di Roberto Romano
Quando la politica e la società sono investite da una crisi
economica, lunga e profonda come quella iniziata nel 2007, i temi
fondamentali del legame sociale contemporaneo sono messi in
discussione. Il caso più evidente è quello dello stato sociale.
Costruito dall’Inghilterra tra il 1942–45 in piena seconda guerra
mondiale sulla base del Piano di protezione sociale
elaborato da William Beveridge, è stato progettato a partire da
un sistema previdenziale unificato e obbligatorio per tutti
i cittadini, capace di coprire i periodi d’interruzione o perdita
della capacità di guadagno; un sistema coerente e articolato di
servizi sanitari, gratuito e aperto a tutti, pensati anche per
prevenire le malattie. Al centro del progetto, c’era la piena
occupazione, un requisito indispensabile per la sua
sostenibilità e per favorire lo sviluppo di una «libertà dal
bisogno».
Con la crisi, ci sono contrazione del Pil, riduzione degli
occupati — e conseguente crescita della disoccupazione -,
polarizzazione del reddito (una delle cause della diffusione della
povertà): fattori che hanno eroso il senso comune di un acquisito
benessere. È soprattutto nei Paesi industrializzati che questi
fenomeni sono diventati manifesti.
Ma è ben prima della crisi che la
politica europea e italiana in particolare hanno pianificato
politiche sociali e economiche in base a una logica opposta
a quella emersa dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le ricette
neoclassiche non abbiano fornito prova di grande lungimiranza.
Inoltre, la crisi ha alimentato la convinzione di avere fin qui
vissuto sopra le proprie capacità e/o risorse. Le prime forme di
protezione sociale colpite sono state proprio quelle che segnalano
la presenza di una società giusta o ingiusta: la previdenza e la
sanità.Gian Paolo Patta, già segretario nazionale della Cgil, sottosegretario alla sanità con il secondo governo Prodi, padre del testo unico su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e rappresentante della Cgil nel Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inps, indaga, nel volume Primo riformare le pensioni (Ediesse pp. 128, euro 13), il sistema previdenziale, sottolineando come gli interventi adottati dal governo Monti e dall’allora Ministra Fornero hanno trasformato la previdenza nel bancomat di quasi tutti i governi venuti dopo. Oltre a questo, sono interventi classisti che non risolvono nessuno dei problemi strutturali che pretendevano di affrontare.
Le riforme delle pensioni nel 1992 (Amato), nel 1995 (Dini) e nel
2011 (Monti-Fornero) hanno inoltre utilizzato il cosìddetto
conflitto generazionale per giustificare le misure adottate in
base alla retorica che «i giovani pagano le pensioni degli anziani».
In realtà, gli interventi hanno inciso negativamente sulla
situazione dei lavoratori prossimi alla pensione, ma ancor di più
hanno modificato le prospettive previdenziali delle generazioni
più giovani. Con l’assunto che lo stato sociale è un lusso in tempi di
crisi, la politica ha perso di vista uno dei suoi compiti
principali: garantire le condizioni di vita della popolazione,
a partire dalla piena occupazione. Se il Pil non cresce, tutta la
spesa (privata e pubblica) diventa insostenibile. Inoltre, se il
Pil diminuisce come in Italia — ormai è prossimo a quello del 2000
-, il rapporto tra spesa sociale (previdenziale in particolare)
e prodotto interno lordo tende ad alzarsi. Il problema non è la spesa
sociale, piuttosto il denominatore che anno dopo anno non cresce.
Le iperboliche denunce di spesa previdenziale fuori controllo,
ormai saldamente al di sopra del 16% del Pil, nascondono qualcosa
che in troppi si ostinano a non vedere. Se depuriamo la previdenza
dall’imposta Ire e dal Tfr, quest’ultimo istituto non fa parte dello
stato sociale – è denaro dei lavoratori -, il rapporto previdenza/Pil
scende al di sotto del 13%. In altri termini, l’Inps (bancomat)
trasferisce ogni anno allo stato qualcosa come 50 mld di euro.
A questo proposito suggerisco un’altra preziosa lettura: Rapporto sullo Stato Sociale 2015, curato da Felice Roberto Pizzuti (pp. 393–452).
Gian Paolo Patta analizza la spesa previdenziale anche da un
punto di vista poco indagato. L’Inps con il passare degli anni
è diventato un istituto gigantesco con un bilancio unico.
All’interno del bilancio troviamo fondi in attivo (quelli dei
lavoratori dipendenti e della gestione prestazioni temporanee),
e fondi in progressiva perdita (elettrici, trasporti e le tre
gestioni dei lavoratori autonomi – artigiani, commercianti
e coltivatori diretti, coloni e mezzadri). In altri termini, il
flusso di contributi dei lavoratori dipendenti e dei
parasubordinati finanziano le pensioni di chi versa meno
contributi. Un punto sempre trascurato, salvo che per l’adeguamento
dell’aliquota dei lavoratori parasubordinati. Infatti, la gran
parte dei lavoratori autonomi paga un’aliquota contributiva del
22% sulla base di un reddito figurativo, stabilito dal Ministero
del Lavoro, di 15 mila euro, contro un’aliquota del 33% dei
lavoratori dipendenti e con reddito «imponibile» decisamente più
alto di quello autonomo.
Primo riformare le pensioni, non rinuncia a formulare ipotesi
di riforma strutturale del sistema previdenziale, introducendo
degli elementi che richiedono una maggiore attenzione
e approfondimento. La prima e non banale proposta è di separare
assistenza, previdenza e mercato del lavoro. Non si tratta solo di
cosmesi contabile: la separazione di previdenza, assistenza
e mercato del lavoro avrebbe il vantaggio di integrare l’assistenza
con l’attività di Comuni, Regioni e del sistema sanitario, mettendo
al centro la persona che riceve queste prestazioni, in relazione
alla specifica situazione reddituale e di prestazione;
un’autonoma gestione delle politiche del mercato del lavoro
permetterebbe anche la necessaria integrazione tra politiche
attive e politiche passive con preziose sinergie tra Stato
e Regioni, consentendo di utilizzare tutti i fondi che
i lavoratori versano a questo fine per sostenere quelli che restano
disoccupati per lunghi periodi (i disoccupati attualmente in
Italia non hanno nessun sostegno).
Per quanto riguarda la previdenza, è evidente che la solidarietà
deve avere un presupposto: i contributi devono essere uguali per
tutti i lavoratori. Inoltre, Gian Paolo Patta, immagina i fondi
previdenziali gestiti dai lavoratori che eleggono i propri
rappresentanti periodicamente, e la stessa cosa dovrebbe accadere
per i lavoratori autonomi. La finalità suggerita è quella di
garantire la sostenibilità del fondo stesso, mentre allo stato
spetterebbe il compito di vigilare.
Fonte: il manifesto
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