La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 settembre 2015

Il soft power brasiliano in Africa

di Riccardo Vecellio Segato
«Il Brasile non è un Paese serio», recita un vecchio adagio attribuito (probabilmente errando) a Charles De Gaulle. Forse, ma di certo ha intenzione di fare sul serio, almeno nei riguardi del continente africano. Con gli Stati Uniti ancora alla regia della governance mondialema in lento declino almeno in alcune aree del mondo (Mediterraneo in primo luogo), una Cina ancora in espansione ma alle prese con difficoltà finanziarie, speculazioni edilizie, deficit nella tutela dei diritti umani fondamentali e via discorrendo, una Russia in difficoltà nel dialogo con l’Occidente, un’India ancora troppo povera per porsi credibilmente come interlocutore di peso, un’UE dal cammino incerto e perennemente titubante fra un ingessato intergovernativismo e l’antica strada del federalismo, il Brasile può aspirare a divenire una potenza mondiale. E sull’altra sponda dell’Atlantico, proprio di fronte al Brasile, c’è un continente nero in risveglio, in costante ascesa, con rialzi dell’Indice di Sviluppo Umano (ISU), performance commerciali di notevoli dimensioni e alcuni tassi di crescita del PIL nel 2013 tra i maggiori al mondo: Nigeria (6%, nonostante l’instabilità generata dal terrorismo fondamentalista), Kenya (5%), Mozambico (7%), Tanzania (7%), Zambia (6%), Senegal (4%), Sierra Leone (13%, grazie alla stabilizzazione post guerra civile), Costa d’Avorio (8%), Burundi (5%) [fonte: CIA World Factbook].
IL BRASILE SOSPESO TRA CORAGGIO E INCERTEZZA – Con la presidenza di Dilma Rousseff si è assistito a un decremento nella crescita del PIL brasiliano, e non solo per la grande recessione esplosa nel 2008: si continua a crescere, ma a rallentatore (con una media del 3,7% nel primo decennio del XXI secolo, scesa al 2,7% del 2011 e allo 0,1% del 2014); stime della Confindustria brasiliana parlano addirittura di una possibile recessione per l’anno in corso. Altresì in ripresa la disoccupazione, giunta al 7% nel luglio 2015.
In un’economia ancora fortemente dipendente dall’export di materie prime (commodities alimentari e minerarie in primis), tutto questo dev’essere interpretato alla luce d’un connubio di cause endogene ed esogene. Tra le prime si individuano: spesa pubblica incontrollata, con misure di stimolo al consumo e ridistribuzione della ricchezza tramite il calmieramento dei prezzi; clientelismo con ritorno in termini di consenso elettorale; ingerenza statale nei processi industriali con finanziamenti a tasso estremamente agevolato al fine di contrastare l’inflazione e la corrispondente corrosione del potere d’acquisto delle famiglie; impennata del debito pubblico. Tra le seconde si annoverano: crollo delle quotazioni della soia e del greggio; crescita sopra le aspettative di competitor regionali quali il Messico; bassi tassi d’investimento domestico ed estero.
E poiché la forte flessione del tasso di cambio euro/real ed euro/dollaro non ha aiutato granché le esportazioni, la complessità della crisi ha elementi originali e allarmanti. Le riforme macroeconomiche del nuovo Governo non hanno finora prodotto i risultati sperati, e vi è profonda incertezza tra investitori ed economisti in merito a una rapida ripresa dei tassi di crescita precedenti. Ciò non toglie, d’altro canto, che in un contesto di stagnazione e disorientamento delle maggiori potenze globali al Brasile non sarà presto negato un posto alla mensa dei grandi. Probabilmente l’amministrazione Lula non ha saputo cogliere tutte le potenzialità insite nel boom del 2000-2010, attuando un parziale e disattento lasseiz-faire che poco o nulla ha attenuato delle fragilità strutturali brasiliane, lasciando Brasilia senza più strategie propulsive nel breve termine. Solo nuove partnership lungimiranti, una più incisiva qualificazione della manodopera, il completamento di infrastrutture che attendono da decenni di essere terminate e la realizzazione di una concorrenza tra imprese più trasparente, permetteranno di vincere le scommesse dei prossimi tempi.
BRASILE IN AFRICA, AFRICA IN BRASILE – Con 37 ambasciate – senza contare consolati e altre istituzioni di rappresentanza diplomatica – il Brasile è il Paese più presente nel territorio africano, superando di gran lunga il network di qualsiasi Stato europeo. Dalla parte opposta, con 34 bandiere, Brasilia è seconda solo a Washington D.C. per numero di uffici di rappresentanza africani. E poiché l’arma sottile della seduzione culturale convince soprattutto quando punta a riscoprire radici comuni, facile spiegarsi la forza di quest’intesa: durante la tratta degli schiavi tra il XVI e il XIX secolo, la forza lavoro africana è stata esportata in Brasile molto più massicciamente che altrove, perfino rispetto agli USA; in quel gioco di barbaro sfruttamento risiede l’origine d’un senso d’appartenenza non ancora sfumato ma anzi, sempre più rilevante. A direttrici verticali che hanno sempre privilegiato relazioni brasiliano-statunitensi e afro-europee, si stanno sempre più intersecando corridoi orizzontali tra Paesi in via di sviluppo (PVS).
