesa pubblica che influenzano generazione di PIL e benessere collettivo) non serve a nulla. Perché la gente spende soldi che si ritrova in tasca solo se ha la certezza che non glieli chiederanno indietro pochi mesi o anni dopo. Ma un governo che non sa tagliare gli sprechi manda un messaggio chiarissimo ai contribuenti: che alla fine per pagare il buco che si crea nelle finanze pubbliche a causa del taglio delle tasse ricorrerà a un aumento di altre tasse.

Precari della scuola, migranti per forza

di Valeria Ottonelli
La vicenda degli insegnanti meridionali che dovranno trasferirsi al Nord per ottenere finalmente un posto di ruolo ha suscitato polemiche dai toni spesso esasperati e iperbolici. È stata anche pretesto, per alcuni, per ribadire un principio ritenuto ovvio. Certo, si è detto, di fronte ad alcuni casi personali possiamo dispiacerci, specie quando coinvolgono persone già attempate, ma bisogna comunque che ci abituiamo all’idea che la mobilità territoriale - cioè la migrazione - specie se interna a uno stesso Paese, è un fatto fisiologico, come sanno le migliaia di giovani che sono già partiti o si apprestano a partire verso nuovi lidi. Questi inviti alla normalizzazione dei fenomeni migratori – al di là del loro uso comunque improprio nella vicenda in questione – ci dovrebbero preoccupare. Sono entrati a far parte del senso comune, ma non dovrebbero esserlo.
In realtà, le migrazioni non sono un fenomeno fisiologico.

Trivelle: l’unico modo per fermarle è raccogliere le firme

Dopo il decreto di compatibilità ambientale che i Ministeri dell’Ambiente e del Turismo hanno rilasciato per “Ombrina mare”, le nuove trivelle sono ormai prossime lungo le coste d’Abruzzo, così come gran parte di quelle italiane dall’Emilia alla Sardegna.
Lo scorso 17 luglio, come ormai noto, sono stati depositati in Cassazione 8 quesiti referendari su: Italicum, trivelle e Legge obiettivo Grandi opere, Jobs act e la Scuola del preside-manager. Immediatamente è partita una campagna referendaria nazionale.
Sulle trivellazioni, in particolare, si concentrano due quesiti: uno che riguarda l’art.35 del Decreto Sviluppo (che interessa in Abruzzo “Ombrina Mare”) e l’altro che riguarda l’art.38 dello Sblocca Italia. In estrema sintesi stiamo parlando delle trivellazioni in mare e del carattere strategico delle trivellazioni.

L’immagine del bambino che ribalta la xenofobia

di Carlo Freccero
A par­tire dal dopo­guerra, l’opinione pub­blica non è più con­di­zio­nata dalla pagina scritta, ma piut­to­sto da imma­gini che, poste una dopo l’altra, rac­con­tano la sto­ria del Nove­cento. Pen­siamo al fal­li­mento da parte degli Usa della guerra in Viet­nam a causa delle crude imma­gini di guerra. Da cui la cen­sura visiva totale che ha col­pito la prima Guerra del Golfo, deno­mi­nata per­ciò «la guerra che non ha mai avuto luogo» ed infine ai foto­grafi embed­ded nella seconda, che dove­vano con­fe­rire al con­flitto una valenza eroica e patriottica.
Chiun­que poi si inte­ressi di pro­pa­ganda, sa che l’argomento «strage di bam­bini» sia per imma­gini, che per testi­mo­nianza scritta, rap­pre­senta l’argomento infal­li­bile per pie­gare l’opinione pub­blica alla pro­pa­ganda di guerra. Strage di bam­bini sono state attri­buite a Sadam Hus­sein e, più recen­te­mente ad Assad, per giu­sti­fi­care inter­venti bel­lici, altri­menti dif­fi­cili da giu­sti­fi­care. In breve tempo abbiamo rice­vuto due imma­gini che ribal­tano la xeno­fo­bia con­tro i pro­fu­ghi, sino ad oggi prevalente.

Critica dell'economia politica, oltre il marxismo tradizionale: Moishe Postone e Robert Kurz

di Jordi Maiso ed Eduardo Maura
Questo testo intende presentare due proposte di attualizzazione della critica marxiana dell'economia politica: quelle di Moishe Postone e di Robert Kurz. I loro approcci, sviluppati a partire dagli anno Ottanta, offrono delle chiavi per superare le insufficienze del marxismo tradizionale ed aprono prospettive fruttuose al fine di rendere attuale la teoria critica. Partendo da una reinterpretazione comune delle categorie di Marx, i due autori arrivano, tuttavia, a diagnosi differenti: mentre Postone insiste su come il capitalismo crei (e blocchi) la possibilità di un nuovo ordine sociale, Kurz sottolinea il fatto che il capitalismo contemporaneo abbia raggiunto il suo limite interno e sia entrato in una fase irreversibile di declino e di disintegrazione.
Negli anni successivi alla "rottura epocale" del 1989, la critica dell'economia politica in chiave marxiana era considerata un capitolo chiuso della storia del pensiero, ed ostinarsi a criticare il capitalismo era ritenuto proprio di qualche testardo che non voleva riconoscere i nuovi segni dei tempi.

