La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 5 settembre 2015

La matassa da districare delle pensioni. Un libro ci prova...

di Roberto Romano
Quando la poli­tica e la società sono inve­stite da una crisi eco­no­mica, lunga e pro­fonda come quella ini­ziata nel 2007, i temi fon­da­men­tali del legame sociale con­tem­po­ra­neo sono messi in discus­sione. Il caso più evi­dente è quello dello stato sociale. Costruito dall’Inghilterra tra il 1942–45 in piena seconda guerra mon­diale sulla base del Piano di pro­te­zione sociale ela­bo­rato da Wil­liam Beve­ridge, è stato pro­get­tato a par­tire da un sistema pre­vi­den­ziale uni­fi­cato e obbli­ga­to­rio per tutti i cit­ta­dini, capace di coprire i periodi d’interruzione o per­dita della capa­cità di gua­da­gno; un sistema coe­rente e arti­co­lato di ser­vizi sani­tari, gra­tuito e aperto a tutti, pen­sati anche per pre­ve­nire le malat­tie. Al cen­tro del pro­getto, c’era la piena occu­pa­zione, un requi­sito indi­spen­sa­bile per la sua soste­ni­bi­lità e per favo­rire lo svi­luppo di una «libertà dal bisogno».
Con la crisi, ci sono con­tra­zione del Pil, ridu­zione degli occu­pati — e con­se­guente cre­scita della disoc­cu­pa­zione -, pola­riz­za­zione del red­dito (una delle cause della dif­fu­sione della povertà): fat­tori che hanno eroso il senso comune di un acqui­sito benes­sere. È soprat­tutto nei Paesi indu­stria­liz­zati che que­sti feno­meni sono diven­tati mani­fe­sti.
Ma è ben prima della crisi che la poli­tica euro­pea e ita­liana in par­ti­co­lare hanno pia­ni­fi­cato poli­ti­che sociali e eco­no­mi­che in base a una logica oppo­sta a quella emersa dopo la seconda guerra mon­diale, nono­stante le ricette neo­clas­si­che non abbiano for­nito prova di grande lun­gi­mi­ranza. Inol­tre, la crisi ha ali­men­tato la con­vin­zione di avere fin qui vis­suto sopra le pro­prie capa­cità e/o risorse. Le prime forme di pro­te­zione sociale col­pite sono state pro­prio quelle che segna­lano la pre­senza di una società giu­sta o ingiu­sta: la pre­vi­denza e la sanità.
Gian Paolo Patta, già segre­ta­rio nazio­nale della Cgil, sot­to­se­gre­ta­rio alla sanità con il secondo governo Prodi, padre del testo unico su salute e sicu­rezza nei luo­ghi di lavoro e rap­pre­sen­tante della Cgil nel Con­si­glio di Indi­rizzo e Vigi­lanza dell’Inps, indaga, nel volume Primo rifor­mare le pen­sioni (Ediesse pp. 128, euro 13), il sistema pre­vi­den­ziale, sot­to­li­neando come gli inter­venti adot­tati dal governo Monti e dall’allora Mini­stra For­nero hanno tra­sfor­mato la pre­vi­denza nel ban­co­mat di quasi tutti i governi venuti dopo. Oltre a que­sto, sono inter­venti clas­si­sti che non risol­vono nes­suno dei pro­blemi strut­tu­rali che pre­ten­de­vano di affrontare.

