La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 settembre 2015

Pensioni: la staffetta generazionale. Ma per chi? E per cosa?


di Marta Fana
Le pensioni. Si fa un gran parlare di come modificare la legge Fornero usando la flessibilità in uscita. Ora chi scrive è troppo lontana dall’età pensionabile e vorrebbe guardare ad alcune argomentazioni sulla cosiddetta staffetta generazionale. Secondo alcuni, in modo trasversale dalla CGIL a Poletti mercoledì scorso sul Corriere, è bene fare andare prima in pensione così da aprire le porte del mercato del lavoro ai giovani, grandi protagonisti del mondo dei disoccupati. Per altri questo trade-off non esiste.
Premettendo che sono contraria al pensionamento a 67 anni o comunque oltre i 60 per tutti coloro che hanno svolto lavori usuranti, tra cui includo coloro che lavorano all’aperto nei giardini a potare alberi, sui tetti a misurare fumi inquinanti, gli operai in fabbrica, i muratori, i braccianti (ma tanto quelli ad oggi muoiono ben prima, quindi per la pensione problema risolto, vero?), tutti quelli che per un motivo o l’altro non sono in grado di portare avanti la propria mansione senza incorrere in problemi fisici, tipo gli autotrasporatori o gli autisti dell’Atac. Per capirci sono molti.
Ad ogni modo, se pure fosse vero che andando in pensione prima darebbe più opportunità ai giovani, io mi chiedo seriamente qual sia il connubio tra sviluppo e progresso che abbiamo in mente per il futuro. Se gli impianti, i macchinari, la tecnologia adottata dalle imprese rimangono uguali, significa che un giovane laureato o diplomato sostituirà un anziano in un lavoro che non ha, oggi rispetto a ieri, maggiore valore aggiunto, cioè non è più produttivo.
Lo stesso vale quando lasciamo circolare statistiche che ci informano che più laureati rispetto ai diplomati trovano lavoro. Ogni volta dobbiamo chiederci:quale lavoro? Perché se un laureato, con tutto il rispetto per chi, per un motivo o l’altro, ha abbandonato gli studi, è chiamato a sostituire chi non ha fatto studi “avanzati”, allora esistono una serie di problemi.
Se un laureato ha più competenze, e si suppone sia così in media, allora impiegarlo in un lavoro per nulla specializzato non fa altro che creare un danno alla collettività, che dal valore aggiunto dei molti laureati potrebbe generare ricchezza. Prosperità materiale - non solo tecnica e produttiva - da redistribuire e reinvestire a favore dei molti, anche di quelli che per un motivo o un altro non hanno potuto o voluto studiare, piuttosto che legittimare solo una parte della questione quella relativa agli scarti retributivi o contrattuali tra soggetti con competenze diverse, definendoli quasi dei diritti acquisiti, alimentando solo disuguaglianze.
Questo per dire che la staffetta che dovremmo costruire è quella di un sistema economico innovativo, che ogni cinque anni al massimo è in grado di avanzare in termini di processi e prodotti, invece di far sì che il padre “lasci il posto al figlio”, lo stesso posto insalubre o con i pc ormai obsoleti. Se questo è il futuro che abbiamo davanti, infatti non ci sarà nessun progresso, cioè nessun miglioramento nelle condizioni di lavoro e quindi anche di vita dei lavoratori delle generazioni future. Non ci sarà mai spazio per avanzare in quella idea, che è stata e che purtroppo non è più, secondo cui l’orario lavorativo andrebbe ridotto per tutti, almeno a parità di salario.
Ma per far sì che ciò avvenga è necessario costruire le condizioni adatte, che non ci saranno regalate certo da una classe dirigente, politica e imprenditoriale (anche sindacale in certi casi, sì lo dobbiamo dire), senza visione e conservatrice dei rapporti di forza esistenti, del loro squilibrio, ma anche di se stessa e dei propri apparati.

Fonte: MicroMega online - blog dell'autrice

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