La matassa da districare delle pensioni. Un libro ci prova...

di Roberto Romano
Quando la poli­tica e la società sono inve­stite da una crisi eco­no­mica, lunga e pro­fonda come quella ini­ziata nel 2007, i temi fon­da­men­tali del legame sociale con­tem­po­ra­neo sono messi in discus­sione. Il caso più evi­dente è quello dello stato sociale. Costruito dall’Inghilterra tra il 1942–45 in piena seconda guerra mon­diale sulla base del Piano di pro­te­zione sociale ela­bo­rato da Wil­liam Beve­ridge, è stato pro­get­tato a par­tire da un sistema pre­vi­den­ziale uni­fi­cato e obbli­ga­to­rio per tutti i cit­ta­dini, capace di coprire i periodi d’interruzione o per­dita della capa­cità di gua­da­gno; un sistema coe­rente e arti­co­lato di ser­vizi sani­tari, gra­tuito e aperto a tutti, pen­sati anche per pre­ve­nire le malat­tie. Al cen­tro del pro­getto, c’era la piena occu­pa­zione, un requi­sito indi­spen­sa­bile per la sua soste­ni­bi­lità e per favo­rire lo svi­luppo di una «libertà dal bisogno».
Con la crisi, ci sono con­tra­zione del Pil, ridu­zione degli occu­pati — e con­se­guente cre­scita della disoc­cu­pa­zione -, pola­riz­za­zione del red­dito (una delle cause della dif­fu­sione della povertà): fat­tori che hanno eroso il senso comune di un acqui­sito benes­sere. È soprat­tutto nei Paesi indu­stria­liz­zati che que­sti feno­meni sono diven­tati mani­fe­sti.

Perdonate la povera Eva, anatemi pastorali

di Maria Teresa Busca
Perdono, perdono, perdono, cantava Caterina Caselli circa cinquantanni fa ottenendo un notevole successo. Bene, il tema è sempre attuale, il refrain di questa canzone potrebbe diventare l’inno del giubileo che si sta preparando. Infatti Bergoglio e il suo staff stanno lavorando soprattutto su questo tema. Ma Caterina aveva il grande merito di chiedere perdono per se stessa.
Invece nella lettera che Bergoglio scrive “al venerato fratello Rino Fisichella” riguardo l’indulgenza in occasione del Giubileo straordinario della misericordia c’è un pensiero per tutti i fedeli, ovviamente peccatori, loro, e le indicazioni necessarie per ottenere l’indulgenza giubilare.
Qui viene ricordato che Dio va incontro a tutti “con il volto del Padre che accoglie e perdona, dimenticando completamente il peccato commesso”. Queste bellissime parole dimenticano però che nella vita di tutti i giorni il perdono è opportuno che lo dia chi ha ricevuto l’offesa.

Storia di Johann Trollmann che sbeffeggiò gli ariani e pagò con la vita

di Gianni Mura
Johann Wilhelm Trollmann era chiamato Rukelie, alberello. Forse per via della chioma ricciuta, forse per il fisico asciutto. Bel ragazzo, c’erano molte donne tra il pubblico quando boxava con un’eleganza che precedeva di una trentina d’anni quella di Cassius Clay. Era un ballerino del ring, Trollmann: sfiancava l’avversario e poi lo colpiva, quasi irridente nella facilità di movimenti, così diverso dagli altri pugili tedeschi. Era nato a Wilsche, in Bassa Sassonia, il 27 dicembre 1907, da una famiglia di etnia Sinti. Otto fratelli. Si appassiona al pugilato sotto la guida di un allenatore ebreo. Può combattere sia da peso medio che da mediomassimo. Vince quattro campionati regionali. È selezionato per le Olimpiadi del ‘28 a Stoccolma, ma poi ci va un pugile di Amburgo che Trollmann aveva più volte battuto. Lui, a casa. Perché, spiegazione ufficiale, “il suo stile era poco tedesco”. Aveva 8 anni la prima volta che salì su un ring. A 22 passa tra i professionisti. Ha un manager abile, il berlinese Ernst Zirzow. Capisce di avere tra le mani un grande pugile, ma anche un divo.

