La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 settembre 2015

Insegnare a vivere

di Antonio Vigilante
Che la formula del titolo, che viene dall’Emilio di Rousseau («Vivere è il mestiere che voglio insegnargli»), sia eccessiva, Morin lo ammette fin dalla prima pagina: «A vivere si impara attraverso le proprie esperienze con l’aiuto dapprima dei genitori, poi degli educatori, ma anche attraverso i libri, la poesia, gli incontri» (p. 11). E tuttavia non rinuncia a costruire il suo discorso intorno a questo assioma: che la scuola debba insegnare non solo le discipline, ma anche a vivere, ossia a vivere bene. Ma cosa significa vivere bene? Il novantenne Morin non trema di fronte alla domanda. Vivere bene, dice, significa «essere bene», ma non nel senso del benessere volgare, materialistico, consumistico. Essere bene vuol dire essere, appunto, e non avere. Vuol dire intrecciare prosa e poesia, gli inevitabili aspetti materiali della vita con il piacere, l’arte, l’amore. E non è detto, aggiunge, che «vivere in modo sano» sia il modo giusto di vivere, poiché la vita «comporta un minimo di dispendio, di gratuità, di sragione» (p. 24).
Ha ragione Morin? Qualcuno dirà di sì. Qualcuno dirà di no. Qualcuno sarà offeso dall’accostamento che Morin fa (ivi) del buddhismo e dello zen alla New Age. Qualche altro rivendicherà le ragioni del vivere in modo sano. Qualcuno, ancora, troverà moralistica la critica del benessere materialistico. E così via.
Il punto è che la risposta alla domanda sulla buona vita non può essere data al di fuori della relazione educativa stessa, pena il degenerare della stessa in uno sterile autoritarismo. Educare è sempre educarsi insieme, ed educarsi insieme è cercare insieme il senso della vita e riempire di contenuto il concetto di buona vita.
Un educatore non ha da fare alcuna lezione sul senso della vita: può proporre, invece, la sua via personale, la saggezza o il frammento di saggezza cui è giunto. Una pedagogia che corrisponda a questo aiuto è una pedagogia del dialogo. Il cosiddetto educatore ed il cosiddetto educando (due termini che vanno rivisti profondamente) dialogano insieme sul giusto modo di vivere: cercano insieme le vie della vita. E il luogo ed il tempo dell’educazione diventano, nella misura in cui questo dialogo si attua, un buon luogo e un buon tempo.
Lo stesso Morin è consapevole della necessità di ripensare dialogicamente la relazione educativa. L’insegnante, sostiene, deve diventare qualcosa di simile ad un direttore d’orchestra. «L’insegnante non distribuisce più come priorità il sapere agli allievi. Una volta fissato il tema di un compito o di un’interrogazione orale, sta all’allievo trarre da Internet, dai libri, dalle riviste e da tutti i documenti utili la materia del compito o dell’interrogazione e presentare il suo sapere all’insegnante. E quindi sta a quest’ultimo, vero direttore d’orchestra, correggere, commentare, apprezzare l’apporto dell’allievo, per arrivare, nel dialogo, a una vera sintesi riflessiva del tema trattato» (p. 104). Una idea nella quale è apprezzabile il superamento del docente che trasmette e fa lezione, che è una delle piaghe principali della scuola italiana e non solo. Naturalmente è insufficiente che lo studente si limiti a raccogliere materiale, per lo più da Internet, consegnandolo poi al docente, che distingue, in virtù del suo sapere, il vero dal falso, il giusto dall’errato. Il momento decisivo diventa invece proprio quello della sintesi riflessiva, che non può essere fatta solo dal docente. In una scuola non trasmissiva, ci sono due momenti: la raccolta delle informazioni (che tradizionalmente si trovano nel manuale, e che invece è bene cercare in più fonti, da confrontare tra loro) e la riflessione sulle informazioni raccolte. Questo secondo momento, che è quello fondamentale, deve coinvolgere in modo paritario il docente e gli studenti, come una comunità che riflette, analizza e critica grazie al contributo di tutti. Ricordandosi dell’esperienza di Freinet – uno di quei maestri dell’attivismo che ancora tanto hanno da dire – si può pensare ad un terzo momento, quello della condivisione dei risultati della ricerca. Gli studenti di Freinet stampavano nella tipografia scolastica i risultati della loro ricerca, che poi convididevano con altre scuole. Oggi il lavoro di condivisione è reso più facile dalla rete: basta creare un sito Internet per condividere con altre scuole o con chiunque abbia interesse i risultati del lavoro scolastico di ricerca.