Le riforme delle pen­sioni nel 1992 (Amato), nel 1995 (Dini) e nel 2011 (Monti-Fornero) hanno inol­tre uti­liz­zato il cosìd­detto con­flitto gene­ra­zio­nale per giu­sti­fi­care le misure adot­tate in base alla reto­rica che «i gio­vani pagano le pen­sioni degli anziani». In realtà, gli inter­venti hanno inciso nega­ti­va­mente sulla situa­zione dei lavo­ra­tori pros­simi alla pen­sione, ma ancor di più hanno modi­fi­cato le pro­spet­tive pre­vi­den­ziali delle gene­ra­zioni più gio­vani. Con l’assunto che lo stato sociale è un lusso in tempi di crisi, la poli­tica ha perso di vista uno dei suoi com­piti prin­ci­pali: garan­tire le con­di­zioni di vita della popo­la­zione, a par­tire dalla piena occu­pa­zione. Se il Pil non cre­sce, tutta la spesa (pri­vata e pub­blica) diventa inso­ste­ni­bile. Inol­tre, se il Pil dimi­nui­sce come in Ita­lia — ormai è pros­simo a quello del 2000 -, il rap­porto tra spesa sociale (pre­vi­den­ziale in par­ti­co­lare) e pro­dotto interno lordo tende ad alzarsi. Il pro­blema non è la spesa sociale, piut­to­sto il deno­mi­na­tore che anno dopo anno non cresce.
Le iper­bo­li­che denunce di spesa pre­vi­den­ziale fuori con­trollo, ormai sal­da­mente al di sopra del 16% del Pil, nascon­dono qual­cosa che in troppi si osti­nano a non vedere. Se depu­riamo la pre­vi­denza dall’imposta Ire e dal Tfr, quest’ultimo isti­tuto non fa parte dello stato sociale – è denaro dei lavo­ra­tori -, il rap­porto previdenza/Pil scende al di sotto del 13%. In altri ter­mini, l’Inps (ban­co­mat) tra­sfe­ri­sce ogni anno allo stato qual­cosa come 50 mld di euro. A que­sto pro­po­sito sug­ge­ri­sco un’altra pre­ziosa let­tura: Rap­porto sullo Stato Sociale 2015, curato da Felice Roberto Piz­zuti (pp. 393–452).
Gian Paolo Patta ana­lizza la spesa pre­vi­den­ziale anche da un punto di vista poco inda­gato. L’Inps con il pas­sare degli anni è diven­tato un isti­tuto gigan­te­sco con un bilan­cio unico. All’interno del bilan­cio tro­viamo fondi in attivo (quelli dei lavo­ra­tori dipen­denti e della gestione pre­sta­zioni tem­po­ra­nee), e fondi in pro­gres­siva per­dita (elet­trici, tra­sporti e le tre gestioni dei lavo­ra­tori auto­nomi – arti­giani, com­mer­cianti e col­ti­va­tori diretti, coloni e mez­za­dri). In altri ter­mini, il flusso di con­tri­buti dei lavo­ra­tori dipen­denti e dei para­su­bor­di­nati finan­ziano le pen­sioni di chi versa meno con­tri­buti. Un punto sem­pre tra­scu­rato, salvo che per l’adeguamento dell’aliquota dei lavo­ra­tori para­su­bor­di­nati. Infatti, la gran parte dei lavo­ra­tori auto­nomi paga un’aliquota con­tri­bu­tiva del 22% sulla base di un red­dito figu­ra­tivo, sta­bi­lito dal Mini­stero del Lavoro, di 15 mila euro, con­tro un’aliquota del 33% dei lavo­ra­tori dipen­denti e con red­dito «impo­ni­bile» deci­sa­mente più alto di quello autonomo.
Primo rifor­mare le pen­sioni, non rinun­cia a for­mu­lare ipo­tesi di riforma strut­tu­rale del sistema pre­vi­den­ziale, intro­du­cendo degli ele­menti che richie­dono una mag­giore atten­zione e appro­fon­di­mento. La prima e non banale pro­po­sta è di sepa­rare assi­stenza, pre­vi­denza e mer­cato del lavoro. Non si tratta solo di cosmesi con­ta­bile: la sepa­ra­zione di pre­vi­denza, assi­stenza e mer­cato del lavoro avrebbe il van­tag­gio di inte­grare l’assistenza con l’attività di Comuni, Regioni e del sistema sani­ta­rio, met­tendo al cen­tro la per­sona che riceve que­ste pre­sta­zioni, in rela­zione alla spe­ci­fica situa­zione red­di­tuale e di pre­sta­zione; un’autonoma gestione delle poli­ti­che del mer­cato del lavoro per­met­te­rebbe anche la neces­sa­ria inte­gra­zione tra poli­ti­che attive e poli­ti­che pas­sive con pre­ziose siner­gie tra Stato e Regioni, con­sen­tendo di uti­liz­zare tutti i fondi che i lavo­ra­tori ver­sano a que­sto fine per soste­nere quelli che restano disoc­cu­pati per lun­ghi periodi (i disoc­cu­pati attual­mente in Ita­lia non hanno nes­sun sostegno).
Per quanto riguarda la pre­vi­denza, è evi­dente che la soli­da­rietà deve avere un pre­sup­po­sto: i con­tri­buti devono essere uguali per tutti i lavo­ra­tori. Inol­tre, Gian Paolo Patta, imma­gina i fondi pre­vi­den­ziali gestiti dai lavo­ra­tori che eleg­gono i pro­pri rap­pre­sen­tanti perio­di­ca­mente, e la stessa cosa dovrebbe acca­dere per i lavo­ra­tori auto­nomi. La fina­lità sug­ge­rita è quella di garan­tire la soste­ni­bi­lità del fondo stesso, men­tre allo stato spet­te­rebbe il com­pito di vigilare.

Fonte: il manifesto

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.