Un’Europa senza strategia

di Roberto Panizza
In questi ultimi anni le condizioni dell’economia europea sono pesantemente degenerate: gli alleati continentali stanno attraversando una terribile crisi di natura strutturale che ha impedito la crescita di un tempo e ha bloccato i processi di industrializzazione e di sviluppo, a fronte però di un aumento insensato di operazioni di natura finanziaria. Questi interventi, infatti, non risolvono i problemi dell’economia reale, esplicandosi esclusivamente in stratagemmi che puntano su indici o andamenti, finendo per assicurare guadagni molto elevati ma per pochi privilegiati.
Purtroppo l’Europa ha smesso di pensare a porre condizioni concrete per una sua crescita, puntando, invece, su scelte finanziarie ad alte remunerazioni; tuttavia, tali utili non sono generati da interventi fondati su scelte razionali e non sono giustificati da una economia sana. Mentre si continua a scontrarsi per la salvaguardia della moneta unica, la cui sopravvivenza è legata ad austerità e rigidi vincoli di bilancio, si tralasciano interventi strutturali fondamentali.

Ventotene-Europa, una comunità di destino, nel segno di Spinelli

di Mario Leone 
“È stato tutto un monologo sulla libertà quello che ho iniziato dal momento in cui le porte del carcere si sono chiuse alle mie spalle, un monologo che si è venuto man mano allargando e approfondendo. ... La conclusione cui non posso sottrarmi è che se per nulla al mondo vorrei rinunziare alla mia libertà, se l’ho difesa in me stesso contro i muri di pietre e contro i muri di idee, che mi circondano, se per essa ho accettato di distruggere tanta parte di me, devo volerla anche per il mio prossimo” Altiero Spinelli(1)
Ha scritto Altiero Spinelli nella sua meravigliosa autobiografia pubblicata per le edizioni del Mulino nel 1984: “… la federazione non era presentata come un bell’ideale, cui rendere omaggio per occuparsi poi d’altro, ma come un obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire ora, nella nostra attuale generazione. Non si trattava di un invito a sognare, ma di un invito ad operare”(2). Questa azione è stata posta in essere sin dalla sua nascita dal Movimento federalista europeo, di cui abbiamo commemorato il 72° anniversario della fondazione un pò di giorni fa, il 28 agosto.

La nausea

di Seila Bernacchi
Sì, ha fatto il giro del mondo la foto del bambino siriano di due anni arrivato morto sulle rive di Bodrum in Turchia. E’ un bambino, è cadavere, non si era distratto mentre giocava a fare il ‘morto a galla’, è morto cercando con la famiglia di avere una vita in terra.
L’immagine è sconvolgente e crea sgomento, indignazione, chiama anche in causa l’etica giornalistica del come narrare e approfondire i viaggi dei migranti e le loro sorti.
Ma il crescendo non dà maggior rilevanza umana e morale a quello che da mesi sta succedendo.
Sarà la foto e la morte di questo bambino a fare la differenza? Ci voleva questo? Una ripresa fotografica dell’abominio? Ci vuole davvero di vederlo quel corpo piccolo e abbandonato che presto si irrigidirà nella contrattura della morte?

La sconfitta di Varoufakis

di Sarantis Thanopulos
Durante la sua breve guida del mini­stero greco dell’Economia, Yan­nis Varou­fa­kis ha subor­di­nato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva.
L’idea buona era che la vita austera, sobria e digni­tosa, nulla ha a che fare con le poli­ti­che di auste­rità. L’idea cat­tiva (che ha avuto fau­tori illu­stri a par­tire da Pla­tone) era che la ragione poli­tica coin­cide con il ragio­nare cor­ret­ta­mente («orthos logos»). Il pen­siero che valuta e cal­cola tutto in modo rigo­ro­sa­mente logico, dà risul­tati eccel­lenti nel campo delle scienze natu­rali, ma nel campo del governo della Polis, delle fac­cende umane che ne sono la mate­ria viva, deve fare i conti con la psi­co­lo­gia.
I fat­tori psi­co­lo­gici poli­ti­ca­mente più influenti sono le pas­sioni e la paura. Le pas­sioni sono le forze che tra­sfor­mano la vita in pro­fon­dità, la spinta pro­pul­siva di ogni cam­bia­mento reale. La paura è il sen­ti­mento domi­nante, quando le dif­fi­coltà che incon­tra un cam­bia­mento neces­sa­rio, sfo­ciano in una situa­zione di insta­bi­lità dura­tura, o troppo repen­tina, ren­dendo il futuro imprevedibile.

Una foto, quella foto

di Ida Dominijanni
L'immagine al posto della cosa. Il primo comandamento del regime della visibilità assoluta ha fatto davvero molti proseliti, se il dibattito sull'opportunità di pubblicare la foto del corpo senza vita del bimbo sulla riva di Bodrum ha rapidamente sopravanzato il dibattito sui fatti che quella foto restituisce. Ma lo scandalo non è la foto, è il cadavere; non è averla pubblicata, è disquisire dell'etica della comunicazione invece, o prima, che dell'etica della guerra e della spietatezza delle politiche sui migranti.
Leggo le motivazioni pro e contro la pubblicazione di quell'immagine scritte dai direttori di giornali italiani e stranieri, scorro su Facebook centinaia di post pro e contro scritti da chiunque. Ci sono da un lato molte buone intenzioni pedagogiche: quella foto squarcia un brandello di realtà, allerta il sonno della ragione, scuote le coscienze, può dare fastidio solo a chi non vuole vedere quello che accade.

