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di Tommaso Di Francesco
Scriveranno di «lunga marcia», di «cammino della speranza» e di
«fuga per la libertà», ma nessuna mitologia può descrivere quello
che accade. A piedi, da soli, sulle proprie gambe s’incamminano in
migliaia i rifugiati; gli stessi che già hanno attraversato
i confini riscrivendo la triste geografia del Vecchio Continente
passando il muro di razza ungherese, quello della nostra coscienza
sporca.
Mentre un vertice Ue richiama l’altro e nulla accade, a piedi si
incamminano per sfuggire a internamenti e fili spinati, a nuovi
universi concentrazionari. Via dall’Ungheria che li ha umiliati,
beffati e deportati, mentre Orbán dichiara lo stato d’emergenza.
E mentre il cuore d’Europa, da Praga, rifiuta ogni accoglienza. Da un
summit all’altro l’Europa, appesa ad una moneta, conferma il suo vuoto
politico e sociale. Resta solo il paradigma siriano di Angela
Merkel. Ma che ne sarà degli «altri» disperati?
Ma non doveva, la foto del piccolo Aylan Kurdi e la sua morte,
cambiare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: accoglieteci o i
colpevoli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano
che ha gridato: «Fermate la guerra e torniamo in Siria».
Inequivocabili. E invece l’«innocente» Pentagono avverte che la
foto di Aylan dovrebbe persuadere (come per Sarajevo?) a farne
un’altra: dove già si combatte, come in Libia o in Siria.
Lì dove
Pentagono ed Europa hanno istruito quattro ani fa la guerra che ha
innescato la spirale stragi, jihadismo, profughi. Il nuovo
sentiero dei disperati: dice che la misura delle guerre sulla pelle
altrui è colma.
Fonte: il manifesto
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