Nel secondo dopoguerra, è con il Ghana – testimone di una schiavizzazione imponente da parte del colonizzatore inglese – che il Brasile inizia a tessere proficue relazioni: il primo ambasciatore brasiliano viene inviato in missione ad Accra, e da quest’ultima parte alla volta del Brasile il primo emissario africano in America latina. Se è vero che solamente nel 1983, con João Baptista de Oliveira Figueiredo, è avvenuta la prima visita di un capo di Stato brasiliano in Africa, è altrettanto essenziale notare come con il primo mandato della presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva il baricentro delle relazioni internazionali sudamericane si sia fortemente concentrato sull’Africa, con ben 67 viaggi del Ministro degli Esteri Celso Amorim. Poiché il Brasile è già ricchissimo di materie prime, non sono le risorse naturali a costituire il focus di questi bilateralismi: Lula ha intravisto nell’Africa una destinataria famelica per le propriepolicies di diversificazione delle esportazioni e internazionalizzazione delle imprese. E sebbene non sempre gli interessi geostrategici di Brasile e Africa possano coincidere, il primo ha trovato nella seconda un’alleata preziosa per contare di più in sede ONU: i voti africani sono stati determinanti, nel 2012, per affidare al brasiliano José Graziano da Silva la direzione generale della FAO, e un imponente sforzo congiunto potrà presto essere posto in campo per provare a scardinare gli anacronistici sistemi di pesi e contrappesi che rendono le Nazioni Unite un’organizzazione farraginosa. Si parla da fin troppo tempo di riassetto del Consiglio di Sicurezza ONU, e chissà che l’Unione Africana non risulti determinante nel portare a compimento le aspirazioni politiche del cosiddetto “G4” (che raggruppa India, Germania, Giappone e Brasile), contrapposte a quelle dell’alleanza Uniting for Consensus (che registra in prima linea la diplomazia italiana). Anche agli organi di Bretton Woods sono nel mirino di Brasilia, interessata ad avere più voce in capitolo sia presso la Banca Mondiale che al Fondo Monetario Internazionale. Oggi il Brasile continua a investire ad esempio in Angola (che nel 1975 si è vista riconoscere da Brasilia la propria indipendenza dal Portogallo, strappo inedito e irreversibile nei rapporti tra Lisbona e l’ex colonia sudamericana) e a finanziare progetti educativi soprattutto in distretti di lingua portoghese, ma la ridefinizione dei rapporti riguarda l’intero continente: il Brasile ha scelto – analogamente alla Cina – di ridisegnare la cooperazione allo sviluppo dell’Africa trasformandola in una condivisione “alla pari” di prospettive e responsabilità; anzi, scevro da irruzioni quali il land grabbing, è presente in Africa in maniera più etica e sostenibile. Molte nazioni africane, da parte loro, si sono viste ristrutturare o addirittura cancellare i famigerati “debiti del Terzo Mondo” grazie all’impegno brasiliano. Nonostante il richiamo dei media al disboscamento dell’Amazzonia, nell’immaginario collettivo la crescita brasiliana è più attenta all’ambiente rispetto a quella di altre potenze come la Cina, e anche i diritti umani si ritengono generalmente maggiormente osservati. Non essendo ancora sconfitta però né la diseguaglianza né la questione dell’ancora troppo esclusivo ascensore sociale, così come la piaga della povertà di classe, l’impegno brasiliano risulta agli africani più credibile e consapevole rispetto a quello delle agiate nazioni del Nord America o del Vecchio Continente. Tutto questo rende la presenza brasiliana più gradita alle popolazioni autoctone rispetto alla pervasività di quella cinese – quantitativamente più massiccia -, anche grazie all’attenzione rivolta all’empowerment del capitale umano presente sul posto. Infine, nemmeno la letteratura disdegna di essere depositaria del soft power: la poetessa brasiliana Márcia Theóphilo, candidata al Nobèl per la Letteratura da Mario Luzi, ha suggeritonessi antropologici e artistici tra le due regioni del mondo in occasione dell’intervista rilasciata alla scrittrice sudafricana Valentina Acava Mmaka.
Nell’ultimo secolo il Brasile ha intrapreso un incredibile cammino di emancipazione socioeconomica, che gli ha permesso di trasfigurare il proprio ruolo di potenza regionale e successivamente continentale candidandolo a possibile protagonista mondiale. Se un giorno, nello scacchiere multipolare, il Brasile avrà un peso comparabile a quello di UE e Cina, parte del merito andrà accreditato alla capacità di traino esercitata dalle piccole economie emergenti dell’Africa subsahariana.

Fonte: Il Caffè geopoitico

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