Perché perdiamo?

di Michael Albert
Colonialismo finanziarizzato in Grecia. Imperialismo sofisticato in America Latina. Sorveglianza di tipo fascista negli Stati Uniti. Acque che si innalzano dappertutto. Perché il tanto discusso arco della storia non ha raggiunto una destinazione auspicabile?
I difensori del sistema hanno armi, denaro, avvocati, media e università, e usano spietatamente i loro immensi beni per dividere e distruggere incessantemente le persone che cercano un vero cambiamento. Cosa ancora peggiore, le pressioni della vita quotidiana, come prima cosa, precludono quasi il dissenso. Di solito la gente non ha tempo e si sente troppo isolata per ribellarsi.
Perché, tuttavia, non siamo capaci di organizzarlo per ottenere, comunque, un mondo migliore?Otteniamo un sacco di risultati, alcuni molto importanti, ma un decennio dopo l’altro non sembrano accumularsi per formare movimenti sempre più grandi, attivismo, impegno e poi un mondo cambiato. Perché?

Il male assoluto che non si può più nascondere



di Adriano Prosperi
Quel numero scritto dall’uomo in divisa sull’avambraccio di una bimba addormentata in braccio alla madre, in fila con tanti altri davanti alla stazioncina ceca ai confini dell’Austria, sembra avere almeno risvegliato nelle coscienze qualche ricordo sepolto. Ritorna la tragedia d’Europa: ma non in forma di farsa. Piuttosto di “orribile parodia”, come ha detto Piero Terracina, vivente testimone di quei numeri incisi a fuoco sulle braccia dei prigionieri dei lager nazisti. Qui, si tratta di una scritta a pennarello, lavabile senza danni: segno dell’appropriazione burocratica di una riduzione dell’essere umano alla sua identità animale, senza diritti né dignità. È un deciso passo avanti verso il ricorso banalizzato e normale ai metodi di quello che fu definito il male assoluto. 
Ma intanto accade inavvertito un fatto grande e importante della sensibilità collettiva: abbiamo fatto un gran pezzo di strada rispetto a quei ricordi e non nella direzione migliore. Ci siamo lasciati alle spalle quello che fu definito “il passato che non vuole passare”.

Chi ha ucciso il piccolo Aylan?

di Fabio Marcelli
Sono stati in molti, me compreso, a indignarsi e piangere alla vista della foto del piccolo kurdo siriano cadavere su di una spiaggia turca. Molta sincera commozione ma anche molte finte lacrime di coccodrillo.
Si chiamava Aylan Kurdi, aveva tre anni e proveniva da Kobane. La città martire assediata per lunghi mesi dai terroristi dell’Isis, con il noto beneplacito del governo turco che ancora oggi si ostina a non voler aprire un corridoio umanitario per consentire l’afflusso di aiuti umanitari d’urgenza alla città e alla regione. E’ morto insieme alla madre e ai due fratellini.
Chi l’ha ucciso? L’elenco è molto lungo.
In primo luogo i terroristi dell’Isis che, aggredendo il Nord siriano popolato dai kurdi, così come altri territori, ne hanno messo a repentaglio l’esistenza, costringendone molti alla fuga. Ovviamente l’Isis non nasce come un fungo all’improvviso ma è il frutto di scelte politiche precise, specie occidentali, a partire dall’aggressione all’Iraq di Bush nel 2003, che hanno creato in tutti i modi le condizioni propizie al suo nascere e svilupparsi.

Manifesto per una Confederazione degli Stati europei

di Enrico Grazzini
Occorre recuperare forme sostanziali di sovranità nazionale per restituire benessere e democrazia all'Europa nella prospettiva di costruire una Confederazione di Stati sovrani europei. Al contrario gli Stati Uniti d'Europa sono una chimera irrealizzabile; e anche un'ulteriore integrazione europea sotto l'egemonia tedesca è dannosa sia per l'economia che per la democrazia. 
Nella prospettiva di una Confederazione Europea di stati sovrani, l'emissione di monete fiscali nazionali complementari all'euro costituisce la soluzione meno traumatica e più praticabile per risolvere il dramma dell'euro: ovvero il dramma di una moneta unica che, in nome degli Stati Uniti d'Europa, con la sua rigidità deflattiva, ha in effetti reso l'Europa il malato del mondo. 
E' necessario avviare una fase radicalmente nuova per uscire dalla crisi e rilanciare la società e l'economia europea evitando di scatenare nuove crisi economiche e politiche. 