Per Morin, teorico della complessità, è necessaria una riforma del pensiero che conduca al superamento dei saperi settoriali. Poiché la realtà è fatta di fenomeni interconnessi, non è possibile coglierla se non attraverso un sapere che sia a sua volta fatto di connessione, che abbia una natura transdisciplinare, che veda il tutto oltre le singole parti. Ma una simile attitudine di pensiero è impossibile se la scuola abitua fin da bambini a ragionare, pensare e conoscere per compartimenti stagni. Occorre una riforma dell’insegnamento che vada di pari passo con al riforma del pensiero. A partire dalla scuola primaria, scrive Morin, bisogna proporre un «programma interrogativo»: «Interrogare l’uomo, scoprire la sua triplice natura, biologica, psicologica (individuale), sociale» (p. 81). Anche qui, il pensiero va all’attivismo, ed in particolare a Decroly ed alla sua pedagogia fondata sui centri d’interesse legati ai bisogni fondamentali dell’essere umano. Così come, quando si legge in Morin che il compito della scuola secondaria dovrà essere, tra l’altro, quello di superare il divario tra cultura umanistica e la cultura scientifica, non si può non pensare a Dewey, il padre dell’attivismo, per il quale la divisione tra cultura umanistica e scientifica non ha ragione d’essere, poiché, come scriveva in Democrazia e educazione, «La conoscenza è umanistica nella qualità, non perché riguarda i prodotti umani del passato, ma in virtù di quel che fa per liberare l’intelligenza e la mutua comprensione umana».
Ho cercato di mostrare i diversi punti di contatto con le idee e proposte di Morin con l’attivismo. Come è noto, il tramonto dell’attivismo è legato al prevalere di preoccupazioni legate alla competitività nazionale, più che a motivazioni strettamente educative. Tutta la pedagogia contemporanea è attraversata dalla tensione tra la tendenza a sottomettere i sistemi e le pratiche educative alle necessità del sistema economico ed una educazione intesa come formazione integrale di una persona in grado anche di criticare il sistema economico. Morin nota il prevalere della prima tendenza, la riduzione dell’educazione a formazione socio-professionale (p. 19), cui intende reagire con la sua proposta di una formazione alle competenze esistenziali. «La vulgata tecno-economica dominante fra i poitici e fra gli imprenditori tende a imporre i suoi criteri di efficienza, di redditività, di competitività al sistema insegnante delle secondarie e dell’università» (p. 65). Che fare? Per Morin si può resistere a questa deriva soprattutto attraverso la relazione personale con l’alunno, cercando la via per una comprensione reciproca tra docenti e studenti che superi la «lotta di classe» tra gli uni e gli altri. Una riforma del pensiero e dell’insegnamento condurrà anche, per Morin, ad una conseguenza etica. Considerare la complessità del reale vuol dire anche tener conto della complessità dello stesso essere umano. Da qui un’etica della comprensione che evita di chiudere un individuo, o un popolo, in uno dei suoi errori. È uno dei temi centrali del pensiero di Capitini, che fa piacere ritrovare in Morin. Una tale etica della comprensione per Morin renderà più facili anche i rapporti tra docenti ed alunni, che sono inevitabilmente conflittuali. «La comprensione, la benevolenza, il riconoscimento permetteranno non solo un “miglior vivere” nella relazione insegnante-insegnato, in ogni relazione d’autorità, in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare ad un altro essere umano; l’umiliazione» (p. 106). Parole apparentemente piene di buon senso. Ma è possibile una reale comprensione in una relazione insegnante-insegnato? Il neologismo di Morin non è migliore dei termini che intende sostituire, come educando. Pensare la relazione educativa in termini di educatore/educando, insegnante/insegnato vuol dire vedere il movimento da una sola parte: l’educazione è una cosa che un soggetto fa ad un altro, e non, come dev’essere, una impresa comune. Al di là di ogni buona intenzione, il portato di questa asimmetria è inevitabilmente l’umiliazione e la passivizzazione dell’alunno/educando/insegnato.
Una autentica riforma dell’educazione, prima ancora che dal ripensamento dei contenuti e delle modalità didattiche, dovrà partire da un ripensamento profondo della relazione tra docente e studente, che comprenda anche una revisione terminologica. La scuola è fatta di comunicazione, e la comunicazione è autentica quando i rapporti sono simmetrici, reciproci, non autoritari. Solo una scuola intesa come comunità di apprendimento può realizzare quel benessere comunicativo che fa sì che la scuola sia, qui ed ora, per dirla con Dewey, vita, e non preparazione alla vita.

Fonte: Educazione democratica

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