La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 settembre 2015

I segni del genocidio

di Anna Maria Rivera
Lo sap­piamo: ricor­rere a parole come geno­ci­dio o Shoah per nomi­nare altre stragi di esseri umani rischia di aval­lare o ali­men­tare il revi­sio­ni­smo. Eppure le istan­ta­nee più recenti a prova del trat­ta­mento dei pro­fu­ghi e della loro eca­tombe ine­so­ra­bile con­ten­gono segni evo­canti la semio­tica del genocidio.
Con la pro­li­fe­ra­zione di muri e fili spi­nati; le masse di cada­veri di asfis­siati durante tra­sporti disu­mani; la mar­chia­tura di massa degli esuli, bam­bini com­presi, a ren­dere let­te­rale la loro stig­ma­tiz­za­zione; i campi per migranti irre­go­lari, con topo­gra­fia e rou­tine quo­ti­diana simili a quelle dei lager…
La più stra­ziante delle imma­gini, quella del cor­pi­cino esa­nime sulla spiag­gia, vestito di tutto punto come per un viag­gio di pia­cere, è non solo l’icona della vit­tima asso­luta, ma anche la rica­pi­to­la­zione potente di una strage spesso bana­liz­zata o ridotta a sin­gole cifre o epi­sodi, sia pur seriali. Quest’ecatombe ha respon­sa­bili poli­tici ben defi­niti, che non sono certo in pri­mis i «traf­fi­canti».
Essa è, infatti, il frutto di un dise­gno, sia pur da appren­di­sti stre­goni. I quali, men­tre face­vano dell’Europa sem­pre più una for­tezza, con­tri­bui­vano a desta­bi­liz­zare e deva­stare ampie aree del mondo con poli­ti­che di sfrut­ta­mento neo­co­lo­niale, guerre e altri inter­venti mili­tari, senza cal­co­larne le con­se­guenze in ter­mini di esodi di massa obbligati.
Eppure v’è ancora chi vor­rebbe non essere distur­bato nell’opera di rimo­zione. Cer­tuni, non pochi, hanno pro­te­stato, tra­mite radio e web, per «l’intento ricat­ta­to­rio» di chi ha voluto pub­bli­care le imma­gini del bimbo anne­gato. È come dire che Robert Capa avrebbe fatto bene a tener nasco­sta la foto­gra­fia della morte del mili­ziano durante la guerra civile spa­gnola. E il viet­na­mita Nick Ut avrebbe dovuto tenersi nel cas­setto l’altrettanto cele­bre imma­gine del 1972 che, com­parsa sulle prime pagine dei gior­nali di tutto il mondo, gli sarebbe valsa un pre­mio Puli­tzer: quella dei bam­bini, una di loro com­ple­ta­mente nuda, che fug­gono da un attacco al napalm com­piuto dall’esercito sta­tu­ni­tense. Né si sarebbe dovuta ren­der pub­blica l’istantanea, scat­tata nel 2004, che mostra la sol­da­tessa ame­ri­cana Lynn­die England men­tre, nella pri­gione di Abu Ghraib, tra­scina al guin­za­glio il corpo di un pri­gio­niero ira­cheno, osce­na­mente de-umanizzato: anch’egli nudo e col volto visibile.
Insomma, per quanto scioc­canti, vi sono imma­gini che com­pen­diano con effi­ca­cia il senso di eventi della cui por­tata sto­rica non tutti, in quel momento, sono consapevoli.
Attual­mente siamo di fronte a un evento simile, che segna la disfatta morale dell’Europa che volle fede­rarsi all’insegna di valori quali il rispetto asso­luto dei diritti umani. E che invece oggi s’illustra per due pri­mati: è la meta più migran­ti­cida al mondo; è inca­pace di distri­buire e acco­gliere degna­mente finan­che la quota irri­so­ria di qua­ran­ta­mila richiedenti-asilo, lo 0,0079% in rap­porto alla popo­la­zione dell’Unione europea.

Fonte: il manifesto

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