L'Europa in marcia

di Piero Rossini
Alla fine hanno deciso di muo­versi. Si sono alzati e hanno rac­colto le loro cose. Hanno preso i bam­bini, riav­volto i teli stesi a terra sui quali hanno dor­mito, pie­gato i vestiti den­tro zaini e valige che hanno cari­cato sulle spalle e si sono messi in mar­cia. Stufi di aspet­tare dopo giorni e notti tra­scorsi davanti alla sta­zione di Buda­pest nella spe­ranza che le auto­rità unghe­resi si deci­des­sero a sbloc­care la situa­zione per­met­ten­do­gli di rag­giun­gere la Ger­ma­nia in treno. Così non è stato. E allora hanno deciso che Ber­lino se la pren­de­ranno da soli, o almeno ci pro­ve­ranno. E se con i treni non è pos­si­bile ci arri­ve­ranno a piedi, per­ché nes­suno li ferma.
Sono par­titi ieri mat­tina. All’inizio sem­brava che fos­sero in pochi, qual­che cen­ti­naio di pro­fu­ghi, siriani soprat­tutto, ma anche afghani e pachi­stani. Poi però il gruppo è cre­sciuto sem­pre di più fino a diven­tare un ser­pen­tone com­po­sto da migliaia di per­sone che len­ta­mente hanno comin­ciato a lasciare la sta­zione di Buda­pest. I pro­fu­ghi van via e met­tono fine al brac­cio di ferro durato giorni con il governo Orbàn che non voleva lasciarli andare senza prima iden­ti­fi­carli.

Profughi: la crisi si risolve fermando le guerre

di Umberto Mazzantini
Mentre la Commissione europea sta lavorando a un nuovo piano – scritto sotto dettatura di Merkel e Hollande – per redistribuire 160.000 profughi arrivati in Italia, Grecia e Ungheria, mentre il governo neofascista ungherese stende inutili barriere di filo spinato e dirotta i treni dei migranti, mentre l’Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, esorta l’Ue a mettere in atto un “programma di ricollocazione di massa” per circa 200.000 rifugiati, vengono a mente le parole di Zygmunt Bauman: «Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire».
E’ quello che sembra pensare anche il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore delle forze armate Usa, che in un’intervista ad Abc News ha definito «un problema enorme» la migrazione verso l’Europa dalla Siria e dal Nord Africa, e ha detto che i militari Usa e la Nato sono sempre più consapevoli «che questa è una vera e propria crisi».

I sindaci di Podemos e della sinistra in pressing su Rajoy

di Jacopo Rosatelli
Un risul­tato lo hanno già otte­nuto. I sin­daci pro­gres­si­sti spa­gnoli, che si sono riu­niti ieri a Bar­cel­lona su invito di Ada Colau per il primo ver­tice delle «città per il bene comune», hanno «con­vinto» il pre­mier con­ser­va­tore Mariano Rajoy a cam­biare atteg­gia­mento di fronte alla crisi dei pro­fu­ghi. È soprat­tutto gra­zie alla loro pres­sione, infatti, che il governo ibe­rico ha final­mente accet­tato di fare la pro­pria parte nell’emergenza che sta scon­vol­gendo l’Europa, abban­do­nando il fronte dei Paesi della Ue che si oppon­gono alla sud­di­vi­sione per quote dei pro­fu­ghi. «La Spa­gna non negherà a nes­suno il diritto d’asilo», ha assi­cu­rato ieri Rajoy, che ha rice­vuto la visita del pre­mier bri­tan­nico David Cameron.
Nell’attesa che l’esecutivo con­cre­tizzi la pro­pria dispo­ni­bi­lità all’impegno in favore dei migranti, i muni­cipi gui­dati dalle nuove giunte di sini­stra plu­rale (con Pode­mos ma non solo) si stanno già dando molto da fare. Innan­zi­tutto creando una «rete delle città per l’accoglienza» allo scopo di scam­biarsi infor­ma­zioni e con­di­vi­dere «buone pra­ti­che».

Jeremy Corbyn: chi è l’uomo che sta conquistando il Labour Party?

di Christian Dalenz
Per la prima volta, si stanno tenendo nel Regno Unito le primarie per la scelta del leader di un partito, che diventerà successivamente il candidato premier del partito stesso: stiamo parlando del Labour Party, il Partito Laburista, che si è trovato nella condizione di dover eleggere una nuova guida a seguito delle dimissioni di Ed Miliband, che ha perso le recenti elezioni politiche contro il Partito Conservatore di David Cameron.
Lungo il mese di Agosto, tutti i sondaggi hanno dato in netto vantaggio un uomo che prima frequentava le retrovie del partito e si era presentato alle primarie praticamente come outsider: Jeremy Corbyn. Un politico che ha sempre avuto posizioni nettamente a sinistra, molto più a sinistra del suo partito, che con la stagione di Tony Blair ha visto uno spostamento verso politiche di centro e con Miliband non è riuscito a proporsi come davvero innovativo. Corbyn si è schierato spesso contro le decisioni del Labour Party stesso (ad esempio, i numeri dicono che durante il governo Blair ha votato ben 500 volte contro le leggi promosse dallo stesso).

