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di Piero Rossini
Alla fine hanno deciso di muoversi. Si sono alzati e hanno
raccolto le loro cose. Hanno preso i bambini, riavvolto i teli stesi
a terra sui quali hanno dormito, piegato i vestiti dentro zaini
e valige che hanno caricato sulle spalle e si sono messi in marcia.
Stufi di aspettare dopo giorni e notti trascorsi davanti alla
stazione di Budapest nella speranza che le autorità ungheresi si
decidessero a sbloccare la situazione permettendogli di
raggiungere la Germania in treno. Così non è stato. E allora hanno
deciso che Berlino se la prenderanno da soli, o almeno ci
proveranno. E se con i treni non è possibile ci arriveranno
a piedi, perché nessuno li ferma.
Sono partiti ieri mattina. All’inizio sembrava che fossero in
pochi, qualche centinaio di profughi, siriani soprattutto, ma
anche afghani e pachistani. Poi però il gruppo è cresciuto sempre di
più fino a diventare un serpentone composto da migliaia di persone
che lentamente hanno cominciato a lasciare la stazione di
Budapest. I profughi van via e mettono fine al braccio di ferro
durato giorni con il governo Orbàn che non voleva lasciarli andare senza
prima identificarli.
La partenza è stata incerta, ma dopo qualche
dubbio sulla direzione da prendere il lungo corteo ha attraversato
il ponte Elisabetta sul Danubio e si è diretto verso l’autostrada
che collega Budapest con Vienna. Prima tappa il confine austriaco,
distante 150 chilometri. Seconda la capitale austriaca lontana 240.
Ad aprire la marcia c’è un uomo che sventola una bandiera
dell’Unione europea, seguito da una moltitudine di disperati con in
testa una sola idea: raggiungere a tutti i costi quella Germania
promessa loro da Angela Merkel. Lei è la star indiscussa della
marcia. La faccia della cancelliera spunta da fotografie che
uomini e donne alzano al cielo tra gli applausi e in cui
è rappresentata mentre stringe le mani in segno di vittoria,
oppure con il piglio deciso e alle spalle la bandiera tedesca. «Orbàn
è la vergogna dell’Europa», grida invece il cartello scritto a penna
esibito da un uomo. La nuova Germania, quella non più arcigna e
«affamatrice» delle economie più deboli, bensì quella aperta
e ospitale è il sogno inseguito da tutti. Famiglie con il bambino in
carrozzina, uomini carichi di bagagli fin sopra la testa, donne con
il velo che camminano accanto a ragazze vestite all’occidentale. Ci
sono perfino un signore in sedia a rotelle e un altro che avanza con le
stampelle. E tanti, tantissimi bambini.
Tra giovedì e venerdì notte sono stati 3.313 i profughi entrati in
Ungheria, mille in più rispetto alle 24 ore precedenti. Cifre che
hanno fatto alzare ulteriormente la tensione con le autorità
ungheresi che non ci stanno a fare la parte dei cattivi dell’Europa
e che bollano come «inaccettabili» le critiche di Bruxelles.
«Noi applichiamo le regole», ha detto ieri il ministro degli Esteri
Peter Szijjarto mentre da Praga, dove si trovava per il vertice
Visegrad, Orbàn è tornato ad attaccare i leader europei:
«L’atteggiamento dell’Ungheria è chiaro e forte — ha detto -: i migranti
sono vittime, gente imbrogliata anche dai politici europei, perché
sono stati loro a dare la speranza che esiste la possibilità di
venire in Europa».
Discussioni che sicuramente non interessano ai migranti in
marcia. Al gruppo di Budapest si sono aggiunti anche alcuni profughi
fuggiti ieri dal centro di Roszke, al confine con la Serbia, dove
erano trattenuti. Sono scappati in 300, molti sono stati ripresi poco
dopo dalla polizia e uno di loro, un pachistano, è morto dopo essere
caduto sui binari. Ma qualcuno ce l’ha fatta e si è unito alla
lunga marca.
A spingere i profughi a partire è stata probabilmente proprio
l’incertezza su quale sarebbe stato il loro futuro. La strada da
percorrere a piedi non è certo un problema per questa gente. Sono
partiti dalla Siria, hanno attraversato la Turchia e risalito la
Grecia. Al confine con la Macedonia hanno sopportato le cariche
della polizia di Skopje e hanno vinto loro, sono arrivati in Serbia
e poi in Ungheria. Il muro di Orbàn non li ha fermati e neanche
i suoi poliziotti. Figuriamoci se adesso si spaventano per i 240
chilometri che li separano da Vienna. Sono partiti, anche se non
è chiaro cosa succederà tra qualche giorno, una volta arrivati al
confine con l’Austria. Si vedrà. Intanto conoscono una nuova
Ungheria, per certi versi inedita dopo l’indifferenza dei giorni
scorsi. Lungo il percorso, mentre i profughi riempivano
i marciapiedi e la carreggiata delle strade arginati in qualche
modo da agenti impegnati a deviare il traffico, molti
automobilisti hanno fermato la macchina e hanno offerto acqua
e cibo ai migranti, oppure si sono messi a disposizione per un
passaggio. Una generosità contagiosa, tanto che in poche sui
social network più di 2.400 persone si sono messe a disposizione per
organizzare nel fine settimana un convoglio che riesca
a trasportare tutti fino a Vienna.
Per il governo ungherese quella dei migranti è una vera emergenza.
«Se questi flussi continuano a verificarsi sarà la fine
dell’Europa», ha detto Orbán a Bruxelles. Ieri, nel programma «180
minuti» di Radio Kossuth, il premier ha affermato che se i paesi
europei non saranno in grado di difendere i loro confini decine
e decine di milioni di migranti arriveranno nel nostro continente.
Posizioni estreme, ribadite in diversi contesti pubblici dal capo
del governo quando ha affermato di non vedere favorevolmente il
fatto che genti di altra cultura si mescolino alla popolazione
ungherese. «Non è un bene», aveva detto esprimendo timore per le
radici cristiane europee che lui si sente in dovere di proteggere.
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