Aylan e i suoi fratelli: la crisi siriana in cifre

di Donata Columbro
Ad oggi sono più di 4 milioni i rifugiati siriani registrati dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, più della metà sono minori. È la più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale: negli ultimi quattro anni le richieste asilo sono cresciute più del 500% e le vittime del conflitto sono almeno 220mila, secondo le Nazioni Unite. Tra queste, almeno diecimila sono bambini.

Palmira e le altre in ostaggio

di Valentina Porcheddu
Maa­moun Abdul­ka­rim è uno stu­dioso di archeo­lo­gia romana e pro­fes­sore all’Università di Dama­sco, dove – dal 2009 al 2012 – è stato a capo del Dipar­ti­mento di Anti­chità. Nel 2012, col pre­ci­pi­tare della crisi siriana, è stato nomi­nato diret­tore gene­rale delle Anti­chità e dei Musei, ruolo che rico­pre a tutt’oggi.
Nel 2014, per il suo impe­gno nella sal­va­guar­dia del patri­mo­nio siriano, l’Unesco gli ha con­fe­rito il pre­sti­gioso Cul­tu­ral Heri­tage Rescue Prize. «Appena assunto l’incarico, che svolgo senza retri­bu­zione alcuna, ho prov­ve­duto a chiu­dere i musei e a tra­sfe­rire le col­le­zioni in luo­ghi sicuri – ci dice al tele­fono da Dama­sco – . Que­sto piano ha per­messo di por­tare in salvo più di tre­cen­to­mila oggetti, che rap­pre­sen­tano un secolo di ricer­che effet­tuate da mis­sioni archeo­lo­gi­che siriane ma anche ita­liane, tede­sche, fran­cesi, inglesi e giap­po­nesi. Restare in Siria per difen­dere il patri­mo­nio è stata una sfida, che ho accet­tato per­ché sup­por­tato da molti amici e soprat­tutto da tanti fra i miei ex-studenti che sono dive­nuti ora col­le­ghi. Dirigo due­mi­la­cin­que­cento fun­zio­nari e il nostro obiet­tivo è non solo di sal­vare un patri­mo­nio ric­chis­simo ma anche di docu­men­tarlo.

Una Grecia oltre Atlantico

di Matteo Bortolon
Luglio 2015. Si avvi­ci­nano alcune le sca­denze per il paga­mento dei debiti dello Stato. Stan­dard & Poor’s ha appena abbas­sato il rating del paese, ed il default è quasi certo. Il diret­tore del bilan­cio non pare par­ti­co­lar­mente ras­si­cu­rante: «La prio­rità del governo è quella di for­nire ser­vizi pub­blici, e non di effet­tuare paga­menti per ripa­gare i cre­di­tori; cono­sciamo tutti la dif­fi­cile situa­zione in cui ci tro­viamo in ter­mini di flussi di denaro, e abbiamo deciso in che modo gestire que­sti flussi, con­si­de­rando che la nostra prio­rità è quella di for­nire ser­vizi ai cit­ta­dini: salute, sicu­rezza e istruzione».
Non siamo in Gre­cia – dove le cose sta­vano andando un po’ diver­sa­mente – ma al di là dell’Atlantico. A Porto Rico.
Pochi in Europa hanno fatto atten­zione alle vicende del pic­colo paese carai­bico. Non si tratta di uno Stato sovrano, ma di un ter­ri­to­rio asso­ciato diret­ta­mente agli Usa, con un pas­sato di colo­nia­li­smo che pesa ancora, in cam­mino per diven­tare uno stato della Fede­ra­zione. Ma non ancora giunto a tale passo.

Trattando come invasori i rifugiati bisognosi di aiuto rischiamo di perdere la nostra umanità

di Robert Fisk
La Grande muraglia cinese, le mura di Roma e di ogni città medievale, la linea Sigfrido, la linea Maginot, il Muro Atlantico; nazioni, imperi, dittature, democrazie, hanno usato ogni catena di montagne o fiume per non fare entrare gli eserciti stranieri. E adesso noi europei trattiamo le masse povere e accalcate, i perfetti innocenti di Siria e Iraq, di Afghanistan ed Etiopia, come se fossero invasori stranieri decisi a saccheggiare e a soggiogare la nostra sovranità, la nostra patria verde a gradevole.
Fili spinati lungo il confine ungherese. Fili spinati a Calais. Abbiamo perduto l’unica vittoria che gli europei hanno appreso dalla Seconda Guerra Mondiale – la compassione?
Dato che il nostro cliché è di dire al mondo che la “crisi” dei rifugiati è la più grande dalla fine della guerra, mi sono ricordato del modo in cui Winston Churchill reagì alle colonne di profughi tedeschi in fuga attraverso le nevi dell’Europa orientale nel 1945 prima dell’avanzata dell’Armata Rossa vendicatrice.

venerdì 4 settembre 2015

Una sinistra contro lo spettro della schiavitù

di Antonio Bevere
L’esplorazione su «C’è vita a sini­stra» non può essere da me svolta, dopo 45 anni di atti­vità giu­di­zia­ria, senza sof­fer­marmi sulla morte di due immi­grati e di una cit­ta­dina ita­liana, avve­nute que­sta estate nelle cam­pa­gne del Meri­dione, e spe­ci­fi­ca­mente sulla pre­senza, al di là di Paola Cle­mente, di altri cit­ta­dini ita­liani tra i lavo­ra­tori che pos­sono risul­tare vit­time del reato, pre­vi­sto dall’art. 600 c.p., di ridu­zione in servitù.
Seguendo le sen­tenza della Cas­sa­zione, que­sti nostri con­na­zio­nali, al pari di altri lavo­ra­tori stra­nieri, si tro­va­vano in uno stato di sog­ge­zione con­ti­nua­tiva ed erano costretti, come ser­vitù della gleba, a pre­sta­zioni lavo­ra­tive che ne com­por­ta­vano lo sfrut­ta­mento. Ciò con­ferma le mie pes­si­mi­sti­che pre­vi­sioni, espresse su il mani­fe­sto nel marzo scorso: l’attuale situa­zione eco­no­mica e l’ambizione padro­nale – sod­di­sfatta dal governo con le dispo­si­zioni del Jobs Act — di limi­tare la libertà della forza lavoro danno corpo al con­creto peri­colo che l’ipotesi della ridu­zione o man­te­ni­mento in ser­vitù, cioè dell’incontrollabile sfrut­ta­mento, non ha più i con­no­tati di ano­mala tra­sgres­sione mar­gi­nal­mente limi­tata a set­tori geo­gra­fici, etnici, ma è diven­tata una risorsa , pro­messa e con­cessa dalle forze di governo agli impren­di­tori come con­tro­par­tita della ces­sa­zione dello scio­pero degli inve­sti­menti e del rien­tro di quelli impie­gati negli stati a lavoro ser­vile garantito.

Per una nuova sinistra, fuori dalle «convergenze parallele»

di Vincenzo Vita
Il dibat­tito che ha rac­colto gli impor­tanti spunti di Norma Ran­geri (Un deca­logo per l’alternativa, il mani­fe­sto del 28 luglio) ha for­nito argo­menti e rifles­sioni utili. «Eppur non si muove», si potrebbe dire con disappunto.
L’evocato per­corso uni­ta­rio delle dif­fe­renti anime che si muo­vono in quell’istmo posto tra Pd e 5Stelle stenta.
E alle giu­ste invocazioni-evocazioni di prin­ci­pio — un passo indie­tro dei vec­chi gruppi diri­genti, il supe­ra­mento di ogni ten­ta­zione fede­ra­tiva alla moda antica, salto di qua­lità cul­tu­rale — non pare ancora seguire un per­corso determinato.
Inten­dia­moci. Gli appun­ta­menti autun­nali forse chia­ri­ranno. Spe­riamo bene. Tut­ta­via, è neces­sa­rio pro­cla­mare che «Il re è nudo»: con un simile approc­cio è dif­fi­cile che possa avve­nire l’auspicata «rot­tura epi­ste­mo­lo­gica», vale a dire il pas­sag­gio dalle spe­ranze mili­tanti alla ragion pura della Politica.

Quel treno dell’89

di Tommaso Di Francesco
Sta­zione di Keleti a Buda­pest. Un inferno in terra, dove al solo annun­cio di un treno in par­tenza i rifu­giati con le loro fami­glie assal­tano i vagoni; poi il treno non parte è comin­ciano i litigi, gli scon­tri fisici tra chi vuole por­tare il figlio pic­colo a respi­rare fuori e chi vuole comun­que il posto assi­cu­rato per la sal­vezza in Germania.
La poli­zia tran­quilla guarda e l’altoparlante spiega, ma in unghe­rese, che quel treno non par­tirà e comun­que non è diretto in Ger­ma­nia. Nel bel mezzo del caos disu­mano su cui ali­tano le fre­sche parole del pre­mier unghe­rese Orbán: «L’invasione dei rifu­giati mette in discus­sione le radici cri­stiane d’Europa», dall’altra parte dei binari è fermo un altro treno, arri­vato in mat­ti­nata, dai fine­strini oscu­rati, bello lucido, nero ama­ranto. Sulla testa del loco­mo­tore un grande logo: «Europa No Bor­der», la data è quella del 25esimo dell’89 (cele­brato in pompa magna nel 2014) e sulle cor­rozze è dise­gnato, in rosso e nero, un filo spi­nato spez­zato. I rifu­giati non capi­scono dell’89 ma pen­sano sia il treno che li por­terà in Germania.

I segni del genocidio

di Anna Maria Rivera
Lo sap­piamo: ricor­rere a parole come geno­ci­dio o Shoah per nomi­nare altre stragi di esseri umani rischia di aval­lare o ali­men­tare il revi­sio­ni­smo. Eppure le istan­ta­nee più recenti a prova del trat­ta­mento dei pro­fu­ghi e della loro eca­tombe ine­so­ra­bile con­ten­gono segni evo­canti la semio­tica del genocidio.
Con la pro­li­fe­ra­zione di muri e fili spi­nati; le masse di cada­veri di asfis­siati durante tra­sporti disu­mani; la mar­chia­tura di massa degli esuli, bam­bini com­presi, a ren­dere let­te­rale la loro stig­ma­tiz­za­zione; i campi per migranti irre­go­lari, con topo­gra­fia e rou­tine quo­ti­diana simili a quelle dei lager…
La più stra­ziante delle imma­gini, quella del cor­pi­cino esa­nime sulla spiag­gia, vestito di tutto punto come per un viag­gio di pia­cere, è non solo l’icona della vit­tima asso­luta, ma anche la rica­pi­to­la­zione potente di una strage spesso bana­liz­zata o ridotta a sin­gole cifre o epi­sodi, sia pur seriali.

Scuola, realtà e finzioni dell’autoritarismo di Renzi

di Roberto Ciccarelli
Il pro­blema non è solo il tra­sfe­ri­mento obbli­ga­to­rio (defi­nito con l’orribile e impro­prio con­cetto di «depor­ta­zione») o il lavo­rare lon­tano da casa e dagli affetti. Sui 7 mila prof costretti a emi­grare dal Sud (saranno molti di più a novem­bre, un numero ancora impre­ci­sato tra i 15 e i 30 mila) si sta spe­ri­men­tando una nuova idea di gestione del «capi­tale umano». Non è solo una que­stione di effi­cienza, ma di comando: La forza-lavoro dev’essere muta e disci­pli­nata. La scuola per Renzi è impor­tante. Lui dice: «io ti do un lavoro» — non è una con­ces­sione, i pre­cari della scuola ne hanno il diritto– « ma tu devi ade­guarti alle mie con­di­zioni». Tacere e obbe­dire, altri­menti nes­sun diritto. Chi rifiu­terà, entro il pros­simo 11 set­tem­bre, l’assunzione fuori regione «in fase B», anche a un migliaio di chi­lo­me­tri di distanza dalla resi­denza, sarà depen­nato dalle gra­dua­to­rie e non lavo­rerà più. Ha solo la pos­si­bi­lità di ricor­rere in tri­bu­nale. E poi c’è la san­zione sociale. Chi cri­tica, e pone ele­men­tari pro­blemi di razio­na­lità del sistema di assun­zione – esi­stono, e sono gigan­te­sche — è stig­ma­tiz­zato come un laz­za­rone, un «culo di pie­tra» e rien­tra nella rap­pre­sen­ta­zione raz­zi­sta del meri­dio­nale «chia­gni e fotti».

Il settembre nero della Lombardia

di Saverio Ferrari e Marinella Mandelli
L’hanno già ribat­tez­zato «il set­tem­bre nero» della Lom­bar­dia. Due gli appun­ta­menti, in con­tem­po­ra­nea, da venerdì 11 a dome­nica 13 set­tem­bre a Cantù e a Milano. Il primo è pro­mosso da Forza nuova, un mee­ting inter­na­zio­nale, il terzo dopo quelli del 2013 e 2014, che ave­vano visto la par­te­ci­pa­zione di espo­nenti di for­ma­zioni di estrema destra, neo­na­zi­ste e ultra­cat­to­li­che pro­ve­nienti da diversi paesi euro­pei, dal Bri­tish natio­nal party alla spa­gnola Demo­cra­cia Nacio­nal all’Hivm unghe­rese alla fran­cese Jeune nation.
Quest’anno è già stato pre­an­nun­ciato, tra gli ospiti, l’arrivo di una dele­ga­zione di Rina­scita nazio­nale polacca (Naro­dowe odro­d­ze­nie pol­ski), la più vec­chia tra le for­ma­zioni della destra radi­cale di que­sto Paese, legata al cir­cuito di Blood and Honour, il cui sim­bolo è stato ripreso da una for­ma­zione anti­se­mita degli anni Trenta, la Falange nazional-radicale. Lo slo­gan che ulti­ma­mente con­trad­di­stin­gue il Nop non lascia spa­zio ad equi­voci: «Fasci­smo? Noi siamo peggio!».